sabato 14 novembre 2020

LA VILLA IN TUSCIS DI PLINIO IL GIOVANE


Libro V, epist. 6.

Caio Plinio al suo Domizio Apollinare, salve

Ti sono grato per la tua premura. Avendo saputo che mi sarei recato nella mia villa di Toscana per trascorrervi l’estate, mi hai infatti sconsigliato di andarvi, giacché ritieni il luogo insalubre. È vero che quel lembo del territorio dei Tusci che si stende lungo il litorale è poco salutare e pieno di miasmi, ma devi sapere che le mie terre sono discoste dal mare, situate ai piedi degli Appennini, le montagne più salubri che si conoscano. E affinché tu metta da parte ogni apprensione nei miei riguardi, ti descriverò la natura del clima, la conformazione del territorio, le amenità della villa. Sono sicuro, infatti, che sapere queste cose ti farà piacere, così come sarà per me un piacere dartene contezza.
Il clima d’inverno è freddo fino a gelare: ricusa i mirti, gli olivi e tutti gli alberi che necessitano di un ininterrotto tepore; tollera invece abbastanza l’alloro, che in genere fa crescere rigoglioso, giacché, se a volte rinsecchisce, è cosa che non accade più spesso che nei pressi di Roma. L’estate è di una meravigliosa mitezza, l’aria è sempre mossa dallo spirare di qualche corrente, ma sono più frequenti le brezze che non i venti. Vedi molti vecchi, e puoi incontrare nonni e bisnonni di giovani già maturi; ti è perciò possibile ascoltare vecchie storie e fatti risalenti ai nostri antenati, sì che quando arrivi colà, ti sembra di vivere nel secolo passato.
L’aspetto della regione è piacevolissimo, immagina: un anfiteatro immenso, quale soltanto la natura può creare. Una vasta e aperta pianura cinta dai monti; questi ricoperti fin sulla cima di antiche e maestose foreste, dove la cacciagione è varia e abbondante. Lungo le pendici delle montagne i boschi cedui digradano dolcemernte fra colli ubertosi e ricchissimi di humus, i quali possono gareggiare in fertilità coi campi posti in pianura (non è infatti facile trovarvi della roccia nemmeno a cercarla); le loro messi sono abbondanti, forse un po’ più tardive, ma non per questo meno pregiate. In basso l’aspetto del paesaggio è reso più uniforme dai vasti vigneti che da ogni lato orlano le colline, e i cui limiti, perdendosi in lontananza, lasciano intravedere graziosi boschetti. Poi prati ovunque, e campi che solo dei buoi molto robusti con i loro solidissimi aratri riescono a spezzare; quel tenacissimo terreno, al primo fenderlo, si solleva infatti in così grosse zolle che solo dopo nove arature si riesce completamente a domarlo. I prati, pingui e ricchi di fiori, producono trifoglio e altre erbe sempre molli e tenere, come se fossero appena spuntate, giacché tutti i campi sono irrorati da ruscelli perenni. Eppure, benché vi sia abbondanza d’acqua, non vi sono paludi, e questo perché la terra in pendio scarica nel Tevere l’acqua che ha ricevuto e non assorbito. Quel fiume, le cui acque irrorano i campi, essendo navigabile, trasporta verso l’Urbe i prodotti di queste terre, almeno durante l’inverno e la primavera. Col sopraggiungere dell’estate il livello delle acque cala, e col farsi l’alveo quasi asciutto, il corso perde il titolo di gran fiume che gli spetta, riprendendolo poi in autunno. Credimi, proveresti un gran piacere se ti ponessi ad ammirare il panorama dall’alto dei poggi; ti parrebbe infatti di osservare non già un incantevole angolo di mondo, ma un quadro dipinto con incredibile maestria: tanto vario è il paesaggio e così felice la disposizione dei luoghi che i tuoi occhi trarrebbero diletto ovunque si posassero.
La villa è situata alla base di un colle, e gode della stessa vista che se fosse in cima. Il terreno si innalza dolcemente, con una pendenza quasi impercettibile, tanto che mentre ti sembra di non essere affatto salito, già ti trovi sulla parte più alta. Alle spalle è l’Appennino, che puoi scorgere in lontananza, da cui, anche nei giorni più limpidi e tranquilli, spirano i venti; questi non sono mai impetuosi, e nemmeno poi così freddi, giacché la stessa distanza da cui soffiano li mitiga e addolcisce. L’edificio guarda in prevalenza a mezzodì, e a partire dalla sesta ora d’estate, un po’ più tardi d’inverno, sembra invitare il sole attraverso l’ampio portico che sul davanti si protende a solatio. Molte stanze vi prospettano, e anche un atrio sul gusto antico.
Davanti al portico è una terrazza attraversata da siepi di bosso; più in basso ce n’è una dove invece il bosso è intagliato a formare figure di belve che si fronteggiano; ancora più giù si stende l’acanto, così ondeggiante che nell’insieme quasi lo si direbbe fluido. Gira tutto intorno un vialetto chiuso da arbusti mantenuti bassi e tagliati in forme diverse; da questo si allunga un viale per le carrozze che forma una specie di pista attorniata da bossi dalle più svariate fogge e da arboscelli tenuti bassi ad arte. Tutto questo è infine protetto da un muro: un bosso sistemato a gradini lo ricopre interamente e lo cela. Oltre questo, un prato di aspetto non meno ammirevole delle suddette siepi curate con arte; infine i campi, ancora prati, e molti boschetti.
In capo al portico si apre un triclinio. Dalla sua porta a due battenti si può scorgere l’ultima terrazza, l’adiacente prateria e gran parte della campagna circostante; dalle finestre si domina di qua sia un lato dell’antistante terrazza che l’altra porzione sporgente della facciata, di là invece il bosco e i prati del vicino ippodromo. Di fronte al porticato, rivolto verso il suo centro, ma in posizione più arretrata, si trova un appartamento che racchiude un cortiletto ombreggiato da quattro platani. Una gran quantità d’acqua scaturisce da una fontana marmorea, i cui zampilli, rompendosi in lievi spruzzi, formano una delicata pioggerellina che, ricadendo tutt’intorno, innaffia i circostanti platani e tutto ciò che vi si trova sottoposto. In questo apparetamento vi è una camera da riposo che non lascia entrare né la luce né gli schiamazzi, né altri rumori, e presso la camera un tinello dove ogni giorno si può cenare con persone di confidenza. Da un lato di questo si scorge quel cortiletto cui ho accennato, dall’altro il portico e tutto quel che vi sta oltre. C’è anche un’altra camera che riceve ombra e frescura da un vicino platano; le pareti di questa sono ornate di splendidi marmi nella parte inferiore, mentre in quella superiore gareggia con i marmi un magnifico affresco raffigurante dei rami con degli uccelli che vi si posano sopra. In essa vi è una piccola fontana, sotto la fontana un bacino, e tutt’intorno parecchi canaletti che creano un piacevolissimo mormorio.
All’estremità opposta del portico una grande camera da letto fa riscontro alla sala da pranzo; da alcune finestre si scorge l’ampia terrazza antistante, da altre il prato preceduto dalla piscina. Questa è situata proprio sotto le finestre, ed è piacevole sia alla vista che all’udito: l’acqua, infatti, cadendo dall’alto, scroscia e spumeggia sul marmo che la raccoglie. Anche questa camera è inondata da molto sole, ed è perciò tiepidissima d’inverno. È comunque anche collegata all’ipocausto sotterraneo, così che se il tempo è freddo e nemboso, quello provvede a riscaldarla inviandovi il suo vapore. Segue l’apoditerio del bagno, spazioso e gaio, quindi la sala del frigidarium, nella quale è una grande vasca colma d’acqua fredda. Se poi vuoi nuotare comodamente e in acqua più tiepida, vi è nella corte una piscina, e lì presso un pozzo che ti permette di rinfrescarti nuovamente, se ne hai abbastanza del calore. Dalle sale del frigidarium, generosamente illuminate, si passa poi a quelle del calidarium, più soleggiate, perché protese a solatio. Ivi sono tre vasche a livello del pavimento, due esposte ai raggi diretti del sole, la terza raggiunta solo dai raggi più obliqui, ma non per questo meno illuminata. All’apoditerio è sovrapposto lo sferisterio, che consente molte specie di esercizi e a molte squadre di giocatori. Non lungi dal bagno una scalinata conduce al criptoportico, ma prima devi passare per tre appartamenti. Di essi uno guarda quel cortiletto dai quattro platani, uno la prateria e l’altro le vigne, avendo quest’ultimo per visuale gli opposti punti cardinali.
All’estremità del criptoportico, e da questo ricavata, è una camera da letto che guarda il maneggio, le vigne e i monti. Vi è annessa un’altra camera da letto con un’ottima esposizione al sole, soprattutto d’inverno. Ha poi da qui inizio un altro appartamento che congiunge la villa all’ippodromo.
Questo, in breve, l’aspetto e l’impiego della parte frontale della villa.
Lateralmente, il criptoportico conduce agli appartamenti estivi, in posizione un po’ più elevata, da cui più che dominare i vigneti, addirittura sembra di poterli toccare. Al centro è una grande sala da pranzo che riceve dalle pendici dell’Appennino un’aria saluberrima. Dietro essa guarda dalle sue ampie finestre le vigne, e la stessa vista si presenta, attraverso il criptoportico, da tutte le porte, sì che sembra da queste poter a quelle direttamente accedere.
Sul lato senza finestre della sala da pranzo si trova una scala da cui nascostamente provengono le vivande da servire nei banchetti. Alla fine il criptoportico conduce a una camera da cui si gode di una vista non meno bella su di esso che sui vigneti. Sottostante è un’altra galleria simile a un sotterraneo; d’estate l’atmosfera è resa particolarmente gradevole dal fresco che vi rimane imprigionato, e poiché non sono richiamate né lasciate entrare correnti, la temperatura è qui sempre costante. Dietro queste due gallerie, là dove finisce il triclinio, ha inizio un porticato dove d’inverno è piacevole trattenersi fino a mezzogiorno, d’estate anche fin oltre il tramonto. Di là si arriva a due appartamenti, di cui uno di quattro e l’altro di tre camere, le quali, secondo il volgere del sole, godono ora di molta luce, ora invece dell’ombra.
Il maneggio supera in bellezza qualsiasi altra parte della villa, ciascuna già di per sé amenissima. Situato in posizione centrale, si dispiega subito agli occhi di chi vi entra. I bei platani che lo circondano sono tutti rivestiti di edera, così che se in alto essi verdeggiano per le loro fronde, lo stesso è pure in basso per quelle che non sono le loro, ma di cui pure si arricchiscono come delle proprie. L’edera serpeggia lungo il tronco e i rami e, passando da un platano all’altro, li unisce tutti in un unico insieme. Di mezzo a essi spunta il bosso; più esternamente il bosso è cinto dal lauro, la cui ombra si confonde con quella dei platani. Il tracciato prima rettilineo dell’ippodromo si incurva a semicerchio nell’ultimo tratto, dove muta anche l’aspetto: qui, infatti, molti cipressi coronano e proteggono il tracciato immergendolo in un’ombra più densa e opaca, mentre le piste concentriche interne (ve ne sono parecchie) ricevono una luce purissima. Nella frescura e nell’ombra, qua e là inframezzata da piacevoli sprazzi di sole, crescono bellissime rose. Dopo molte e varie curve, ridiventando rettilineo, il tragitto dell’ippodromo si fa segmentato: i lunghi filari di bosso vengono allora regolarmente interrotti da parecchie piste trasversali. Fra queste si trova qui ora una piccola aiuola, là lo stesso bosso potato in mille fogge, spesso a guisa di lettere che a volte dicono il nome del padrone di casa, a volte quello del giardiniere; vi si alternano delle basse colonne a forma di cono o degli alberi da frutta, così che fra tanta raffinatezza cittadina, vi è come portato d’incato l’aspetto della campagna. Il modesto spazio al centro è da ogni parte ornato da più piccoli platani messi a dimora. Dietro questi gira da una parte e dall’altra il flessuoso acanto, e poi ancora varie figure e nomi.
In capo all’ippodromo, sotto un pergolato sostenuto da quattro colonnine di marmo caristio, si trova una panca semicircolare di marmo bianco. Da questa, quasi come spremuta dal peso di chi vi si corica, l’acqua sprizza da alcuni canaletti in una pietra incavata, venendo poi raccolta da un grazioso bacino di marmo che, per un raffinato sistema di regolamentazione, rimane colmo senza straripare. I vassoi per gli antipasti e le portate più pesanti vengono poggiati sui bordi, mentre le altre vivande galleggiano su vassoi a forma di navicelle o di uccelli dall’uno all’altro commensale. Dirimpetto una fontana fa zampillare l’acqua che da un’altra parte si riprende, giacché, lanciata in alto, questa ricade su se stessa finendo in un sistema di canali che la inghiottono e la risospingono. Una piccola camera posta di contro al sedile conferisce a quest’angolo tanta grazia quanta ne riceve. Essa, tutta splendente di marmi, domina dalle sue porte il verde, che quasi sembra volervi di prepotenza entrare; e ancora verzura dall’alto come dal basso, dalle sue finestre superiori come dalle inferiori. All’interno un’alcova forma con la camera ora una cosa sola, ora invece due ambienti separati. Quivi è un letto, e da ogni parte finestre, ma la luce è temperata dall’ombra circostante: come se non bastasse, infatti, una rigogliosissima vite s’inerpica lungo la facciata fino a raggiungere il tetto. Quivi ti par di giacere non già nella tua casa, ma in un bosco, con l’unica differenza che se piove non rischi di bagnarti. Anche qui è una sorgente che si mantiene a livello del pavimento, la cui acqua così come sgorga è ingurgitata.
Disposti qua e là per il maneggio, dei sedili di marmo tornano graditi non meno della stessa camera a coloro che il passeggiare ha stancato. Presso i sedili delle fontanelle, sì che per tutto l’ippodromo mormorano ruscelletti artificiali, docili alla mano che vi si immerge: essi irrorano ora l’una ora l’altra aiuola, e a volte tutte ad un tempo.
Se non mi fossi proposto di percorrere con te, in questa lettera, ogni angolo della mia proprietà, avrei già da un pezzo evitato di apparirti troppo chiacchierone. Non ho infatti avuto il minimo timore che potesse sembrarti noioso alla lettura ciò che di certo non lo sarebbe stato alla vista, soprattutto perché ho pensato che avresti sempre potuto riposarti e interrompere la lettura quando ti sarebbe piaciuto. Ho infatti supposto che tu potessi far questo proprio come quando a un certo punto ci si siede durante una visita.
Confesso, comunque, d’essermi lasciato un po’ trasportare dalla mia inclinazione: amo infatti tutte le cose che t’ho descritto, le quali ho in gran parte io stesso iniziate, e se non iniziate, condotte a termine con gran passione. Insomma (e perché mai non dovrei essere sincero e dirti come la penso, anche a rischio di commettere un errore?), io ritengo che il primo dovere di uno scrittore sia non solo quello di scegliere il tema, ma di porsi parimenti molte domande una volta che abbia iniziato a scrivere, avendo sempre presente che non sarà prolisso se rimarrà nel tema, mentre lo sarà molto se qualcosa lo trarrà sovente fuori traccia, facendolo divagare. Vedi con quanti versi Omero e con quanti Virgilio descrivano l’uno le armi di Achille, l’altro quelle di Enea; eppure entrambi sono brevi, non prolissi, perché sono mirabilmente riusciti a rendere ciò che avevano in animo e che si erano proposti di dire. Vedi come Arato ricerchi ed enumeri anche le più piccole stelle; pure egli mantiene la misura: infatti, ciò che in lui può sembrare digressione, altro non è che il soggetto stesso dell’opera. Parimenti io, «se il poco al molto si può paragonare», quando ho cercato di porre dinanzi agli occhi tuoi l’intera mia villa, se pure a volte deve esserti sembrato che mi sia dilungato su cose estranee e che abbia rischiato di uscire fuor di strada, ciò, stanne pur certo, non è stato perché più ampia ti apparisse la lettera, bensì perché davvero vasta è la villa.
Cionondimeno ritorno al punto da cui cominciai per non essere condannato dalla stessa legge da me menzionata con l’attardarmi troppo nella digressione. Ora conosci il motivo perché io preferisca la mia villa di Toscana a quelle di Tuscolo, Tivoli e Preneste. Infatti, oltre a tutte le ragioni citate, la possibilità di riposo è ivi maggiore, più completa, e senza noie; non è inoltre necessario indossare la toga e non c’è nessun seccatore nelle vicinanze; tutto è calma e pace. A ciò, naturalmente, si aggiungono la salubrità della regione, la serenità del cielo, e l’aria, più pura che altrove. Là sto bene di spirito e di corpo, giacché lo spirito esercito con lo studio, il corpo con la caccia. Anche la mia gente vi sta meglio in salute che in qualunque altro posto; anzi posso perfino dire (e chiedo venia se lo dico!) che fino a oggi nessuno di coloro che condussi colà ho perduto. Che gli dèi conservino per l’avvenire a me questa soddisfazione, al luogo una tal fama. Saluti.

Plinio il Giovane

(Città di Castello, Valtiberina, PG)

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