lunedì 28 giugno 2021

Battaglia del Lago Trasimeno

24 giugno 217 a.C. Battaglia del Lago Trasimeno. Annibale Barca, Comandante Supremo dell'esercito cartaginese, sconfigge pesantemente l'esercito romano di Gaio Flaminio presso il Lago Trasimeno. La mattina del 24 giugno si fronteggiarono, presso il Lago Trasimeno (Umbria), l'esercito cartaginese guidato da Annibale Barca e quello romano del Console Gaio Flaminio Nepote. La battaglia evidenzió il genio militare, tattico e strategico di Annibale Barca, ancora oggi ritenuto, a ragione, tra i più grandi generali, se non il più grande, dell'antichità. La battaglia del Trasimeno si inserisce nel contesto più ampio della II Guerra Punica (218 - 204 a.C.), iniziata con l'assedio cartaginese di Sagunto e terminata a Zama con la vittoria finale romana. Annibale fu senza dubbio il protagonista indiscusso del secondo conflitto romano-punico e la battaglia del Trasimeno ne consacrò, già ai suoi tempi, la fama di grandissimo general ritenuto imbattibile sul campo aperto. Condottiero di esperienza, astuto e colto, sin da giovane al seguito del padre Amilcare nelle campagne militari di Spagna e nel corso della Prima Guerra Punica, Annibale, ottenuto il comando supremo dell'esercito cartaginese a ventiquattro anni, comprese che l'unica soluzione per sconfiggere Roma fosse attaccarla sul suo territorio, entro i suoi confini ("portarle la guerra in casa"), ben conscio delle precedenti sconfitte subite dal padre. Ottenuto il consenso dei membri del Consiglio cartaginese, Annibale, al comando di un esercito di mercenari africani, iberici, celtiberi, che contava anche trentatré elefanti, partì dai possedimenti cartaginesi di Iberia, passó i Pirenei, giunse in Gallia e, dopo aver valicato le Alpi (impresa eccezionale per l'epoca), raggiunse la Valle Padana (ad ingrossare le fila dell'esercito si erano aggiunti nel frattempo alleati Galli, specialmente Boi e Insubri). Dopo aver ottenuto le prime importanti vittorie sui romani presso i fiumi Ticino e Trebbia (vicino Piacenza) nel 218 a.C., Annibale si diresse verso l'Etruria, giungendo a Fiesole nella primavera del 217. Obiettivo primario di Annibale era sollevare le popolazioni italiche contro Roma, procurandosi il loro sostengo, isolando così l'Urbe e obbligandola alla resa. La sua strategia prevedeva, quindi, di attaccare il console Gaio Flaminio Nepote, al comando di due legioni (venticinquemila uomini), cui spettava il controllo dei passi dell'Etruria, prima che potesse unirsi con le legioni del console Gneo Servilio Gemino. Il Barcide dapprima mise a ferro e fuoco i territori etruschi spingendo Flaminio a inseguirlo per evitare che raggiungesse direttamente Roma senza essere ostacolato. Annibale colse quindi l'occasione per attirare Flaminio in uno stretto passo, direzione Via Flaminia, che si trovava tra i Monti di Cortona e le sponde nord occidentali del Lago Trasimeno; non molto distante dal lago, su un colle che tagliava obliquamente il passo, sul finire della via, Annibale fece costruire un accampamento, ben visibile dai nemici, dove collocò la fanteria pesante Iberica e Libica (tra le quindicimila e le diciottomila unità), posizionò invece sull'arco collinare a occidente del passo le truppe di fanteria celtica (circa quindicimila uomini) e la cavalleria (seimila unità), fra i Celti e la fanteria pesante, ben nascoste tra la fitta vegetazione e la boscaglia. A sud-est dell'accampamento della fanteria pesante Annibale posizionò invece i reparti di fanteria leggere e i frombolieri delle Baleari (ottomila uomini) ben nascosti alla vista nel territorio collinare a occidente del passo, di modo che al segnale del generale cartaginese, potessero chiudere la via di fuga ai romani lungo le sponde del Trasimeno. Scopo di Annibale era chiudere i romani in una morsa, sfruttando il territorio, il fattore sorpresa e le capacità militari dei suoi reparti: non appena le legioni di Flaminio fossero entrate nel vallone attraverso lo stretto passo, sarebbero state attaccate di sorpresa sui fianchi, i soldati romani accerchiati tra le colline e il lago, mentre la fanteria pesante cartaginese, nerbo dell'esercito, avrebbe attaccato il centro dello schieramento nemico. La mattina del 24 giugno i romani si inoltrarono nella valle tra le colline e il lago, nella direzione dell'accampamento di Annibale, l'unico visibile. La nebbia che quel giorno ricoprì l'area fu un ulteriore fattore naturale a vantaggio del Barcide. Una volta che l'esercito di Flaminio penetrò completamente nella valle, con alle spalle il lago, Annibale diede il segnale alle truppe nascoste di attaccare contemporaneamente: i fanti celtici e i cavalieri attaccarono il fianco sinistro dell'esercito romano, spingendo i soldati nemici verso il lago, mentre la fanteria leggera e i frombolieri, aggirando il colle dietro il canale erano nascosti, chiusero la via di fuga ai romani attaccando di sorpresa il fianco destro dell'esercito dopo aver effettuato una convergenza a nord. Annibale attacco frontalmente con la fanteria pesante. Accerchiati e colti di sorpresa, i romani soccombettero sotto i colpi dei Cartaginesi o morirono annegati nel lago nel tentativo di sfuggire alla morsa mortale del Barca. Stessa sorte toccava a Flaminio, ucciso sul campo dalla cavalleria celtica. Furono circa quindicimila le perdite subite dai romani, diecimila circa i soldati fatti prigionieri, seimila soltanto riuscirono a scampare al massacro; dal lato cartaginese furono invece minime (tra i millecinquecento e i duemilacinquecento). Queste stime ci sono state consegnate dagli storici d'età classica Tito Livio e Polibio, attenti studiosi dei fatti, precisi nel descrivere le battaglie combattute da Roma nel corso delle Guerre Puniche (nonostante l'ottica filoromana preponderante). La pesante disfatta, la morte di Flaminio, la distanza delle due legioni di Servilio da Roma, la paura e la preoccupazione dilaganti nell'Urbe per l'eventualità di un attacco prossimo, spinsero i comizi curiati a nominare dittatore Quinto Fabio Massimo, che sarà detto il Temporeggiatore (il "Cunctator") per la strategia tesa a prendere tempo attaccando Annibale con azioni di disturbo, guerriglia e piccoli agguati, che tuttavia non servì ad evitare la più grande sconfitta subita dalla Res Publica a Canne, l'anno successivo, nel 216, contro un Annibale ormai alle porte di Roma.
(Nicolò Maggio)
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domenica 27 giugno 2021

La Suburra

Sinonimo di quartiere malfamato. la Suburra era il cuore della Roma malfamata, ma tollerata dal potere, era soprattutto il cuore dell’altra Roma, quella dei bordelli e delle bettole poco raccomandabili, tollerate dal potere e dai ricchi. 
Alla libidine atroce; ogni strada era suburra”. UN QUARTIERE POCO RACCOMANDABILE: tra le sue strade strette, sporche e rumorose a partire dal III secolo a. C. si svolgeva la vita quotidiana della Roma popolare abitata da teatranti, gladiatori e cortigiane. Di tutti i quartieri popolari di Roma, Suburra era il più malfamato e il più pericoloso: qui si trovavano le bettole più malfamate, rifugio di prostitute, ladri e ogni genere di fuorilegge. Dopo il tramonto, camminare tra le sue strade era una sfida al destino: i delitti erano all’ordine del giorno e chi era costretto ad attraversare il quartiere lo faceva scortato da schiavi armati e muniti di fiaccole. Anche per questo, e per proteggersi dai ripetuti incendi della Suburra, i ricchi romani al potere si erano limitati a far erigere un muro attorno al quartiere, ottenendo l’effetto di accentuare il dislivello tra Roma e Suburra, la cui etimologia - secondo alcuni - rimanderebbe proprio alla posizione “sub vrbe”, cioè più bassa rispetto a quella della città. Ma come tutti i luoghi popolari, anche la Suburra ebbe le sue celebrità: vi nacquero Giulio Cesare (100 a. C. - 44 a. C.) e il poeta Marziale (40-104). A LUCI ROSSE: ma Suburra era soprattutto il cuore dell’altra Roma, quella dei bordelli e delle bettole poco raccomandabili, tollerate dal potere e dai ricchi che nel quartiere a luci rosse si recavano per soddisfare la propria lussuria. Le visite di Valeria Messalina (25-48), moglie dell’imperatore Claudio, erano proverbiali. Raccontano i biografi Svetonio e Tacito che si travestiva da prostituta (bastava togliersi la stola delle matrone e indossare una parrucca rossa) per recarsi nel quartiere, dove si concedeva a ripetizione. Durante le sue uscite hard in incognito usava un nome fittizio: Lisisca, ovvero “donna-cagna”. Si racconta che si presentasse nei bordelli con i capezzoli dorati, con il trucco pesante caratteristico delle prostitute, per offrirsi a marinai e gladiatori. Nerone (37-68), invece, vi si recava travestito da poveraccio per saggiare gli umori del popolo sul suo governo (al tempo non esistevano i sondaggi). SUBURRA OGGI: l’anima popolare del quartiere Monti, dove ancora esiste Piazza Suburra, ha resistito nei secoli, per tutto il Medioevo e il Rinascimento, fino al restyling di Roma di fine ottocento, successivo alla Breccia di Porta Pia. Ma dove Papi, invasori e architetti si sono arresi, è arrivata la gentrificazione (rasformazione di un quartiere popolare in zona abitativa di pregio), con conseguente cambiamento della composizione sociale e dei prezzi delle abitazioni, che ha fatto della vecchia Subura romana un luogo alla moda, anche per la sua posizione centrale. Dell’antica Suburra ormai resta solo il valore nominale di “insieme dei quartieri più malfamati di qualsiasi grande città”, che ne ha anche fatto il titolo di un libro sulla Roma criminale, da cui sono nati un film e la serie tv di Netflix. 

giovedì 24 giugno 2021

LE VESTALI, GRANDISSIMI ONORI MA ANCHE GRANDI RESPONSABILITA’

LE VESTALI, GRANDISSIMI ONORI MA ANCHE GRANDI RESPONSABILITA’
Le Vestali erano delle sacerdotesse consacrate alla dea Vesta che avevano come compito principale quello di mantenere sempre vivo il fuoco all’interno del tempio di Vesta nel Foro Romano. Quel fuoco aveva un particolare valore simbolico per Roma perché ne rappresentava la vita e la forza e in quanto tale non doveva spegnersi mai. Inoltre le Vestali erano anche incaricate di preparare gli ingredienti per i sacrifici pubblici o privati. Uno di questi, chiamato mola salsa, a base di farro, veniva utilizzato per cospargere il corpo della vittima e sembra che abbia dato origine al verbo immolare che per l’appunto ha il significato di “ricoprire con salsa mola”. 
Le Vestali erano sei, il loro incarico durava trent’anni e venivano scelte ancora bambine (fra i 6 e i 10 anni) fra le famiglie patrizie. Trent’anni di vita dedicati a Vesta, i primi dieci dei quali venivano considerate novizie, i secondi dieci si dedicavano al culto vero e proprio e l’ultimo decennio lo passavano istruendo le novizie. La vita delle vestali si svolgeva nell’Atrium Vestae, all’interno del Foro Romano (ancora oggi visitabile), accanto al tempio di Vesta. Una sorta di convento dove trascorrevano la loro esistenza in modo indipendente e mantenute a spese dello stato. 
Diventare una vestale era un grandissimo onore: esse infatti erano le uniche donne romane che potevano fare testamento, venivano affrancate dalla patria potestà al momento dell’ingresso nel Collegio, erano fra le poche persone che potevano usare un carro per spostarsi da una parte all’altra della città (gli altri erano costretti a camminare), sedevano nelle prime file del Colosseo, i magistrati lasciavano loro il passo e facevano abbassare i fasci consolari al loro passaggio in segno di rispetto. Inoltre se casualmente incontravano un condannato a morte ne potevano richiedere la grazia. In cambio di tutti questi privilegi si richiedeva di mantenere sempre acceso il fuoco di Vesta e di rimanere vergini per tutto il periodo dei trent’anni. La vestale infatti che avesse causato lo spegnimento del fuoco o che avesse avuto una relazione sessuale durante i trent’anni di servizio veniva condannata a morte. Una morte atroce: dal momento che era una sacerdotessa sacra alla dea Vesta non poteva essere toccata per essere uccisa e quindi veniva seppellita viva. Il rituale prevedeva la fustigazione e poi il trasporto vestita di abiti funebri in un luogo di Roma chiamato per questo motivo Campus Sceleratus, sul Quirinale. Lì veniva rinchiusa in una piccola stanza con un letto, un po’ di pane, acqua, olio e latte. Il sepolcro veniva chiuso e della vestale (che moriva di inedia) se ne perdevano il ricordo e la memoria.
🟦fonte: Mauro Poma. Alla scoperta del Colosseo. Tra mito e realtà. Edizioni Helicon
📌Potete acquistare il libro al link https://amzn.to/3nOImQx
🟨foto: vestale romana
✅@Romarteblog
Fonte: https://www.facebook.com/561898977292707/posts/1936168023199122/

lunedì 14 giugno 2021

TUNICA MOLESTA esecuzione capitale in uso a Roma

Tunica Molesta: una rara esecuzione capitale in uso a Roma
The Tunica molesta: Roman Execution Ad Flammas, è il titolo di una ricerca effettuata da una docente dell'Oregon, Mary Harrsch, su un tipo di esecuzione capitale adottata a Roma in alcune occasioni particolari, una delle quali decisa dall'imperatore Commodo. In effetti era una esecuzione pubblica di grande impatto emotivo per le sofferenze atroci dei condannati che morivano fra le fiamme, come torce umane. Uno dei primi esempi di condanna ad flammas pare sia da addebitare a Nerone, di cui il pittore Siemiradski nell'800 dette una interpretazione in un quadro rimasto famoso per il crudo realismo che emana la tela.
Ho ritenuto opportuno analizzare questo saggio della prof. Mary Harrsch, già docente di storia antica presso l’Università dell’Oregon, più che per la novità dell’argomento, essendo stato stato preceduto di qualche anno da un saggio della prof. Eva Cantarella, quanto piuttosto per la singolare coincidenza per cui due donne abbiano mostrato interesse per un argomento alquanto penoso, quello relativo ai supplizi che in passato venivano inflitti ai colpevoli di vari crimini.
Questo descritto dalla Harrsch è senza dubbio un supplizio atroce, se si pensi che i condannati venivano portati su di una piattaforma su cui erano pronti dei pali ai quali essi erano legati. Ma l’aspetto più crudele era la preparazione del loro indumento, una tunica, appunto, impregnata di pece alla quale gli esecutori davano fuoco ad un segnale del capo, che poteva essere l’imperatore in persona o un incaricato del governo.
Da notare che la Harrsch come documentazione si serve di alcuni autori non molto noti in Italia, fra questi Alan Baker, autore del saggio storico “The Gladiator (Il Gladiatore), The Secret History of Rome’s Warrior Slaves (La Storia Segreta degli Schiavi Guerrieri di Roma). La pagina del testo che descrive nei minimi dettagli tutta la successione delle scene, dal momento in cui 4 condannati vengono portati sulla piattaforma e legati ciascuno ad un palo, con la scena in cui essi iniziano ad ardere come rami secchi a causa della pece che gli aguzzini hanno usato per impregnare le loro tuniche, le urla di terrore che gelano il sangue degli spettatori assiepati intorno al palco sacrificale, e man mano lo strazio di quei poveri corpi che vengono dilaniati dalle fiamme e frantumati lentamente.
Tutta la descrizione in effetti ha molti punti in comune con un film del genere horror, tanto che la Harrsch prudentemente avverte i lettori di astenersi dalla lettura in considerazione della crudeltà estrema delle scene.
Tuttavia non può fare a meno di sottolineare che nel mondo antico vi sono molteplici esempi di descrizioni del genere, soprattutto se si passa in rassegna l’ampia casistica delle opere del teatro tragico, ma anche le opere che appartengono alla vasta produzione della ceramica Attica, che possono inserirsi benissimo nel filone realistico del mondo mitologico Greco.
E proprio uno di questi vasi a fondo nero, tipico della ceramica Attica, viene allegato dalla Harrsch quale esempio di scena di alta drammaticità, dove i personaggi sono Eracle, Nesso e Deianira. La scena è chiaramente tratta dalle storie di Apollodoro, Libro 2.7.7
Ma anche dando uno sguardo alle Leggi delle XII Tavole, uno dei primi esempi di legislazione arcaica Romana, troviamo dei riferimenti di punizione applicata con il fuoco a chi fosse giudicato colpevole di tradimento o incendio doloso. In questo caso non si può fare a meno di rievocare la vecchia e antichissima legge del taglione, quella “dell’occhio per occhio, dente per dente” che il Vangelo bolla come espressione di crudeltà.
Altro testo citato dalla Harrsch come fonte della sua indagine è “Spectacles of Death in Ancient Rome” (Spettacoli di morte nell’antica Roma) di Donald G. Kyle, anche questo noto soprattutto fra gli studiosi del N. America.
Ma particolarmente interessante per i giudizi motivati espressi dall’autore è l’opera di E. M. Coleman, Fatal Charades: Roman Executions as Mythological Enactments (Sciarade fatali: Le esecuzioni capitali Romane come realizzazioni mitologiche). Coleman, afferma la Harrsch, ha messo in risalto il fatto che le esecuzioni capitali ad bestias, cioè quelle in cui i condannati erano dati in pasto alle bestie feroci, erano quelle che godevano il favore delle folle; tuttavia acquistare le bestie era molto costoso e inoltre c’era sempre un certp grado di incertezza circa la volontà delle bestie di “svolgere il loro compito”. La morte per crocifissione, d’altra parte, di solito era troppo lenta, impiegandoci ore e persino gioni interi. Ecco perché la tunica molesta
potrebbe essere stato un metodo di esecuzione che consentiva un certo grado di divertimento a un costo relativamente modesto con un risultato garantito.
Coleman, sostiene la Harrsch, che le cosidette “sciarade fatali” svaniscono dopo la dinastia dei Severi, ma le esecuzioni sul rogo sicuramente continuarono. Per ironia della sorte, fu un imperatore cristiano, Giustiniano, che ratificò i decreti dei suoi predecessori Arcadio e Onorio. Il rogo fu ritenuto anche la punizione appropriata per i Zoorastriani nell’impero Bizantino a causa del loro culto del fuoco.
Chiudo questa mia carrellata con un riferimento ad un’ opera che ho già recensito alcuni mesi fa, ossia I supplizi capitali” di Eva Cantarella, saggio di ben altro spessore e ricchezza di documenti, la cui lettura potrà validamente integrare questo dignitoso saggio della Harrsch.
Fonte: Civiltà Romana