sabato 24 giugno 2017

Falerius Picenus: il teatro immerso nel verde

Lungo il fiume Tenna, nella località di Piane di Falerone (piccola ma vivace frazione del comune di Falerone) vi è la testimonianza di un’altra città dell’antica Roma, la Falerium Picenus. Rispetto all’area archeologica di Urbisaglia, quello che rimane è minore, ma per fortuna uno degli edifici più grandi, il teatro romano, è quasi intatto e ancora fruibile.

Il teatro, di 50 metri di diametro, poteva ospitare circa 1600 persone, si erigeva per tre ordini, l’ultimo dei quali, purtroppo, è andato distrutto. Sopra le volte che coprivano gli ingressi principali (i paradoi) vi erano due piccoli terrazzi (chiamati tribune) che ospitavano da un lato il Pretore e dall’altro le vestali. Lungo il perimetro esterno dell’anfiteatro è possibile notare i fusti di 22 colonne che, come le gradinate, a loro tempo erano rivestite in marmo..



Falerius Picenus: il teatro immerso nel verde

venerdì 23 giugno 2017

Giulio Cesare rapito dai pirati, 74 a.c.

Della vita di Giulio Cesare non è necessario ricordare l'importanza, trattandosi del condottiero romano più celebre e uno dei comandanti più famosi di tutta la storia. Nato nel 100 avanti Cristo, nel 74 si trovava in viaggio verso l'isola di Rodi per una vacanza-studio (esistevano anche allora) al fine di imparare la cultura greca, un'esperienza caratteristica delle classi romane più abbienti. Durante il tragitto in mare, Cesare fu rapito dai pirati, che lo condussero all'isola di Farmacussa (oggi Farmaco), di fronte alle coste turche.

I pirati, forse inconsapevoli della caratura dell'ostaggio da loro rapito, gli chiesero un riscatto di 20 talenti d'argento (circa 620 chilogrammi), ma Cesare li sbeffeggiò, dicendo che gli avrebbero dovuto chiedere al minimo 50 talenti (1550 chilogrammi). I pirati ascoltarono il consiglio del condottiero e gli chiesero, ovviamente, 50 talenti d'Argento (una situazione piuttosto surreale).

Il Romano mandò quindi i suoi uomini a raccogliere l'argento necessario a Mileto, attendendo il loro ritorno a Farmacussa. Durante il periodo passato con i pirati, complessivamente 38 giorni, Cesare non temette mai per la propria vita, arrivando a sbeffeggiare i pirati più volte. Il condottiero aveva a disposizione due schiavi ed il medico personale, e partecipò alle gare dei pirati, alle cene e ai loro tornei. Durante quel mese compose numerose poesie, che sottopose al giudizio dei suoi "Carcerieri", cui continuava a ripetere che, una volta liberato, li avrebbe fatti uccidere tutti.

PACTA SVNT SERVANDA.
Pagato il riscatto e ripreso il mare, Cesare giunse a Mileto dove trovò Iunco, il propretore della provincia d'Asia, che lo aiutò a formare una flotta. Con questa, Cesare tornò a Farmacussa dove catturò i pirati, dirigendo alla volta della Bitinia per farli giustiziare da Marco Iunco stesso. Il propretore era però interessato al danaro dei pirati, e pensò di ordire una trama contro Cesare, in modo da rubare il bottino dei pirati e venderli come schiavi. Il grande condottiero romano non si lasciò raggirare e, prelevati i pirati dalla prigionia in Bitinia, li crocifisse uno ad uno, strangolandoli prima di metterli sulla croce.

L'esperienza, significativa e riportata da Plutarco nella sua biografia di Cesare, fu importante per testimoniare, anche a Roma, l'importanza della parola del grande condottiero Romano.

lunedì 19 giugno 2017

venerdì 16 giugno 2017

Fine di Stilicone

RAVENNA   408 d.c.

FINE DI STILICONE

Stilicone, sempre rimanendo fermo a Bologna, convocò presso di sé i maggiori capi dei contingenti barbarici che si trovavano nella zona, per decidere il da farsi. Le notizie provenienti da oltre il Po erano, invero - specialmente all'inizio - estremamente confuse e contraddittorie. Era evidente, comunque, che c'era stata una grande epurazione di tutti gli elementi, sia militari che civili, sospettati di essere favorevoli al magister utriusque militiae. Le vittime erano per lo più romane, ma per il semplice fatto che, salvo eccezioni (come il magister equitum per Gallias Cariobaude, probabilmente un franco) a Ticinum non c'erano reggimenti barbari. In effetti si era trattato di una epurazione in chiave anti-germanica, che aveva colpito soprattutto i sostenitori della politica germanica di Stilicone.

Quel che non era chiaro, in un primo momento, era la sorte toccata all'imperatore: le voci erano discordanti e non era possibile capire se anch'egli avesse perso la vita nel massacro. Pertanto il consiglio riunito da Stilicone decise di aspettare notizie più precise circa la sorte toccata ad Onorio, tenendosi pronto ad ogni evenienza. Se l'uccisione dell'imperatore fosse stata confermata, Stilicone avrebbe richiamato tutti i contingenti ausiliari e avrebbe marciato su Ticinum per schiacciare la rivolta. Se invece si fosse saputo che Onorio era salvo, bisognava esigere la punizione dell'assassinio di tanti ufficiali e magistrati. Questa deliberazione fu approvata all'unanimità.

Iniziò l'attesa, che fu snervante, ma breve. La notizia definitiva che Onorio era incolume fu accolta da Stilicone con un misto di sollievo e di preoccupazione. Era dunque stato l'imperatore a organizzare, o quanto meno a tollerare, il massacro dei suoi amici? Il generale vandalo, probabilmente, non poteva crederlo; sapeva ormai da diverso tempo che Onorio diffidava di lui, ma era più logico pensare che l'imperatore si fosse trovato davanti al fatto compiuto. Questo, comunque, non migliorava la posizione di Stilicone: era chiaro, infatti, che i ribelli non si sarebbero fermati a metà strada, ma che avrebbero preteso anche la sua testa. Onorio non aveva né la forza né, forse, la volontà di opporsi, e, in tali condizioni, era vano sperare di riportar l'ordine nell'esercito, avanzando la richiesta di una punizione esemplare dei colpevoli. Le truppe di Ticinum non si sarebbero acquietate se non dopo aver ottenuto la sua condanna. Perciò non restava che la seguente alternativa: prendere le armi, oppure porgere il collo alla lama del carnefice. Stilicone scelse senza esitare la seconda soluzione.

Marciare su Ticinum alla testa dei reparti barbari avrebbe significato scatenare una terribile guerra civile, inoltre i reggimenti romani colà concentrati erano troppo forti e numerosi per potersi illudere di averne facilmente ragione. Ma soprattutto - e questo appare chiaro dal suo comportamento successivo - messo nell'alternativa fra scatenare i barbari al servizio di Roma, contro i Romani stessi, o perdere sé medesimo, Stilicone era abbastanza romano da non avere esitazioni: la sua vita non valeva un tale prezzo. Comunicò pertanto agli altri capi la sua decisione di partire per Ravenna, destando sorpresa e, in alcuni, indignazione. Che senso c'era nell'andare a Ravenna, solo e indifeso, in un momento simile? Aveva dunque rinunciato ad esigere da Onorio la punizione dei colpevoli? E non capiva che ormai la loro salvezza, la salvezza delle truppe barbare dell'esercito romano, dipendeva dal fatto che rimanessero uniti e concordi?

A dispetto di queste argomentazioni addotte dagli ufficiali germanici, Stilicone confermò la sua intenzione di non marciare su Ticinum e di non radunare le sue forze, ma di avviarsi per intanto a Ravenna. Allora quei fieri e combattivi capi barbari, sempre più perplessi e sdegnati - gli ultimi che fino all'ultimo avessero continuato a credere in lui - uno dopo l'altro lo lasciarono solo. Per la maggior parte partirono da Bologna e si sparsero nelle varie direzioni, in attesa di vedere che cosa sarebbe accaduto a Stilicone. Se fosse stato arrestato, com'era probabile, per volere del partito romano nazionalista, avrebbero provveduto a mettersi in salvo come meglio potevano. Qualcuno di essi ricordò che oltre le Alpi, nel Norico, c'era Alarico coi suoi Visigoti: quegli sarebbe stato ben lieto di accoglierli nel suo accampamento. Invece Saro, il più eminente fra essi, non rassegnandosi alla passività di Stilicone, raccolse i propri uomini e sfogò la sua amarezza e la sua rabbia con un inutile gesto di violenza. Stilicone se ne stava chiuso nella sua tenda, immerso in cupe riflessioni sul futuro. Fu richiamato alla realtà dal clamore che giungeva da fuori. Dopo essersi impadronito delle salmerie dell'accampamento e aver massacrato la guardia del corpo unna del generalissimo, Saro irruppe armato nella tenda. Noi non sappiamo esattamente quello che avvenne subito dopo. Certo è che Stilicone, illeso, poco dopo uscì in mezzo al campo in piena agitazione e partì senz'altro per Ravenna, lasciando Saro e i suoi uomini liberi di imperversare. Forse il suo comportamento fermo e dignitoso, la sua grandezza nella sventura e il fatto stesso di trovarselo così in suo potere, senz'armi e senza più amici, fecero sbollire la furia vendicativa di Saro. O forse questi comprese che il grande Stilicone era già rassegnato a morire, e non ebbe cuore di alzare la spada contro un morituro.

Decapitazione di Stilicone a Ravenna

Doveva essere circa il 20 agosto quando Stilicone, accompagnato da un piccolo numero di fedelissimi, giunse nella cittè regia di Ravenna. Non ci è dato sapere con certezza dove si trovasse in quel momento suo figlio Eucherio, perché le fonti sono al riguardo contrastanti; forse era già fuggito alla volta di Roma, dov'era rimasta anche sua madre Serena. Durante quell'ultimo viaggio da Bologna a Ravenna, non solo Stilicone rifiutò ogni proposta di mobilitare le truppe germaniche in sua difesa, ma giunse al punto di spedire corrieri nelle principali città italiche, ov'erano stabilite le famiglie dei soldati barbari, raccomandando ai magistrati di chiudere le porte nel caso che distaccamenti ausiliari avessero cercarto di penetrarvi. Così, preoccupato fino all'ultimo più per le sorti dello Stato che per la sua stessa vita, arrivò nella capitale adriatica.

La situazione a Ravenna era, in quei giorni, piuttosto confusa. Probabilmente c'erano poche truppe in città, e quelle di stirpe barbara, specialmente gli amici di Stilicone, gli ufficiali e la loro servitù, fronteggiavano minacciosamente la guarnigione romana. Inoltre, le notizie provenienti da Ticinum erano ancora piuttosto confuse e non era affatto chiaro quali fossero le intenzioni dell'imperatore Onorio. L'attesa, comunque, non dovette essere lunga. Sia per la comoda Via Aemilia e la Popilia, sia per l'ancor più comoda e breve via d'acqua (da Sidonio Apollinare, infatti, sappiamo che si poteva navigare direttamente da Pavia a Ravenna lungo il corso del Ticino e del Po) arrivavano notizie sempre più precise. Subito prima o subito dopo l'arrivo di Stilicone, giunse a Ravenna una lettera firmata dall'imperatore, ma in realtà ispirata da Olimpio con la quale si ordinava di arrestare Stilicone, ma senza metterlo in catene, e di tenerlo per il momento sotto custodia. E' evidente che Olimpio, il quale si era affrettato a raccogliere i maggiori frutti della rivolta di Ticinum, stava rapidamente conquistandosi la fiducia di Onorio e preparava il terreno, con cautela e circospezione, per la eliminazione del generalissimo.

Stilicone seppe di questa lettera il giorno 21, e subito, avendo inuito ciò che realmente significava, corse a rifugiarsi in una chiesa, col favore della notte, come un fuggiasco. Fu quella la notte più lunga per la nuova capitale adriatica. Stilicone era fuggito tutto solo, senza dir nulla ai numerosi amici, ma quando essi vennero a sapere la cosa, subito mobilitarono i propri servi, li armarono e così, pronti a tutto, attesero lo spuntar dell'alba.

In realtà, a Ravenna era arrivata - insieme alla prima, o poco dopo - una seconda lettera, sempre a firma dell'imperatore, contenente una formale condanna all'esecuzione capitale, da eseguirsi immediatamente. Della cosa si incaricò un ufficiale romano di nome Eracliano, un personaggio destinato a svolgere un ruolo importante nelle vicende degli anni successivi. Alle prime luci del mattino, egli raccolse un buon nerbo di truppe e si diresse alla chiesa ove stava in attesa Stilicone. Giunto davanti all'edificio, iniziò dei laboriosi negoziati con il clero per ottenere pacificamente la consegna del ricercato. Arrivò il vescovo di Ravenna; arrivarono gli ufficiali barbari e gli amici di Stilicone, tutti armati e in atteggiamento minaccioso. In una atmosfera estremamente tesa, Eracliano giurò davanti al vescovo che l'imperatore aveva dato solamente ordine di arrestare il generale e di tenerlo sotto custodia, non di ucciderlo, ed esibì, molto probabilmente, la prima lettera di Onorio, che era appunto di questo tenore. Ottenuta tale assicurazione, Stilicone acconsentì ad uscire dalla chiesa e, sulla porta, fu preso in consegna dai soldati. Era ancora sulla soglia, che già gli venne letto il contenuto della seconda lettera: la condanna a morte. Coloro che erano venuti ad arrestarlo non intendevano perder tempo.

Fu condotto al luogo del supplizio. Forse fu allora - come afferma Zosimo , e cioè quando fu chiaro che Olimpio voleva far piazza pulita di tutti i seguaci del magister utriusque militiae, senza mezze misure - che Eucherio si decise a fuggire, e tornò verso Roma. Stilicone procedeva con grande dignità, scortato dai soldati, mentre i suoi amici lo accompagnavano sempre più agitati, non aspettando altro che un suo cenno per gettarsi sopra la scorta e dare inizio alla battaglia. Gli chiesero di fare quel cenno. Stilicone non solo rifiutò di dare il segnale, ma, vedendoli decisi ad agire per liberarlo anche senza il suo consenso, si mise a minacciarli e spaventarli perché non tentassero alcun colpo di testa. Così arrivarono sul luogo stabilito. Non ci fu bisogno di mettergli le mani addosso: fu lui stesso che offrì il collo al carnefice. Eracliano non ebbe che da vibrare il colpo con le sue stesse mani.

Questa fu la fine di Flavio Stilicone, il 22 agosto del 408. Quali che fossero stati i suoi errori, le circostanze della sua morte illustrano a sufficienza che egli li aveva commessi in buona fede. Certamente ebbe delle pesanti responsabilità nella catastrofe che di lì a poco si sarebbe abbattuta su Roma, ma pagò il proprio debito senza discutere. Eracliano ebbe in premio della sua esecuzione l'ambitissimo grado di comes Africae, dopo che il suo predecessore Batanario, che era marito della sorella di Stilicone, fu giustiziato anch'egli per ordine di Onorio.