venerdì 3 giugno 2022

TITO MANLIO "TORQUATUS"

Durante la guerra gallica del 361 a.C., della cui conduzione era stato incaricato il dittatore Tito Quinzio Penno Capitolino, un guerriero celta sfida i Romani e invita il soldato romano più forte a sfidarlo in duello. Mentre gli altri giovani sono paralizzati dalla paura, Tito Manlio lascia il proprio posto, si presenta davanti al dittatore e gli chiede il permesso per combattere contro il Gallo. 

[Tito Livio, Ab Urbe condita, VII, 9, 8-10]
«Allora un Gallo di statura gigantesca avanzò sul ponte deserto e urlò con quanta voce aveva in gola: "Si faccia avanti a combattere il guerriero più forte che c’è adesso a Roma, così che l’esito del nostro duello stabilisca quale dei due popoli è superiore in guerra!".
Tra i giovani romani ci fu un lungo silenzio, poiché da un lato si vergognavano di rifiutare il combattimento, dall’altro non volevano affrontare una sorte particolarmente rischiosa: allora Tito Manlio, figlio di Lucio, lasciò la sua posizione e si avviò dal dittatore: "Senza un tuo ordine, comandante", disse "non combatterei mai fuori dai ranghi, neppure se vedessi certa la vittoria: ma se tu lo permetti, a quella bestiaccia che ora fa tanto lo spavaldo davanti alle insegne nemiche io vorrei dare la prova di discendere da quella stirpe che precipitò già dalla rupe Tarpea le schiere dei Galli". 
Allora il dittatore gli rispose: "Onore e gloria al tuo coraggio e alla tua devozione per il padre e la patria, o Tito Manlio! Vai e con l’aiuto degli dei dai prova che il nome di Roma è invincibile!". 
Poi i compagni lo aiutarono ad armarsi: egli prese uno scudo da fante e si cinse in vita con una spada ispanica, più adatta per lo sconto corpo a corpo. Dopo averlo armato, lo accompagnarono verso il guerriero gallico che stava stolidamente esultando e che in segno di scherno tirava fuori la lingua. Quindi rientrarono al loro posto, mentre i due uomini armati restarono soli in mezzo al ponte, più come si usa negli spettacoli che secondo le norme di guerra, pari di forze a giudicarli dall’aspetto esteriore: l’uno aveva un fisico di straordinaria corporatura, sgargiante nelle vesti variopinte e per le armi dipinte e cesellate in oro; l’altro nella statura media di un soldato e d’aspetto modesto le sue armi, più maneggevoli che appariscenti; non canti, non esultanza né vana esibizione delle proprie armi, ma un petto fremente di palpiti di coraggio e tacita ira; tutta la sua fierezza egli aveva riservata per il momento decisivo del duello. 
Quand’ebbero preso posizione tra i due eserciti, con tanti uomini intorno, dagli animi sospesi tra la speranza e la paura, il Gallo, calò con grande fragore sulle armi dell’avversario che si avvicinava un fendente che andò a vuoto. Il Romano, sollevata la spada, colpì con il proprio scudo la parte inferiore di quello del nemico; poi, insinuatosi tra il corpo e le armi di quest’ultimo in modo tale da evitare di essere ferito, con due colpi sferrati uno dopo l’altro gli trapassò il ventre e l’inguine, facendolo stramazzare a terra, disteso in tutta la sua mole. Quindi, risparmiando ogni altro scempio al corpo del caduto, si limitò a togliergli il torque, e a indossarlo al collo intriso di sangue com’era. La paura insieme con lo stupore aveva agghiacciato il sangue ai Galli: i Romani, usciti dagli avamposti verso il loro commilitone, rivolgendogli congratulazioni e lodi, lo condussero dal dittatore. 
Fra le rozze battute che i soldati si scambiavano nei loro cori, fu udito il soprannome di "Torquatus"; esso, in seguito, fu usato spesso anche dai suoi discendenti e tornò d’onore alla sua famiglia. Il dittatore aggiunse in dono una corona d’oro e di fronte alle truppe adunate celebrò con le lodi più alte quel combattimento.»

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