sabato 20 settembre 2025

META SUDANS


La Meta Sudans era una fontana posta tra il Colosseo,l'inizio della Via Sacra e l'arco di Costantino.Alta circa 18 metri e di forma tronco-conica,era circondata da una vasca di raccolta delle acque e lastricata in travertino.
Da notare che durante la campagna di scavi del 1986-2003 promossa dall'Università la Sapienza,a pochi metri dalla Meta Sudans venne rinvenuta una fontana uguale,ma di minori dimensioni.
La più antica è stata edificata in epoca augustea,mentre l'esistenza di una prima Meta Sudans la troviamo grazie a Seneca nelle sue"EPISTULAE MORALES AD LUCILLIUM"(56,4),del 62-63.
Nella prima foto si può vedere una moneta di bronzo dell'imperatore Tito(80 d.C.),sulla quale è visibile la Meta Sudans,per cui si pensa che la sua sistemazione definitiva sia avvenuta durante gli anni della dinastia Flavia,dopo un'incendio del 50 d.C.,mentre in epoca costantiniana venne ampliata con l'aggiunta con un parapetto perimetrale.
Si ritiene,in assenza di fonti,che la fontana fosse ancora in uso almeno fino alla fine del V sec.
A partire dal VI sec.Roma subirà una serie incredibile di eventi funesti,tra cui terremoti, saccheggi,incendi ed inondazioni,che contribuiranno a cambiarne l'aspetto urbanistico e tessuto sociale.
Nel medioevo la fontana viene citata nell'Itinerario di Einsiedeln(IX sec.) e da Benedetto Canonico(XII sec.).
Non sappiamo cosa accadde alla fontana,anche perché il più antico disegno che la ritrae ce la mostra già ridotta ad un moncone(Codex Escurialensis,fine 1400 primi anni del 1500).
Purtroppo nel 1933 ne venne demolita la parte superiore,probabilmente per migliorare la visibilità dell'arco di Costantino.
Nel 1936 venne definitivamente rasa al suolo,contribuendo alla sparizione dei resti dell'ultima fontana monumentale romana,giunta fino al XX secolo.

lunedì 8 settembre 2025

Il mito Etrusco di Tages - Tagete

Il mito etrusco di Tages/Tagete
 
Il mito etrusco più diffuso nella letteratura classica e degli autori antichi successivi è senz’altro quello di Tagete.
Le fonti (Cicerone, De Divinazione II, XXIII; Dionigi di Alicarnasso, Antichità Romane; Censorino, De die natali 4,13; Ovidio, Metamorfosi XV, 552-559; Isidoro di Siviglia, Etymologie sive Origines 8,9, 34-35; Giovanni Lido Sui Segni Celesti 2-3, etc ... ) descrivono l’apparizione e le rivelazioni di Tages/Tagete (che in etrusco significherebbe “voce mandata fuori dalla terra”) con un racconto sostanzialmente uguale, seppur con alcune differenze.
Nelle campagne di Tarquinia, mentre un contadino (che secondo alcuni sarebbe stato Tharcon, un aruspice) arava la terra, accadde un fatto mirabile, quale nessuno aveva udito essere mai accaduto nell’arco di tutti i tempi: da un solco più profondo balzò fuori Tagete (secondo altri si sarebbe invece trasformato da una zolla di terra) che aveva l’aspetto di un bambino ma con la saggezza di un uomo maturo (ed infatti aveva i denti ed altri segni della vecchiaia). Il profeta rivolse la parola al contadino che, stupito dall’apparizione, levò un alto grido di meraviglia. In poco tempo tutta l’Etruria (una folla, tutte le genti d’Etruria o, secondo alcuni, i lucumoni, i principi d’Etruria o i figli dei dodici principi d’Etruria) si radunò sul posto. Tagete (ritenuto da alcune fonti Hermes ctonio o figlio di Genio e nipote di Giove) parlò a lungo ai convenuti, che ascoltarono con attenzione le sue parole e le misero poi per iscritto per tramandarle ai posteri. Secondo un'altra versione Tagete avrebbe parlato al solo Tarconte in un luogo segreto e quest’ultimo avrebbe poi scritto un libro sulle rivelazioni del fanciullo divino, sotto forma di dialogo e sulla base delle risposte fornite da Tagete alle domande formulate dallo stesso Tarconte. L’intero discorso del profeta fu quello in cui era contenuta la scienza dell’aruspicina, che poi si accrebbe con la conoscenza di altre cose che furono ricondotte a quegli stessi principi. Tagete sarebbe morto lo stesso giorno della rivelazione e non sarebbe più apparso.
Tagete, essere divino, avrebbe quindi dettato i paradigmi fondamentali della Etrusca Disciplina (arti divinatorie e discipline del sacro) ed in particolare dell’extispicio, l’esame a scopo divinatorio delle viscere (il fegato) degli animali sacrificati, ai dodici popoli dell’Etruria. Il corpus della Disciplina si sarebbe arricchito nel tempo di nuove acquisizioni e sarebbe stato messo per iscritto dagli Etruschi. I Romani, in seguito, tradussero i testi etruschi, rielaborandone i contenuti. La letteratura religiosa etrusca sarebbe stata raccolta nei libri tagetici classificati in libri haruspicini (sull’esame delle viscere delle vittime sacrificate) fulgurales (sulla scienza dell’interpretazione dei fulmini), e rituales (materia composita prevalentemente relativa a prescrizioni rituali concernenti diversi aspetti della vita sociale).
Sul mito di Tagete vi sono anche alcuni riscontri archeologici. In una gemma incisa del IV secolo a.C. (conservata al British Museum) una testa emerge dal suolo con la bocca aperta tra due figure maschili, una delle quali potrebbe essere Tarconte. In una altra gemma, sempre del IV secolo a.C., è rappresentata una figura maschile piegata (Tarconte?) che sembrerebbe nell’atto di tirare su una figura più piccola con il dito alzato (Tagete?) che emerge dalla terra (presso il Museo di Villa Giulia a Roma). Su uno specchio bronzeo da Tuscania del IV - III secolo a.C. sono incisi, tra gli altri personaggi, Pava Tarchies (Tagete), con ampio mantello e copricapo a punta, che tiene in mano un fegato e che insegna la scienza divinatoria dell’aruspicina ad Avl(e) Tarchunus (Tarconte), anch’egli con mantello e cappello a punta (esposto al Museo Archeologico di Firenze). Una statuetta da Tarquinia (cd. Putto Carrara) databile al III secolo a.C. (conservata presso il Museo Gregoriano Etrusco) che rappresenta un giovane con bulla, in ragione dei tratti maturi del volto è stata identificata con Tagete (Etruschi Viaggio nelle Terre dei Rasna, Electa, 2019, pag 144, figura 8).
Sul mito di Tagete e sulla disciplina etrusca cfr, tra l’altro, Nizzo Valentino, Tages, la terra e la nascita della divinazione, Terrantica: volti, miti e immagini della terra nel mondo antico, Electa, 2015, pagg 156 – 161; Adriano Maggiani in Gli Etruschi Una Nuova Immagine a cura di Mauro Cristofani, Giunti, 1984, Pagg. 140 e ss.; Andrea Verdecchia, Mitologia etrusca, Effigi, 2022, pagg. 186 e ss.; Maurizio Martinelli, Gli Etruschi Magia e Religione, Convivio, 1992, pagg. 75 e ss.; Mario Tizi, Tagete e lo specchio di Tuscania. Una nuova interpretazione del mito etrusco. Atti del convegno sulla storia di Tuscania - Tuscania 2014; Giulio M. Facchetti, Alcune osservazioni linguistiche sul nome di Tagete in Aion – Linguistica n. 9/2020.   
Di seguito immagini della gemma del Museo di Villa Giulia, della statuetta da Tarquinia e dello specchio da Tuscania.
 
 
 
 

giovedì 15 maggio 2025

Sarcina

Sopporteresti il peso di un soldato romano? Scopri cosa c'era dentro la leggendaria "sarcina", lo zaino che trasportava l'Impero sulle spalle.

Immagina di marciare per decine di chilometri sotto il sole cocente, indossando un'armatura pesante, uno scudo, una spada... e portando con sé uno zaino che pesava più di 13 chili.

Questa era la vita quotidiana del legionario romano. E questo zaino si chiamava proprio sarcina.

Molto più di un semplice peso, la sarcina era un simbolo di disciplina, resilienza e autonomia dell'esercito più temuto dell'antichità. Ogni soldato veniva addestrato per essere quasi un esercito individuale in movimento.

Ma cosa c'era dentro la Sarcina?

I Romani sapevano che la vittoria iniziava dalla logistica. Quindi ogni legionario portava con sé l'essenziale per accamparsi, nutrirsi, ripararsi e sopravvivere per giorni, tutto sulle spalle.

Guarda cosa portava un soldato romano:

●Dolabra (pala/tegola): usata per scavare trincee e costruire fortificazioni.

 ● Pali di legno (sweats): con essi, erigevano rapidamente recinzioni difensive attorno agli accampamenti.

● Rampa per l'acqua e recipienti di argilla o cuoio per il trasporto dei liquidi.

● Mulino portatile: una macina in pietra per macinare il proprio grano e produrre la propria razione alimentare di base.

● Padella, cucchiaio e coltello in ferro: per cucinare e mangiare in campagna.

● Razioni: solitamente grano crudo, carne secca, formaggio a pasta dura, aceto (mescolato con acqua per purificare) e persino fichi secchi.

● Coperta o telo di lana (sagum): essenziale contro il freddo e la pioggia.

● Tunica di ricambio e oggetti personali, come monete, amuleti o carte.

● Kit per l'igiene e il cucito: perché anche un impero ha bisogno di soldati puliti e tuniche in buone condizioni.

 E tutto questo era legato alla perfezione in una cornice di legno, come una croce, fissata a un bastone chiamato furca, che il soldato appoggiava sulla spalla.

La cosa più impressionante?

Questi uomini camminavano per giorni, trasportando tutto, con la stessa rigidità e ordine con cui dominavano i campi di battaglia.

Erano chiamati, con un pizzico di sarcasmo, "i muli di Mario", in riferimento al generale Caio Mario, che riformò l'esercito romano e impose che ogni soldato fosse responsabile del proprio equipaggiamento. Una mossa semplice, ma che trasformò la legione romana in una spietata macchina da guerra.

La Sarcina non era solo uno zaino. Era un simbolo.

Un promemoria del fatto che la forza di Roma non derivava solo dalle spade, ma dalla capacità di ogni uomo di resistere, marciare e combattere con tutto ciò di cui aveva bisogno sulle spalle.

mercoledì 16 aprile 2025

Un anfiteatro romano diventato cittadina

UN ANFITEATRO ROMANO DIVENTATO CITTÀ 

L'anfiteatro romano di Pollenzo (antica Pollentia), nei pressi di Bra (CN), fu costruito intorno alla fine del I secolo e gli inizi del II secolo d.C. Dopo fasi residenziali e produttive nel V-VI secolo, l'arena fu occupata progressivamente da case rurali che furono costruite definitivamente durante il XVIII e il XIX secolo.
Di forma ellissoidale, era l’edificio in cui, anticamente, si tenevano i combattimenti gladiatori e le cacce di bestie feroci e, forse, anche naumachie.

Come a Lucca e a Venafro (vicino ad Isernia), l’antico edificio romano, una volta abbandonato in età tardoantica, è stato riutilizzato come base per la costruzione di edifici più recenti, come detto probabilmente del ‘700, che hanno seguito l’andamento ellittico delle strutture dell’anfiteatro. Per questa ragione, il borgo che nacque sopra l’antico anfiteatro di Pollenzo è chiamato nelle fonti Coliseum o Colosseo ed è, tuttora, abitato.

La cavea (le tribune), che all’esterno si presentava scandita in alcuni ordini di arcate, era sostenuta da terrapieni e l’arena, di cui si sa pochissimo, era stata scavata nel terreno. All’interno le tribune erano suddivise in quattro anelli, delimitati da robusti muri.

Le decorazioni, che dovevano essere abbondanti, sono andate perse: come per il caso del tempio romano di Alba, eventuale tappa dei tours di Alba Sotterranea, anche qui siamo alle prese con un edificio anticamente sontuoso ma che, nel tempo, è stato privato delle decorazioni che, nei primi secoli della nostra era, dovevano sicuramente adornarlo.

giovedì 20 marzo 2025

ELMO ROMANO DI PIZZIGHETTONE

L'ELMO ROMANO DI PIZZIGHETTONE.

Si tratta di un'elmo modello Montefortino conservato nel Museo di Cremona,che presenta una particolarità molto interessante:vi è inciso il nome del proprietario.
L'iscrizione è la seguente:

M(arco) Patolcio Ar.l.p.VIII

Dalla forma delle lettere si è dedotto che l'elmo potesse esser stato fabbricato nel III sec.a.C.
La seconda parte dell'iscrizione potrebbe essere interpretata nel seguente modo:

Ar(untis) l(iberto) p(ondo) (octo)

Quindi abbiamo a che fare con liberto,cioè uno schiavo liberato,di origine campana-etrusca.
Dopo la disfatta di Canne vennero arruolati 8000 schiavi(l'equivalente di due legioni).
Stando alle fonti,non presero schiavi qualunque,ma solo quelli che si offrirono volontari,ossia"volones".

Fonte:
Filippo Coarelli.
Pubblicazione per la scuola Francese di Roma.

martedì 11 marzo 2025

Perché gli antichi romani portavano tre nomi

PERCHE' GLI ANTICHI ROMANI AVEVANO TRE NOMI?

Per addentrarsi nelle profondità della storia romana, è essenziale comprendere uno degli aspetti più caratteristici e rivelatori della società dell'Urbe: il complesso sistema onomastico dei tria nomina.

Questo elaborato meccanismo non era una semplice convenzione linguistica, ma un vero e proprio codice d'identità che rivelava origini, posizione sociale e lignaggio familiare di ogni civis romanus.

L'uomo romano portava con sé, inciso nel proprio nome, il peso della tradizione ancestrale, la gloria della propria gens e il destino del proprio ramo familiare, in un intreccio di significati che andava ben oltre la mera identificazione personale.

L'EVOLUZIONE DEL NOME ROMANO

Nei tempi primordiali, quando l'ombra del Palatino vedeva nascere il primo nucleo di quella che sarebbe diventata la più grande civiltà del mondo antico, i romani si accontentavano di un singolo nome. Romolo, il mitico fondatore, portava fieramente un nome unico che lo distingueva tra i suoi contemporanei. 

Questa semplicità onomastica rifletteva una società ancora in formazione, dove l'identità collettiva prevaleva su quella individuale, e i legami tribali non necessitavano di complesse distinzioni nominali.

Con l'espansione dell'influenza romana e le inevitabili contaminazioni culturali, in particolare quella derivante dall'inclusione delle genti sabine, il sistema onomastico subì una prima, fondamentale trasformazione. Da uninominale divenne binomiale, basato su praenomen e nomen, rispecchiando così l'accresciuta complessità sociale e l'importanza delle alleanze familiari. 

Questo passaggio rappresentò il primo passo verso la creazione di quello che sarebbe diventato il glorioso sistema dei tria nomina, pietra angolare dell'identità romana per secoli a venire.

Fu infine durante gli ultimi secoli della Repubblica, quando Roma estendeva i propri confini ben oltre ogni aspettativa umana, che il sistema onomastico raggiunse la sua forma definitiva e magnifica. I tre elementi – praenomen, nomen e cognomen – divennero il marchio distintivo della cittadinanza romana, simbolo tangibile dell'appartenenza al popolo dominatore del Mediterraneo. Non più semplici appellativi, ma veri e propri vessilli d'identità che proclamavano al mondo intero la gloria di appartenere alla stirpe romana.

ANATOMIA DI UN NOME ROMANO

Il primo elemento, il praenomen, rappresentava ciò che oggi chiameremmo nome di battesimo. Veniva conferito al bambino poco dopo la nascita e costituiva l'appellativo con cui lo si chiamava negli ambienti più intimi e familiari. 

A differenza dei nostri tempi, in cui la varietà dei nomi personali è pressoché infinita, i praenomina romani erano sorprendentemente limitati nel numero. I patrizi, in particolare, facevano uso di appena una trentina di prenomi che si ripetevano con regolarità all'interno della stessa famiglia. 

Questa apparente limitazione nascondeva in realtà un profondo significato: il prenome non era tanto un segno di individualità, quanto piuttosto un anello nella catena generazionale che legava il presente al passato glorioso della stirpe.

Tale era la familiarità con questi prenomi che negli scritti essi venivano generalmente abbreviati all'iniziale. Marcus diventava semplicemente M., Gaius si riduceva a C., Publius a P., in una sintesi che tutti i romani comprendevano immediatamente. Il praenomen, quindi, pur essendo il nome più personale, era paradossalmente anche quello meno distintivo, poiché rimandava più alla continuità familiare che all'unicità dell'individuo.

Il secondo pilastro, il nomen gentilicium, costituiva l'elemento più importante nella definizione dell'identità sociale. Espresso con un aggettivo terminante in -ius, il nomen indicava l'appartenenza alla gens, l'unità fondamentale della società romana che comprendeva tutte le famiglie che si riconoscevano in un antenato comune. 

Era l'equivalente del nostro cognome, ma carico di un significato molto più profondo: proclamava l'appartenenza a uno dei grandi clan familiari di Roma, come i Cornelii, i Iulii, i Claudii o i Domitii, nomi che risuonavano nei fori e nelle curie con l'eco della storia.

Portare il nome di una gens patriciae significava vantare un'ascendenza che risaliva alle origini stesse di Roma, una discendenza diretta da quegli uomini che avevano plasmato la storia della città sin dai suoi albori. Era un marchio di nobiltà che apriva le porte del potere politico e confermava l'appartenenza all'élite dominante.

Il terzo elemento, il cognomen, inizialmente facoltativo, divenne con il passare del tempo un componente essenziale del sistema onomastico romano. Se il nomen identificava la gens, il cognomen distingueva le diverse famiglie all'interno dello stesso clan gentilizio. Spesso originato come soprannome basato su caratteristiche fisiche, morali o geografiche, si trasformò gradualmente in un appellativo ereditario che indicava uno specifico ramo familiare.

Prendiamo ad esempio il celeberrimo Gaio Giulio Cesare: Gaio era il suo praenomen personale, Giulio il nomen che lo identificava come membro della gens Iulia, mentre Cesare era il cognomen che specificava a quale ramo della famiglia appartenesse. 

Tre nomi, dunque, che raccontavano in modo sintetico ed eloquente l'intera storia di un individuo, collocandolo precisamente nell'intricata rete di relazioni familiari e sociali che costituiva l'ossatura della società romana.