venerdì 2 dicembre 2022

IL TEREBINTO DI NERONE


Il Terebinthus, anche noto come obeliscus neronis, era un mausoleo descritto come più alto della Mole Adriana, secondo altri alto "come" la mole di Adriano, di forma circolare con più tamburi sovrapposti di diametro decrescente interamente ricoperto di travertini. Esso venne distrutto da papa Dono o Domno nel 675, tre anni prima della sua morte, e con i suoi travertini venne realizzato il pavimento del "paradiso" di San Pietro (o quadriportico di S. Pietro). Viene rappresentato anche nel martirio di San Pietro del Filarete, al centro fra le due piramidi.
La piramide presso il colle Vaticano era detta Meta Romuli (cioè Meta di Romolo), perché la sua forma richiamava in qualche modo le colonne rastremate dette metae che negli stadi romani segnavano le estremità della pista, ma le piramidi edificate a Roma avevano un angolo più acuto di quelle egiziane, cioè erano più strette.L'area interna del quadriportico era in origine un giardino (Paradisus) con all'interno un fontana per abluzioni purificatrici. Con l'aumento dei pellegrini l'area fu pavimentata nel VII secolo e vi fu posta al centro il Pignone, una scultura in bronzo di epoca romana, oggi nel cortile della Pigna nei Musei Vaticani. 
"Una tradizione o leggenda romana narra che S. Pietro fu giustiziato tra le DUAS METAS, che è, in linea della spina o nel mezzo del circo di Nerone, a uguale distanza dai due obiettivi finali, in altre parole, fu giustiziato ai piedi dell'obelisco che ora troneggia davanti alla sua grande chiesa."   (Rodolfo Lanciani)
Diverse fonti sostengono che il materiale di cui erano rivestiti i due monumenti suddetti fu usato per la costruzione della primitiva basilica di San Pietro (terminata attorno al 335). Se l'edificio è realmente esistito, secondo le fonti letterarie potrebbe essere crollato o essere stato distrutto già nell'età classica, in quanto tutti i testi vi si riferiscono in termini di "un tempo sorgeva...".
Tuttavia della sua esistenza doveva esserne convinto l'archeologo Italo Gismondi, l'autore del famoso plastico della Roma imperiale, che inserì accanto alla Meta Romuli un edificio cilindrico di pari altezza.Altri nomi con cui la piramide veniva indicata erano Meta di Borgo, dal nome del quartiere che nel corso del medioevo era sorto sull'area suburbana del Vaticano, ed anche Meta di San Pietro, dalla vicina basilica edificata sulla tomba dell'apostolo Pietro, il primo papa.   Molte delle fonti medievali che descrivono la Meta Romuli citano anche un secondo alto edificio (o monumento) che apparentemente sorgeva assai vicino alla Meta Romuli, più spesso indicato come Terebinto di Nerone, ma in alcuni casi la sua grafia era Terabinto, oppure Tiburtino (cioè fatto di travertino, in latino marmor tiburtinum), il cui scopo e la cui età sono rimasti sconosciuti.
Secondo una credenza popolare nella piramide era sepolto Romolo, tanto che alcune fonti si riferiscono esplicitamente al monumento in termini di "sepolcro di Romolo". Questa era chiaramente una leggenda.

Ma il nome Meta Romuli divenne così comune che nel medioevo la piramide tutt'oggi esistente di Gaio Cestio, nonostante abbia un'iscrizione col suo nome, era conosciuta come Meta Remi (la meta di Remo), o come "sepolcro di Remo", in contrapposizione a quella nell'area del Vaticano, nonostante i due monumenti distassero tra loro circa 4 km.
IV. sul Terebinto di Nerone.
"Di lato alla Meta sorgeva il Terebinto di Nerone, alto tanto quanto il Castello Adriano. Esso fu rivestito di grandi lastre marmoree. Ed aveva due gironi come il Castello. E i gironi erano coperti nella parte superiore di grandi tavole di marmo per l'acqua. E tale Terebinto sorgeva a lato di dove fu crocefisso il santo apostolo Pietro, là dov'è ora Santa Maria in Trasbedina." ( Santa Maria in Traspontina, chiesa del XVI fatta ricostruire dal Papa perchè ostacolava le bombarde di Castel S. Angelo,si trova in via della Conciliazione, nel Rione Borgo).
 Il Therebinto, o Terebinto , o Terabinto, viene descritta come una piramide a cono più larga della piramide di Cestio e di grande bellezza. A Roma l'Egitto andava di moda, soprattutto dopo la sua conquista  ad opera di Giulio Cesare prima e di Augusto dopo (I secolo ac.), ma soprattutto da quando venne a Roma la bellissima Cleopatra portando in dono obelischi, sfingi e statue, senza contare tutto quello che fece costruire.

domenica 20 novembre 2022

LA COHORTI ROMANE


Le COORTI, dal significato originario di "recinto, corte, cortile", cioè un'accoglienza di persone con lo stesso fine, pertanto una schiera. Fino al I sec. a. c. designò l'unità militare della fanteria degli alleati italici dei Romani.
Dopodichè Gaio Mario, il geniale zio di Giulio Cesare, riformò con esse tutto l'esercito, abbandonando l'organizzazione a manipolo adottata fin dal tempo delle Guerre sannitiche.
In realtà la coorte erano stata ideata da un altro geniale generale, Scipione l'Africano, che durante la campagna iberica, ne saggiò la maggiore flessibilità e resistenza durante le battaglie.
Così Mario la introdusse in tutto l'esercito di Roma, dopo aver esteso l'arruolamento a tutti i cittadini romani senza distinzioni di censo.
RIFORMA MARIANA Rispetto al manipolo che permetteva maggiore agilità su terreni impervii, come appunto le colline del Sannio, la coorte era una formidabile arma da guerra adatta alle battaglie in campo aperto.Poichè la maggior parte delle battaglie avveniva ormai in campo, Mario ritenne opportuno creare questo nuovo schieramento che era non solo più potente, ma che permetteva di salvare molte più vite ai romani, anche perchè un soldato veterano ne valeva almeno cinque dei novizi ed erano un patrimonio che andava salvaguardato.
I velites furono aboliti e le truppe leggere furono sostituite dagli auxilia (ausiliari), soldati reclutati nelle province romane. La cavalleria proveniva invece dai confederati italici.La Struttura dell'Unità comprese in diverse epoche:
contubernium-centuria-manipolo-coorte-vexillatio.
LA COORTE era formata da 600 uomini, per cui dall'unione di 3 manipoli, formata da legionari provenienti dalle vecchie unità di Astati, Principes e Triari.
La legione venne divisa in 10 coorti, numerate da I a X, in tutto 6000 legionari, decurtati poi a 5000 per una migliore gestibilità.
La prima coorte di ogni legione fu costituita da un numero doppio di soldati (1000), la cohors milliaria mentre le altre coorti erano di 500 soldati, quingenariae.
I soldati della legione coortale erano di fanteria pesante.
SCHIERAMENTO  Era su tre linee, a scacchiera, cosicché i legionari della II e III fila potessero subentrare facilmente in I linea se necessario. La lista delle coorti:
Cohors alaria unità di alleati o ausiliari--Cohors classica - unità ausiliaria di marinai e navigatori--Cohors equitata, quingenaria o milliaria - mista di fanteria e cavalleri, con 500 o 1000 soldati--Cohors Germanorum - guardia del corpo imperiale reclutata in Germania--Cohors palatina - unità alleati a cavallo per guardia pretoria durante la tetrarchia--Cohors peditata, quingenaria o milliaria - appiedata, quindi di soli fanti, di 500 o 1000 soldati.--Cohors praetoria - guardia del corpo dell'imperatore, servizi segreti--Cohors speculatorum - unità di Marco Antonio con esploratori--Cohors togata - pretoriani in veste civile che pattugliavano il ponerium (armi proibite)--Cohors torquata - unità di soldati decorati con  per valore militare--Cohors tumultuaria - unità ausiliaria irregolare--Cohors urbana - polizia militare che pattugiava le vie dell'urbe--Cohors vigilum - polizia urbana per spegnere incendi o sedare tumulti--Cohors sagittaria - che univa fanteria e arcieri.


sabato 20 agosto 2022

Il tempio di Giove Capitolino a Roma

IL TEMPIO DI GIOVE CAPITOLINO, A ROMA 

Il Tempio di Giove Capitolino o Giove Ottimo Massimo o Aedes Iovis Optimi Maximi Capitolini è uno dei primi templi “romani” e la prima struttura dell’edificio sacro più importante di Roma è un adattamento di un tempio di matrice architettonica etrusca, solitamente denominato tuscanico, secondo la felice tradizione fondata dall’architetto romano Vitruvio.

I tratti distintivi dei templi romano/tuscanici sono l’alto podio, un profondo pronao sostenute da colonne in un largo intercolumnio, una o più celle sacre dedicate alle divinità dietro il pronao, un tetto a doppio spiovente con frontoni e spessi cornicioni aggettanti. La parte sopraelevata del tempio è solitamente lignea, con colonne in stile tuscanico-dorico, con tetto ricoperto da tegole in terracotta, tenute ferme da coppi terminanti con le grandi e caratteristiche antefisse dipinte. Rivestimenti, opere plastiche, il trave principale e i frontoni sono di terracotta vivacemente dipinta.

La facciata del tempio è rivolta verso l’altare e il temenos, il recinto sacro, anch’esso dedicato a una o più divinità, di fondamentale importanza per i riti religiosi etrusco-romani.

Oltre a Giove, il tempio è dedicato alla Triade Capitolina composta anche da Giunone e Minerva (le tre divinità corrispondono agli etruschi Tinia, Uni e Mnivria), posto sul colle Capitolino e consacrato, secondo la tradizione, nel 509 a.C., anno comunemente indicato come l’inizio della Repubblica romana.

Edificio possente (62,25 mt x 53,30 di superficie), ha una concezione di tempio come edificio monumentale e non come solo recinto sacro (templum) della primitiva tradizione italica; costruzione bassa ma, come indicato, estesa, suddiviso in triplice cella e con il muro posteriore continuo su tutta la larghezza dell’edificio. Questo tempio, costruito in epoca ancora arcaica, dimostra chiaramente che raramente la relazione tra Grecia e Roma sia semplicemente quella tra maestra e allieva!

Con lo sviluppo delle tecniche costruttive romane, con la progressiva sostituzione degli alzati in legno con materiali litici tra cui il laterizio, il travertino o l’opera cementizia rivestita in modo incerto o regolare, con l’adattamento di proporzioni e di particolari superficiali al nuovo gusto italo-ellenistico,  anche il Tempio di Giove subisce le opportune modifiche: distrutto da un incendio nell’83 a.C., è ricostruito e dedicato nel 69 a.C. dal console Quinto Lutazio Catulo (il costruttore del Tabularium). La pianta rimane la stessa ma le proporzioni differenti, meno slanciate di altri coevi, sono aggiunti numerosi particolari classici, fra cui le colonne di marmo che Silla ha tolto dal Tempio incompleto di Zeus Olimpio ad Atene.

Con l’avvento di Augusto inizia un nuovo periodo nella storia dell’architettura classica e anche il Tempio capitolino subisce i restauri dell’imperatore. Svetonio, nel De vita Caesarum, Augustus, 30, narra che l’imperatore dona al tempio oltre sedicimila libbre d’oro, con pietre preziose e perle per un valore di cinquanta milioni di sesterzi!

Le sorti del tempio, nei secoli successivi, sono segnate dal Cristianesimo e dalle orde vandale di Genserico che riducono a rovina la struttura.

Dell’antico tempio oggi abbiamo resti molto scarsi: ne rimangono tre angoli e ampie parti delle sostruzioni in blocchi di opera litica quadrata. Alcune decorazioni del tempio originario sono state rinvenute nel 2014, permettendo di ricostruire l’aspetto del tempio nella sua seconda fase decorativa.


mercoledì 17 agosto 2022

10 COSE SU GIULIO CESARE..

10 COSE SU GIULIO CESARE veloci..veloci
Perdeva spesso conoscenza, come durante la battaglia di Tapso Giulio Cesare svenne e dovette essere portato lontano dal campo di battaglia. Gli antichi attribuivano la causa al morbo sacro, l'epilessia, di recente analisti e medici hanno avanzato l'ipotesi che si trattasse invece di leggeri ictus dovuti a problemi circolatori (ischemie?) che potrebbero aver provocato micro lesioni al cervello, cosa questa che spiegherebbe anche i comportamenti non troppo equilibrati che il dittatore andava assumendo negli ultimi tempi di vita.
Si difese con uno stilus quando i congiurati lo assassinarono, e con questo colpì ad un braccio proprio Bruto, il figlio della sua amante Servilia e che le chiacchiere di Roma dicevano che poteva essere suo figlio naturale. Cesare come tutti i romani istruiti portava sempre con sé una tabula cerata ed uno stilus per poter prendere appunti durante le riunioni.
Falsificò gli Annales ed i Commentari dei Re inserendovi un procedimento inesistente fino al I sec. a.C., duoviri perduellionis ovvero alto tradimento verso lo stato, per accusare e far condannare dopo 40 anni Gaio Rabirio per la congiura contro il tribuno della plebe Saturnino ucciso nel 100 a.C. Rabirio fu difeso da Cicerone (Pro Rabirio) che riuscì a farlo scagionare.
Progettò di deviare il corso del Tevere e per farlo aveva fatto inserire nella lex de Urbe augenda la disposizione che nel complesso degli interventi per la riorganizzazione urbanistica di Roma, doveva essere tagliato il meandro che racchiudeva il Campo di Marte che troppo frequentemente subiva inondazioni.
Aveva una grande passione per la poesia: sin da giovane diede prova delle sue qualità di scrittore, compose il poema Elogio di Ercole e una tragedia Oedipus, ma i suoi interessi di studente erano anche per l'oratoria e scrisse De Divinatione che era una raccolta dei dibattiti preliminari per la scelta degli accusatori nei processi.
Emanò la Lex Julia municipalis che vietava la circolazione dei carri nel Foro. Può essere considerata una disposizione precorritrice di tutti i moderni divieti di accesso alle auto nei centri storici, tuttavia occorre ricordare che a Roma da sempre era vietato entrare all'interno del pomerium, il recinto sacro della città, non solo ai carri trainati ma anche ai cavalli montati; unica eccezione era la celebrazione del trionfo.
Detestava i peli superflui che eliminava depilandosi. Svetonio racconta che Cesare oltre a radersi e tagliarsi i capelli con regolarità, era solito farsi depilare e se una tale abitudine per lo storico era una manifestazione del carattere vanitoso dell'uomo, vale ricordare che la pratica era molto diffusa tanto che nelle terme c'era un addetto alla depilazione degli uomini.
Aveva un piccolo tesoro di 200 milioni di sesterzi che aveva lasciato in custodia nel sacello della Dea Opis nei pressi del Tempio di Saturno. Di quel tesoro si impadronì Antonio nei giorni successivi alla morte di Giulio Cesare.
Apprezzava l'ironia e la satira. Sin da giovane aveva raccolto in un poemetto, Dicta Collectanea, le facezie mordaci di cui gli oratori infarcivano le loro difese nel Foro e tra questi primeggiava Cicerone che ci compiaceva della preferenza che Cesare gli accordava. Continuò a raccoglierle durante tutta la sua vita sia copiandole dagli Acta istituiti nel 59 a.C. sia trascrivendole dai racconti di coloro che erano presenti alle orazioni.
Il luogo esatto dove fu ucciso venne sepolto sotto 20 metri cubi di cemento.Fu Ottaviano quando prese il potere a Roma a volere che nello spazio della Curia di Pompeo dove il padre adottivo era stato pugnalato fosse eretto una sorta di memoriale. Il luogo esatto dove Cesare cadde fu racchiuso in una struttura rettangolare di tre metri per due poi colmata di cemento ed oggi è individuabile tra i ruderi dell'Area Sacra di Largo Argentina.


giovedì 11 agosto 2022

L' esilio di Giulia

“Giulia fu esiliata ed imprigionata sull’isola di Pandataria - odierna Ventotene - nel Tirreno, a più di trenta miglia dalla costa laziale. Sull’isola, piccolissima, ebbe la compagnia solo della madre Scribonia che aveva chiesto di accompagnarla. […] non poteva più vedere o parlare con nessuno e fu costretta a vivere senza più agi o lussi di alcun genere. Con un’alimentazione che le garantisse la sola sussistenza, senza svaghi, senza scopi, dovette presto sentirsi come già morta. Una condanna terribile che lascia sgomenti e increduli.”



Fonti:
Tratto da: Fumagalli A., “Tiberio. Principe indesiderato imperatore per forza”



giovedì 23 giugno 2022

Gaio Duillio il primo romano che vinse sul mare

Gaio Duillio 
il primo romano che vinse sul mare
fu un politico e militare della Repubblica romana, ricoprendo un ruolo decisivo e di grande rilievo, nell’arco della prima guerra punica, dalla quale i romani uscirono vincitori.Sulle origini di Gaio Duillio e sull’inizio della sua carriera politica si sa ben poco, certamente era un “homo novus”, e cioè non faceva parte della tradizionale aristocrazia romana. Allo scoppio della prima guerra punica, nel 260 a.C., venne eletto console, ma peccando forse d’ingenuità, affidò il comando della flotta navale al suo collega, Gneo Scipione Asina, che, del tutto impreparato ad affrontare un conflitto sul mare, venne sconfitto e catturato dopo lo scontro che avvenne al largo delle isole Lipari. Gaio Duillio rimase così il solo a reggere il peso della guerra. Consapevole che la superiorità romana si sviluppava maggiormente sulla terra ferma, il console romano non si perse d’animo e fece costruire una nuova imponente flotta costituita da 120 navi, ciascuna delle quali armata con un ponte mobile dotato di uncini, chiamato “Corvo”, allo scopo di abbordare saldamente i vascelli nemici, cosi da trasformare una battaglia navale in uno scontro corpo a corpo,il corvo. In pratica il corvo era una passerella che fissata alla nave nemica per mezzo di grossi uncini, permetteva ai soldati romani di passare da una nave all’altra senza pericolose evoluzioni, e di combattere corpo a corpo, come meglio sapevano fare. Durante la battaglia di Milazzo, il nuovo armamento approntato da Gaio Duillio ebbe il successo sperato, le navi puniche non furono più in grado di manovrare, e i soldati romani si riversarono sui ponti delle navi nemiche, combattendo come se fossero sulla terra ferma, persa la loro superiorità marittima, i cartaginesi vennero sconfitti e Roma comparve per la prima volta, come nuova super potenza del mar Mediterraneo. Gaio Duillio venne onorato con il trionfo e con l’innalzamento di una colonna nel Fòro romano, costruita con i rostri delle navi nemiche catturate. Nel 258 a.C., Gaio Duillio venne eletto censore.
La colonna rostrata, detta anche colonna Duillia, era collocata nel fòro romano, si trovava accanto ai rostra imperiali. La base della colonna venne restaurata ai tempi di Augusto riportando esattamente la dedica in essa scolpita. Andata perduta nei secoli, il basamento della colonna venne ritrovato solo nel XVI secolo, nella sua collocazione originale, nei pressi dell’Arco di Settimio Severo, ed oggi è conservata nel Museo Nuovo Capitolino.
L’iscrizione della Colonna:
“EODEM MAGistratud bene rEM NAVEBOS MARID CONSOL
PRIMOS ceset copiasque Clasesque NAVALES---PRIMOS ORNAVET PAravetque---CVUMVE EIS NAVEBOS CLASEIS POENICAS OMNIs
item maxVMAS COPIAS CARTACINIENSIS---PRAESENTEd hanibaled DICTATORED OLorOM---INALTOD MARID PVCnandod vicet
VIQVE NAVEis cepeT CVM SOCEIS SEPTEResmon I,---quinqueresmOSQVE TRIRESMOSQVE NAVEIS Xxx---merset XIII aurOM CAPTOM: NVMEI MMMDC--ARCENTOM CAPTOM PRAEDA NVMEI….oimne CAPTOM AES…---primos quoQVE NAVALED PRAEDAD POPLOM donavet---primosque CARTACINIEnsIS inceNVOS---Duxit in Triumphod EIS CAPT.
Questa era la parte principale di una dedica più ampia che riportava quanto segue:
“da console, primo fra i romani, si illustrò con le navi in mare; egli fu il primo ad armare ed addestrare equipaggi e flotte di navi combattenti; e con queste sconfisse in una battaglia nell’alto mare le flotte puniche e parimenti le più possenti truppe dei Cartaginesi, in presenza di Annibale, il loro comandante in capo. E con la forza egli catturò le seguenti navi con i rispettivi equipaggi: una settereme, 30 quinqueremi e triremi, mentre 13 ne affondò. Oro catturato: più di 3600 monete…..E fu anche il primo a donare al popolo una preda navale, nonchè il primo a condurre in trionfo dei cittadini Cartaginesi catturati”.

Storia romana: le Guerre Puniche - FocusJunior.it

Storia romana: le Guerre Puniche - FocusJunior.it: Date, protagonisti e momenti salienti dello storico scontro tra Roma e Cartagine: ecco tutto il necessario per una ricerca sulle Guerre Puniche.

domenica 19 giugno 2022

PROTETTORE DELL' IMPERATORE

Anatolia: trovato per la prima volta un sarcofago col titolo di “Protettore dell’Imperatore”.

Provincia di Kocaeli, Turchia occidentale: è stato rinvenuto un sarcofago appartenuto ad un soldato che porta il titolo di “Protettore dell’Imperatore”, si tratta di un caso del tutto eccezionale, dal momento che mai prima di questo momento in Anatolia era stato trovato un sarcofago riportante tale indicazione.

Il sarcofago rientra nel gruppo delle 37 tombe identificate tra il 2017 e il 2019 in occasione degli scavi di salvataggio operati dalla Direzione del Museo Kocaeli in una zona dove era in progetto la costruzione di un edificio. E proprio con gli studi scientifici operati dal Professore Associato Hüseyin Sami Öztürk dell’Università di Marmara si ha avuto la conferma dell’identità di tale soldato, ovvero Tziampo, la guardia del corpo di Diocleziano.

In particolare, poi, sul sarcofago è possibile leggere la dedica di Tziampo: “Ho vissuto 50 anni. Non permetto che nessuno tranne mio figlio Severo o mia moglie sia sepolto in questa tomba. Ho servito nell’esercito per nove anni come cavaliere, undici anni come ordinario e dieci anni come protettore. Se qualcuno oserà seppellire un altro in questa tomba, pagherà 20 follis a Fisco e 10 alle casse della città”.
Serkan Geduk, il Direttore del Museo Kocaeli, ha dichiarato che il sarcofago è di grande importanza non solo per le informazioni contenute nell’iscrizione ma anche per i due scheletri e i piccoli reperti rinvenuti in situ, infatti per la prima volta si ha un’iscrizione di una guardia del corpo imperiale insieme a due scheletri nel sarcofago e doni funerari. Il Sarcofago di Tziampo è quindi il primo al mondo in questo campo.

Ma chi è più precisamente Tziampo? Il Dott. Geduk riferisce che si tratta di un uomo di origine rumena, che ha svolto il consueto cursus honorum militare, fino a diventare “Protettore dell’Imperatore”, carica istituita dall’imperatore Gallieno nel III sec d.C. “Il numero dei soldati finora conosciuti e impegnati in questo compito è soltanto di sette persone. Questi provengono dall’attuale Italia, Croazia, Serbia, Algeria e Arabia. Con Tziampo questo numero sale ad otto” ha affermato il Dott. Geduk.

Si tratta quindi di una importantissima scoperta, sia per ampliare le informazioni sulla figura del “Protettore dell’Imperatore”, sia per la storia romana in Anatolia.

credits: https://mediterraneoantico.it/

martedì 14 giugno 2022

IL POPOLO DELLA MONTAGNA CONTRO LA LUPA: DE BELLO APUANO (193-180 a.C.)


Roma conosceva bene la ferocia delle genti montane dei Liguri, un coacervo di potenti tribù (più o meno celtizzate ma dalla cultura vivida e unica) che controllava grosso modo l'attuale Piemonte, la Liguria, parte dell'Occitania e le cui scorrerie e transumanze arrivavano fino a Pisa, in Etruria. Durante la II Guerra Punica i Romani avevano tastato con mano la forza di questi agili e robusti guerrieri, il cui contributo era stato imprescindibile per le vittorie di Annibale.

Una volta scacciato lo spettro della conquista punica, la Repubblica estese il proprio potere fino a Portus Lunae, mentre la stessa Genua (già alleata durante la guerra punica) era un emporio sicuro per i commerci romani.
La confederazione dei Liguri Apuani, nucleo principale delle popolazioni liguri meridionali, ormai stretta tra le montagne della Val di Magra, della valle del Serchio e 
dell’Appennino orientale, scorgeva in queste operazioni una minaccia per la propria indipendenza. 

Nel 193 a.C. [Liv. XXXIV,56,1] circa 20.000 
Apuani calarono sulla piana di Luna, 10.000 si mossero verso Piacenza e davanti a Pisa si schierarono addirittura 40.000 guerrieri. 
La città resistette grazie al valoroso contributo del console Quinto Termo, tuttavia nessuno ebbe il coraggio di affrontare in campo aperto un tale assembramento di forze.
Costretto ad assistere alla distruzione dell'agro da parte dei montanari, il console rischiò pure di essere ucciso dai liguri, salvato a stento da alcuni cavalleggeri numidi.

Ma le armate dei Liguri erano instabili: formate da clan pastorali, la leadership era spesso traballante e, dopo più di un anno di saccheggio e andirivieni, è probabile che numerosi guerrieri presero a tornare alle proprie case. Fu proprio in questa (probabile) situazione che il console sbaragliò parte dell'esercito ligure, infliggendo ben 9000 perdite tra i guerrieri di montagna.
Entrati in territorio Apuano, i romani distrussero numerosi castellieri e villaggi, senza però fiaccare realmente le forze dei liguri.
Un attacco improvviso nel 191 a.C. inflisse considerevoli perdite tra i romani, che riuscirono con grandi difficoltà a respingere l'avanzata nemica. Minucio tornò a Roma con un nulla di fatto: Pisa era salva, eppure gli Apuani controllavano la linea costiera dell'Etruria del nord, appoggiati dai cugini Friniates.

I due anni successivi videro Roma sotto scacco, causa le continue scorrerie dei Liguri, nonchè l'ennesimo nulla di fatto del console Messala (188 a.C.). Conscia della gravità della situazione, la Repubblica schierò entrambi gli eserciti consolari: Flaminio guidò il proprio lungo le valli appenniniche dell'Arno, sbarrando la strada ai saccheggiatori Friniates carichi del bottino strappato all'agro Pisano. Dopo aver sbaragliato i Friniates, Flaminio sconfisse anche gli Apuani, di ritorno da Bologna.
L'altra armata, sotto il comando di Marco Emilio, penetrò nella valle del Serchio così da costringere gli Apuani a ritirarsi sui picchi più alti, forse nella rocca di Suismontium (si segnala anche una probabile vittoria campale contro gli stessi). Apparve dunque alla Repubblica che la guerra fosse ormai vinta, tanto da dare finalmente inizio ai lavori per la via Emilia. Ma i Liguri erano un popolo testardo e fiero, difficilmente piegabile.

Infatti, volendo disarmare gli irriducibili Apuani, il console Quinto Marco Filippo, alla guida di 8000 fanti (3000 romani e 5000 alleati) e 350 cavalieri avanzò nella Val Magra. Qui, forse a causa dell'imprudenza dei romani, gli Apuani sorpresero le truppe romane e le sbaragliarono dopo averle circondate.
Rimasero sul campo ben 4.000 uomini e tra le mani degli Apuani 3 insegne legionarie e 11 
insegne degli alleati. Una vera e propria Teutoburgo italica...

La situazione peggiorava rapidamente, anche perchè le vie di comunicazione per Marsiglia e l’Iberia erano insicure via mare per via degli Ingauni e degli Intemelii, Liguri siti sulla Riviera di Ponente, sia via terra per i continui attacchi (ora rinnovati) degli Apuani. Lo stesso pretore Bebio venne ucciso insieme alla sua scorta nei pressi di Marsiglia. Le spedizioni del 185 a.C. furono un altro buco dell'acquae e solo nel 182 a.C. Lucio Emilio Paolo riuscì a respingere i Viturii e i Sabates che minacciavano Genua.

Avanzato fino ai confini del dominio Ingauno, Lucio Emilio Paolo fu assediato nel proprio campo dai Liguri, che respinsero i romani fin dietro le palizzate. In difficoltà, il console chiese aiuto alla flotta pisana, ma, con una fortunata sortita, riuscì a sconfiggere gli Ingauni prima dell'arrivo dei rinforzi. In soli tre giorni Album Ingaunum (Albenga) si arrese, essendo anche la flotta Ingauna sconfitta dal Duumviro Caio Matieno. Placati gli Ingauni, che ricevettero un trattamento di favore salvo la distruzione delle mura cittadine, i Romani focalizzarono le proprie attenzioni sugli Apuani.

Quattro nuove legioni affiancate da alleati di varie genti (forse anche liguri) per un totale di 35.800 uomini si prepararono all'attacco finale. Guidato da due proconsoli, prima dell'elezione formale dei consoli, l'esercito prese di sorpresa gli Apuani, convinti che l'attacco sarebbe arrivato proprio sotto il comando dei Consoli.
Consultato il Senato, si decise allora di deportare 40.000 capifamiglia con mogli e figli nel Sannio, vicino a Benevento. In loco abiteranno per secoli, ancora chiamati Baebiani e Corneliani dal nome dei proconsoli che li avevano sconfitti.

I Friniati vennero invece sottomessi da Aulo Postumio dopo due scontri sul monte Ballista e a Suismontium, a cui seguì la resa. La guerra era dunque conclusa: grazie ai continui rastrellamenti (altri 20.000 Apuani vennero deportati) sopravvissero solo poche migliaia di Apuani indipendenti, celati in alcune valli isolate, fino alla completa sconfitta nel 155 a.C. per mano di Marco Claudio Marcello.

Tuttavia le tribolazioni e i conflitti con il popolo della montagna non sarebbero ancora finite. 
Parleremo infatti di altre guerre e di come le tribù dei "Capillati" avrebbero resistito al potere di Roma fino al 14 a.C. 

FONTI
Lanfranco Sanna, Ars Militaris;
Tito Livio, Ab Urbe Condita;
R. Del Ponte I Liguri, Etnogenesi di un popolo;
B.M. Giannattasio, I Liguri e la Liguria, Storia e archeologia di un territorio prima della conquista romana; 
John Patterson, Sanniti, Liguri e Romani;


venerdì 3 giugno 2022

TITO MANLIO "TORQUATUS"

Durante la guerra gallica del 361 a.C., della cui conduzione era stato incaricato il dittatore Tito Quinzio Penno Capitolino, un guerriero celta sfida i Romani e invita il soldato romano più forte a sfidarlo in duello. Mentre gli altri giovani sono paralizzati dalla paura, Tito Manlio lascia il proprio posto, si presenta davanti al dittatore e gli chiede il permesso per combattere contro il Gallo. 

[Tito Livio, Ab Urbe condita, VII, 9, 8-10]
«Allora un Gallo di statura gigantesca avanzò sul ponte deserto e urlò con quanta voce aveva in gola: "Si faccia avanti a combattere il guerriero più forte che c’è adesso a Roma, così che l’esito del nostro duello stabilisca quale dei due popoli è superiore in guerra!".
Tra i giovani romani ci fu un lungo silenzio, poiché da un lato si vergognavano di rifiutare il combattimento, dall’altro non volevano affrontare una sorte particolarmente rischiosa: allora Tito Manlio, figlio di Lucio, lasciò la sua posizione e si avviò dal dittatore: "Senza un tuo ordine, comandante", disse "non combatterei mai fuori dai ranghi, neppure se vedessi certa la vittoria: ma se tu lo permetti, a quella bestiaccia che ora fa tanto lo spavaldo davanti alle insegne nemiche io vorrei dare la prova di discendere da quella stirpe che precipitò già dalla rupe Tarpea le schiere dei Galli". 
Allora il dittatore gli rispose: "Onore e gloria al tuo coraggio e alla tua devozione per il padre e la patria, o Tito Manlio! Vai e con l’aiuto degli dei dai prova che il nome di Roma è invincibile!". 
Poi i compagni lo aiutarono ad armarsi: egli prese uno scudo da fante e si cinse in vita con una spada ispanica, più adatta per lo sconto corpo a corpo. Dopo averlo armato, lo accompagnarono verso il guerriero gallico che stava stolidamente esultando e che in segno di scherno tirava fuori la lingua. Quindi rientrarono al loro posto, mentre i due uomini armati restarono soli in mezzo al ponte, più come si usa negli spettacoli che secondo le norme di guerra, pari di forze a giudicarli dall’aspetto esteriore: l’uno aveva un fisico di straordinaria corporatura, sgargiante nelle vesti variopinte e per le armi dipinte e cesellate in oro; l’altro nella statura media di un soldato e d’aspetto modesto le sue armi, più maneggevoli che appariscenti; non canti, non esultanza né vana esibizione delle proprie armi, ma un petto fremente di palpiti di coraggio e tacita ira; tutta la sua fierezza egli aveva riservata per il momento decisivo del duello. 
Quand’ebbero preso posizione tra i due eserciti, con tanti uomini intorno, dagli animi sospesi tra la speranza e la paura, il Gallo, calò con grande fragore sulle armi dell’avversario che si avvicinava un fendente che andò a vuoto. Il Romano, sollevata la spada, colpì con il proprio scudo la parte inferiore di quello del nemico; poi, insinuatosi tra il corpo e le armi di quest’ultimo in modo tale da evitare di essere ferito, con due colpi sferrati uno dopo l’altro gli trapassò il ventre e l’inguine, facendolo stramazzare a terra, disteso in tutta la sua mole. Quindi, risparmiando ogni altro scempio al corpo del caduto, si limitò a togliergli il torque, e a indossarlo al collo intriso di sangue com’era. La paura insieme con lo stupore aveva agghiacciato il sangue ai Galli: i Romani, usciti dagli avamposti verso il loro commilitone, rivolgendogli congratulazioni e lodi, lo condussero dal dittatore. 
Fra le rozze battute che i soldati si scambiavano nei loro cori, fu udito il soprannome di "Torquatus"; esso, in seguito, fu usato spesso anche dai suoi discendenti e tornò d’onore alla sua famiglia. Il dittatore aggiunse in dono una corona d’oro e di fronte alle truppe adunate celebrò con le lodi più alte quel combattimento.»

venerdì 13 maggio 2022

LA FALCE DACICA

Immagini raffigurantii guerrieri Daci mentre usano vari tipi di Falx, provenienti dal Tropaeum Traiani (trofeo di Traiano) è un monumento commemorativo situato ad Adamclisi, Romania. Sebbene danneggiato da secoli di incuria e spoliazioni, il monumento resta una delle opere emblematiche dell'arte provinciale romana. Sorgeva in un luogo simbolo delle campagne di Dacia, nel punto di incrocio tra le strade, lungo il corso del Danubio, che portavano dal Mar Nero all'entroterra balcanico.

La falce dacica (Falx in latino) era un'arma bianca manesca del tipo spada in uso ai Daci al tempo dell'Impero romano. Arma sviluppata a partire dalla romfaia dei Traci, aveva un'impugnatura in legno lunga circa tre piedi ed una lama in metallo ricurvo, affilato sul solo lato concavo, più o meno della medesima lunghezza. I Daci, popolazione trace stanziata nell'attuale Romania, avevano due tipi di falce da guerra:
La falce da guerra ad una mano era molto simile al sica già in uso presso i Traci e veniva chiamata in latino ensis falcatus, falcata (Ovidio, Metamorfosi) o falx supina (Giovenale, Satire);
la falce dacica vera e propria, una sorta di ibrido tra la spada e la picca, come il falcione (arma in asta) basso-medievale o il naginata del Giappone feudale. Al tempo della Conquista della Dacia da parte dell'imperatore Traiano, il pericolo per l'incolumità dei legionari costituito dalle falci dei daci costrinse l'esercito romano ad adottare particolari misure: l'elmo legionario venne rinforzato per proteggere il capo dalla letale falcata discendente e si diffuse la pratica di aggiungere alla corazza dei soldati, la lorica segmentata, delle protezioni per le braccia.
Diversi esemplari di falci da guerra a due mani ornano il basamento della Colonna di Traiano, monumento fatto erigere dall'optimus princeps per commemorare la sua vittoria sui daci. Il fregio che copre la colonna ci mostra però sempre dei guerrieri daci ritratti con lo scudo, il che esclude, per loro, l'uso della falce da guerra a due mani. Chi dei soldati brandisce una falce, ne brandisce una di piccole dimensioni, un sica. Il monumento fatto erigere da Traiano in Romania, per commemorare la sua vittoria sui daci nella Seconda Campagna Dacica (105 d.C.), il Tropaeum Traiani, mostra invece diversi guerrieri barbari armati con falci da guerra a due mani. La falce dacica aveva:
un'impugnatura in legno lunga circa tre piedi;
una lama in metallo ricurvo, affilato sul solo lato concavo, più o meno della medesima lunghezza.
L'uso di una simile arma, capace di infrangere il grande scutum dei legionari o di strapparlo via dalle mani dei nemici, richiedeva una notevole abilità ed una notevole forza fisica ma aveva l'ovvio inconveniente di privare chi la brandiva della difesa di uno scudo.

Fonte: https://www.facebook.com/635562086913189/posts/1335150940287630/

domenica 20 febbraio 2022

Un ponte sulla baia

Di Caligola ne parla molto (e male, ovviamente; l'imperatore era già morto ahahah) Svetonio ma anche Cassio Dione. Vi voglio riferire un paio di stramberie riferite a suo riguardo.
Nel 40 d.C. Caligola iniziò una politica molto controversa di affiancamento del titolo di principe al ruolo di divinità: cominciò infatti ad apparire in pubblico vestito come gli dei e i semidei del pantheon romano, come Ercole, Venere e Apollo. Iniziò a riferirsi a sé stesso come dio, facendosi chiamare Giove nelle cerimonie pubbliche. 
Ossessionato dall'idea di regalità, la vedeva personificata da Giove, il re di tutti gli dei. Con Giove Capitolino l'imperatore manteneva un rapporto confidenziale, quasi di fratellanza e complicità. 
Riferisce Svetonio:
« Di giorno.... parlava in segreto con Giove Capitolino, ora sussurrando e porgendo a sua volta l'orecchio. Ora a alta voce e senza risparmiargli rimproveri. Infatti si sentirono le sue parole di minaccia. o tu elimini me o io te, finché non si lasciò persuadere - a sentir lui - dall'invito a condividere la sede e collegò i palazzi imperiali del Palatino al Campidoglio con un ponte che passava sopra il tempio del Divino Augusto »
(Svetonio, Vite dei Cesari)
Questo, che può apparire un comportamento bizzarro, in realtà faceva parte delle consuetudini religiose romane, come riferiscono altre fonti antiche a proposito di Scipione l'Africano che abitualmente aveva dialoghi mistici con Giove Capitolino. La frase blasfema di Caligola rivolta a Giove («o tu elimini me o io te»), racconta Cassio Dione, va riferita alla stizza dell'imperatore nei confronti di Giove Tonante, che con i tuoni e i fulmini, dei quali aveva molta paura, gli aveva impedito di assistere tranquillamente agli spettacoli dei pantomimi.
D'altra parte a guardar bene non mi sembra sintomo di pazzia il fatto che parlasse con Giove: ancora oggi alcuni di noi in casi particolari parlano (o si recano dove pensano di essere più vicino per Lui che ascolta) con la Divinità. Molto più preoccupante, invece, mi pare il fatto che Giove gli rispondesse.
« (Caligola) Aveva anche escogitato un'invenzione con cui rispondeva con tuoni ai tuoni e mandava lampi in risposta ai lampi: e quando cadeva un fulmine lanciava a sua volta un sasso come se fosse un dardo ripetendo ogni volta il verso d'Omero, o tu elimini me o io te »
(Cassio Dione)

E, a proposito di ponti, vengono riferite due versioni sulla costruzione di un ponte.
Questa è la prima:
L'imperatore Tiberio, zio di Germanico, dovendo scegliere il suo successore, decise di adottare Caligola, il figlio di quest'ultimo. Ma, trovandosi a parlare con l'astrologo Trasillo, Tiberio ebbe modo di esprimergli qualche perplessità sul ragazzo. L'astrologo gli disse di non preoccuparsi, perché Caligola "non ha maggiori probabilità di diventare imperatore che di attraversare a cavallo il golfo di Baia". Divenuto imperatore, Caligola pensò bene di mettere alla berlina l'astrologo Trasillo: fece costruire un ponte di barche, lungo tremila e seicento passi (circa due chilometri e seicento metri), che dal molo di Baia giungeva fino al molo di Pozzuoli. Terminata l'opera, Caligola andò avanti e indietro sul ponte per due giorni, ovviamente a cavallo.
L'altra versione è questa:
Fece costruire tra Baia e la diga di Pozzuoli, che separava uno spazio di circa tremila e seicento passi, un ponte formato da navi da carico, riunite da tutte le parti e collocate all'ancora su due file; poi le si ricoprì di terra dando a tutto l'insieme l'aspetto della via Appia. Per due giorni di seguito non la smise di andare e venire su questo ponte: il primo giorno si fece vedere su un cavallo riccamente bardato, con una corona di quercia, una cetra, una spada e una veste broccata d'oro, il giorno dopo, vestito come un cocchiere di quadriga, guidava un carro tirato da due cavalli celebri, che erano preceduti dal giovane Dario, uno degli ostaggi dei Parti, e seguiti da una schiera di pretoriani e di veicoli con a bordo un gruppo di amici. So che Gaio aveva ideato un ponte di tal genere secondo alcuni per rivaleggiare con Serse che, non senza stupore, ne gettò uno sull'Ellesponto, anche se più modesto, e secondo altri, per spaventare, con la risonanza di qualche opera gigantesca, Germani e Bretoni che lo minacciavano di guerra.
Due metri sotto il pelo dell'acqua sopravvivono, infissi nel molo romano i cui resti sono incorporati in quello moderno, anelli ai quali si vuole fosse assicurato il grandioso ponte di barche fatto gettare da Caligola fra Pozzuoli e Baia. 
L’opera ingegneristica deve essere stata di grande rilevanza: una doppia fila di navi da carico, affiancate le une alle altre, su cui l’imperatore era in grado di passare a cavallo e alla guida di un carro. Dione fornisce la descrizione più accurata: alcune delle navi che formavano il ponte erano state portate lì da altri porti, ma altre furono costruite per l’occasione, poiché non fu possibile radunarne in numero sufficiente in così breve tempo, nonostante tutte le barche disponibili fossero raccolte; con il risultato che una carestia colpì l'Italia e in particolare Roma. Nel costruire il ponte, non fu predisposto solo il passaggio, ma furono messe in opera lungo il percorso anche aree di sosta e di ricovero, e queste avevano acqua corrente da bere.
Al centro del ponte era costruita una piattaforma dalla quale Caligola tenne il suo discorso il secondo giorno, durante il trionfo. 
Le fonti concordano nel rappresentare la grandiosità del prodotto finale come più grande e importante rispetto a quello di Serse, che pure aveva dovuto sostenere il passaggio di un esercito reale e non simbolico.

Fonte: https://www.facebook.com/media/set/?set=a.1393198040800827&type=3

mercoledì 19 gennaio 2022

CANNE E SCIPIONE AFRICANO

" al nemico non solo bisogna concedere una via per scappare, ma anche rendergliela sicura "

" hosti non solum dandam esse viam ad fugiendum, sed etiam muniendam "

Publio Cornelio Scipione 

" senatori, è giunto momento di dare battaglia, non pacificarsi con lo sporco barbaro "

" patres conscripti, tempus advenit pugnae, non pacem barbaram "

Publio Cornelio Scipione 

Le due frasi sono riferite all'acerrimo nemico Annibale:

la prima riguarda la battaglia decisiva avvenuta nella piana di Zama in Tunisia dove Scipione mise in atto un vero capolavoro tattico, sbaragliando Annibale con la stessa tattica usata dal barbaro contro i Romani nella piana di Canne.

la seconda parla di un aneddoto molto importante che ha segnato la svolta per i Romani, sconfitti  annientati e umiliati a Canne da Annibale, (i morti tra i Romani si annoverano tra gli 80000 mentre il cartaginese subisce solo poche miglia di perdite), pochi i superstiti tra cui Publio Cornelio Scipione che dopo la disfatta di Canne, aveva posto in salvo i pochi superstiti delle legioni romane, li conduce a Canusium e li pose come obiettivo la riorganizzazione dell'esercito romano.
Questa impresa di una pericolosità unica causa vicinissima distanza della città di solo quattro miglia dal campo di Annibale. Scipione esortò il i numerosi patrizi a non fuggire in esilio e per ottenere ciò li minaccia.Fatto il punto della situazione,  si fece raccontare dai sopravvissuti le fasi della battaglia, e la tattica vincente del nemico.

Livio ci narra che alla prospettiva di sbandamento e di ammutinamento dopo la sconfitta, Scipione fu fermo, deciso, l'unico dei capi militari a mostrare forza: alle richieste dei comandanti di riunire un consiglio per deliberare sulla situazione, oppone un netto rifiuto, non era tempo di discutere ma di osare e agire.
esorta gli uomini rimasti guidandoli fino a Roma. I romani, dinanzi a tale coraggio, e fermezza del 20enne Scipione, si strinsero attorno a lui come ad un eroe.
La parola pace venne proibita, il lutto limitato solo a  30 giorni e l'esternazione del proprio dolore in pubblico fu vietata anche alle donne.
Nel frattempo il Senato spaventato dalla possibile marcia di Annibale verso una Roma senza difese, si appresta a preparare una pace forzata contando sulla clemenza del cartaginese. Il giovane Scipione giunto nella Curia, nell' atto della votazione infame, da sfogo a tutto il suo orgoglio romano, guarda i senatori ad uno ad uno negli occhi, ed esclama:

" volete che i posteri vi ricordino come coloro che vigliaccamente hanno consegnato senza combattere l'onore Romano al nemico?? Datemi un paio di legioni, porterò la guerra in territorio nemico (Africa) come Annibale ha fatto con noi, lui sarà costretto a salpare per Cartagine, io lo condurro' alla disfatta!!! "

Gli Storici Romani raccontano la strage dei figli di Roma avvenuta a Canne:

" il Senato decise di mettere in campo otto legioni, il che non era mai stato fatto prima a Roma, ogni legione composta da 5.000 uomini, oltre agli alleati. I Romani combattono la maggior parte delle loro guerre con due legioni al comando di un console, con i loro contingenti di alleati, e raramente utilizzano tutte e quattro le legioni in una sola volta e per un solo compito. Ma in questa occasione, tanto grande era l'allarme e il terrore di ciò che sarebbe potuto accadere, che decisero di mettere in campo non solo quattro, ma otto legioni "
 (Polibio, Storie III)

" affermano alcuni che per reintegrare le perdite si arruolarono diecimila nuovi soldati; altri parlano di quattro legioni nuove, per affrontare la guerra con otto legioni; e si dice pure che le legioni furono accresciute di forze, tanto di fanti quanto di cavalieri, aggiungendo a ciascuna circa mille fanti e cento cavalieri, così che risultassero di cinquemila fanti e di trecento cavalieri, e che gli alleati diedero un numero doppio di cavalieri ed egual numero di fanti "
(Tito Livio, Ab Urbe condita)

" l''ala sinistra della cavalleria gallica e ispanica si azzuffò con l'ala destra romana, non tuttavia in forma di combattimento equestre: bisognava infatti lottare frontalmente poiché non era presente attorno spazio per evoluzioni; da un lato le serravano le schiere dei fanti e dall'altro il fiume. Si urtarono dunque da entrambe le parti in linea di fronte; forzati a immobilità dalla calca i cavalli, i cavalieri si abbrancavano l'uno per gettar l'altro di sella. La battaglia era ormai divenuta prevalentemente pedestre; tuttavia si combatté più aspramente che a lungo, e i cavalieri romani, respinti, volsero in fuga "
(Tito Livio, Ab Urbe condita)

" dopo dunque la disposizione di tutto il suo esercito in linea retta, prese le compagnie centrali degli Ispanici e dei Celti e avanzò con loro, mantenendo il resto della linea in contatto con queste compagnie, ma a poco a poco essi si staccarono, in modo tale da produrre una formazione a forma di mezzaluna, la linea delle compagnie fiancheggianti stava crescendo in sottigliezza poiché era stata prolungata, il suo scopo era quello di impiegare gli Africani come forza di riserva e di iniziare l'azione con gli Ispanici ed i Celti "
(Polibio, Storie)

" all'ala sinistra dei Romani, dove contro i Numidi stavano i cavalieri degli alleati, ardeva la battaglia Circa cinquecento numidi, che oltre le solite armi e i giavellotti avevano gladii nascosti sotto le corazze, erano avanzati allontanandosi dai loro compagni fingendosi disertori, con gli scudi dietro le spalle; poi celermente erano scesi da cavallo, e, gettati ai piedi dei nemici gli scudi e i dardi, furono accolti in mezzo allo schieramento e, condotti nelle ultime file, ebbero l'ordine di fermarsi là dietro. Finché la battaglia non fu accesa da tutte le parti, stettero fermi; quando poi la lotta tenne occupati gli occhi e l'animo di tutti, allora, dato piglio agli scudi, che giacevano sparsi qua e là tra i mucchi degli uccisi, assalirono i soldati romani alle spalle, e, ferendoli alla schiena e tagliando loro i garetti, produssero grande strage, spavento e confusione anche maggiori "
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri)

 " in quanto i loro ranghi esterni erano continuamente distrutti, ed i superstiti erano costretti a ritirarsi e si stringevano insieme, sono stati infine tutti uccisi, dove si trovavano "
(Polibio)

" tante migliaia di Romani stavano morendo. Alcuni, le cui ferite erano eccitate dal freddo mattino, nel momento in cui si stavano alzando, coperti di sangue, dal mezzo dei mucchi di uccisi, erano sopraffatti dal nemico. Alcuni sono stati trovati con le teste immerse nelle buche in terra, che avevano scavato; avendo, così come si mostrò, realizzato buche per loro stessi, e essendosi soffocati, 600 legionari massacrati al minuto fino a quando l'oscurità pose fine alla carneficina. "
(Tito Livio, Ab Urbe condita)

" mai prima d'ora, mentre la stessa città era ancora sicura, c'era stato tanto turbamento e panico tra le sue mura. Non cercherò di descriverlo, né io indebolirò la realtà andando nei dettagli. Dopo la perdita di un console e dell'esercito nella battaglia del Trasimeno l'anno precedente, non fu una ferita dopo l'altra, ma una strage molto più grande quella che era stata appena annunciata. Secondo le fonti due eserciti consolari e due consoli sono stati persi, non c'era più nessun accampamento romano, nessun generale, nessun soldato in esistenza, Puglia, Sannio, quasi tutta l'Italia giaceva ai piedi di Annibale. Certamente non c'è altro popolo che non avrebbe ceduto sotto il peso di una simile calamità"
(Tito Livio, Ab Urbe condita)

" quanto più grave è stata la sconfitta di Canne, rispetto a quelle che l'hanno preceduta, lo si vede dal comportamento degli alleati di Roma; prima di quel fatidico giorno, la loro lealtà rimase irremovibile, ora ha cominciato a vacillare per la semplice ragione che disperano del potere romano"
(Polibio - Storie)

" nel 1540 anno della fondazione di Roma i consoli Lucio Emilio e Publio Tenerzio Vanone vengono inviati contro Annibale e succedono a Quinto Fabio Massimo. Inoltre il dittatore Fabio li aveva esortati affinché non combattessero con Annibale comandante astuto e senza pazienza. Tuttavia, partito Fabio, a causa dell’impazienza del console Varrone si combattè presso Canne ed i consoli furono entrambi vinti da Annibale. In questa battaglia vennero uccisi tremila Africani e una grande parte dell’esercito di Annibale venne ferita. Ma anche i Romani subirono una gravissima strage. Infatti nella battaglia vennero uccisi il console Emilio Publio,venti ex consoli o pretori, trenta senatori vennero catturati ed uccisi, trecento uomini nobili, quarantamila soldati, tremilacinquecento cavalieri. E tuttavia in queste sventure nessuno dei Romani pensò di fare menzione di pace. Dopo questa battaglia molte città dell’Italia ,che erano state agli ordini dei romani, si diedero ad Annibale. Annibale, con varie torture,uccise i prigionieri e mandò a Cartagine tre maggi di anelli d’oro, che erano stati sottratti dalle mani dei cavalieri, senatori e soldati dei romani "
(Eutropio)

martedì 18 gennaio 2022

QUINTO FABIO MASSIMO

QUINTO FABIO MASSIMO

detto il "Temporeggiatore" ovvero Fabius Maximus Cunctator.. Roma 275 a.c. –   Roma 203 a.c.

«Per il momento giusto devi attendere, così come fece Fabio con pazienza, mentre fronteggiava Annibale, anche se molti lo criticarono per questo. Quando il momento giunge devi però batterti duramente, così come fece Fabio, o la tua attesa sarà stata vana e infruttuosa.»

(Saggi fabiani, I)

https://mondointernazionale.com/culturalmenteimparando/il-fabianesimo

Nel 217 a.C., subito dopo la sconfitta del lago Trasimeno, Fabio venne nominato dittatore, o meglio prodittatore, dato che non era stato nominato materialmente da alcun console. Da allora, poiché la guerra con Annibale era solamente difensiva, Fabio divenne la personalità più importante a Roma. Forse le sue doti militari non erano tra le più acute, ma capì prima di tutti i suoi contemporanei, la natura della tattica e del genio di Annibale e la situazione dei suoi connazionali.

Cicerone dice di Fabio che "bellum Punicum secundum enervavit" ("snervò la seconda guerra punica"), un elogio più veritiero di quello di Ennio, che dice "qui cunctando restituit rem" ("che temporeggiando ripristinò lo Stato"), dal momento che Marcello e Scipione riportarono la repubblica alla sua grandezza militare, mentre Fabio la rese capace di un ritorno alle origini.

Il suo primo atto come dittatore fu calmare e rinvigorire gli animi dei Romani facendo sacrifici solenni e supplicando gli dei; quindi rese il Lazio e le zone adiacenti inespugnabili per il nemico. Al momento di stabilire il campo escogitò un piano di azione semplice e fisso. Evitò ogni contatto diretto con il nemico; spostò l'accampamento da un altopiano ad un altro, dove la cavalleria della Numidia e i fanti iberici non sarebbero riusciti a salire; osservò i movimenti di Annibale con una stretta vigilanza, catturò i nemici sbandati e quelli che si erano allontanati dal campo in cerca di cibo, costrinse Annibale a far stancare i suoi alleati con impellenti richieste e a scoraggiare i suoi soldati con manovre inutili.

«Fabio aveva deciso di non esporsi al rischio e di non venire a battaglia con Annibale. Inizialmente tutti lo consideravano un incapace, e che non aveva per nulla coraggio ma col tempo costrinse tutti a dargli ragione e ad ammettere che nessuno sarebbe stato in grado di affrontare quel momento delicato in modo più avveduto e intelligente. Poi i fatti gli diedero ragione della sua tattica»

(Polibio, III, 89, 3-4.)

Leggi di più:
https://innovation4value.com/blog/il-temporeggiatore/