martedì 25 giugno 2019

I dona militaria


I DONA MILITARIA,  IN AZIONE BELLICA: OSTENTAZIONE narcisistica  POCO CREDIBILE DI PATACCHE, O "INSIGNIA" riconoscibili DI VIRTUS?

Spesso nell'ambito ricostruttivo di una battaglia,  si possono vedere rievocatori interpretare centurioni e tribuni in azione, che ostentano il petto (ed il crine) ornato di " phalerae e torques"..
Sebbene il soldato tenda ad una certa estetica del proprio valore, sfruttata anche per giocare sul livello di morale dell'avversario, puo' sembrare assurdo che un ufficiale andasse in battaglia portandosi appresso le sue decorazioni..
Decorazioni che sappiamo introdotte nella prima Repubblica (Plinius. Historia Naturalis 22, 6-13)
E di cui fa per la prima volta menzione Polibio (Pragmateia, 6,39)

Ma nella descrizione della guerra in Spagna, Cesare/AuloIrzio menzionano un episodio che parrebbe comprovare questa "giuliva pataccosità di decorazioni" in battaglia..
L'episodio fa riferimento a Munda, 54 a.C.
E cosi' leggiamo:

"Itaque praeter consuetudinem cum a nostris animadversum esset cedere, centuriones ex legione v flumen transgressi duo restituerunt aciem, acriterque eximia virtute plures cum agerent, ex superiore loco multitudine telorum alter eorum concidit. Ita cum eius compar proelium facere coepisset, cum undique se circumveniri animum advertisset, in[teger re]gressus pedem offendit. Huius concidentis temporis aquari fortis insignia cum conplures adversariorum concursum facerent, equites nostri transgressi inferiori loco adversarios ad vallum agere coeperunt"

Tradotto:

"Di conseguenza, quando i nostri uomini si accorsero che stavano cedendo terreno più del loro solito, due centurioni della V Legione attraversarono  il fiume (Salsum) e ripristinarono la linea di battaglia (acies)  e mentre respingevano energicamente i loro numerosi nemici, con  eccezionale virtu',  uno di loro cedette a una raffica di missili scagliati da un punto più alto. E così il suo collega iniziò una lotta in salita; e quando osservò che era completamente circondato, si ritirò e perse l'equilibrio/si feri' il piede. Mentre questo ufficiale galante cadeva, numerosi nemici si affrettarono a deprededare le sue decorazioni (insignia); ma la nostra cavalleria attraversò il fiume e dalla parte inferiore procedette a spingere il nemico verso il vallo"
(Bellum Hispaniense, 23)

Dunque, quantomeno parrebbe che alcune decorazioni venissero portate in battaglia.
Forse per incoraggiare gli uomini piuttosto che per personale ostentazione, come nella piu' classica delle tradizioni dei mores romani.
Sebbene ponessero gli ufficiali nella duplice situazione vantaggiosa/svantaggiosa di essere riconosciuti sia dalle proprie truppe, che dai nemici.

Non sappiamo di quali decorazioni si parli nel brano: forse appunto di phalerae e torques; o di armillae...
Dunque, sebbene sembrerebbe esserci una riprova delle "patacche" in battaglia, sarebbe bene comunque tener conto che visibilità rappresentativa non significa per forza ...
"enfasi narcisistica ostentata"


Fonte: https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=1620910551361103&id=100003265221988

lunedì 24 giugno 2019

Massimino il trace


Gaio Giulio Vero Massimino
MASSIMINO detto il  TRACE   

Alto più di due metri, con una enorme potenza fisica, era in grado di trainare un carro a forza delle sole braccia, di abbattere un cavallo con un solo pugno e di frantumare i massi a mani nude. Si dice fosse figlio di un contadino goto, tale Micca, e di Hababa una donna della tribù degli Alani (Erodiano che lo definisce Per natura barbaro nel costume come nella stirpe).

Fu il primo imperatore ad essere eletto per volontà dell'esercito avendo in precedenza percorso tutta la carriera militare da soldato semplice a generale ed il secondo Imperatore di rango equestre venti anni circa dopo la nomina ad Augusto del prefetto del pretorio Opellio Macrino (217-218).

Gaio Giulio Vero, passato alla storia come Massimino il Trace, nacque in una zona imprecisata non lontana dal Danubio probabilmente fra il 172 d.C. e il 185 d.C.
Nato probabilmente da una famiglia di rango equestre fu il primo esponente di una serie di imperatori-soldati di stirpe illirico-balcanica che cercò con la forza delle armi di difendere l'Impero dalle sempre più frequenti invasioni barbariche.
Entrato nell'esercito come un semplice soldato, Massimino emerge dai ranghi in ragione della sua forza e della sua ferocia che in breve divennero leggendarie fra i suoi compagni.
Le notizie che riguardano Massimino sono confuse e la brevità del suo regno, tre soli anni tutti passati sul campo di battaglia, non gli hanno consentito, come spesso accade a molti potenti, di costruirsi a posteriori un passato glorioso. In vita egli fu fiero avversario della classe senatoria e proprio da storici appartenenti a questa classe vennero poi raccontati gli eventi che lo riguardano, tutti tramandatici in maniera tale da mettere il Trace sotto una luce negativa di rozzo barbaro contrapposto al suo predecessore, l'illuminato, almeno per la classe senatoria, Alessandro Severo.

Da sempre fedele alla dinastia dei Severi, Massimino, che ancora adolescente era stato notato da Settimio Severo il quale ne aveva incoraggiato e poi premiato la carriera militare, conosce un periodo infelice solo sotto l'impero di Eliogabalo.
Una volta salito al potere il tredicenne Alessandro Severo, Massimino viene riportato in primo piano nei ranghi dell'esercito tanto è vero che nel 232 ha il comando di una legione in Egitto e l'anno successivo diventa governatore della provincia di Mesopotamia.
Nel 235 d.C. troviamo Massimino all'apice della sua carriera militare come generale di Alessandro Severo a Magonza per domare una rivolta di popolazioni germaniche lungo il confine del Reno. A lui l'imperatore affida il comando delle reclute. Può apparire un comando minore ma è proprio Alessandro Severo a smentirlo e a definire la stima che ha di Massimino come soldato. Dice l'imperatore :

Massimino carissimo, il comando dei veterani, perché ho temuto che tu non potessi ormai più correggere i loro vizi... hai nelle tue mani delle reclute: fa loro apprendere la vita militare secondo il modello dei tuoi costumi, del tuo valore, del tuo impegno, perché tu abbia a procurarmi molti Massimini, così necessari per il bene dello Stato..

 Questa è la fiducia che Alessandro ripone in Massimino, fiducia che solo pochi mesi dopo viene ripagata con l'uccisione dello stesso Severo da parte di quelle reclute guidate e istruite, forse plagiate, dallo stesso Massimino.
Al di là della storiografia, tutta contraria al Trace che lo dipinge come un rozzo barbaro quasi privo di sentimenti, viene spontaneo chiedersi come mai questi accetti senza alcuna remora la nomina ad imperatore e il tradimento nei confronti di colui che era pur sempre il suo comandante... Alessandro Severo è un debole. Salito al regno appena adolescente ha sempre gestito il potere in modo formale delegando gli affari di stato alla madre invadente Giulia Mamea e alla nonna, la volitiva Giulia Mesa. Con Alessandro il potere viene gestito di fatto anche dall'oligarchia senatoria che impone al principe un comitato di patres guidati dal prefetto del pretorio, il famoso giurista fenicio Domizio Ulpiano, che deve indicare ad Alessandro Severo la politica da seguire.
Massimino, invece, è un militare ed odia il Senato e la politica. Non c'è dubbio alcuno che, nonostante la sua fedeltà all'imperatore, Massimino non si sia dato pena di nascondere con i suoi soldati il disprezzo che provava. Il capo dell'esercito, l'imperatore sottoposto a ventisette anni ancora all'autorità della madre: inconcepibile! In questa atmosfera di disprezzo per Alessandro Severo devono essere state allevate le reclute fedeli solo al loro generale. Ed è per questo che, dopo l'ennesima vittoria ottenuta sotto la sua guida, proprio queste reclute proclamano Massimino imperatore.
Il campo di Alessandro Severo dista appena un miglio dall'accampamento di Massimino. Le reclute del Trace si gettano sull'imperatore che non ottiene protezione neppure dalle legioni orientali partiche che gli erano fedeli fino a pochi giorni prima. Severo fugge nella tenda della madre Giulia Mesa e fra le lacrime la rimprovera per la sua ambizione definendola come nuova Messalina. Entrambi scappano con pochi fedeli. La loro fuga è però breve, perché ben presto vengono raggiunti e trucidati.
Il Senato è colto di sorpresa e non può far altro che ratificare la volontà delle legioni.

http://soldatiromanideltardoimpero.blogspot.com/2017/06/legionario-200-ad-epoca-di-settimio.html?

La prima preoccupazione del generale è la guerra contro i Germani. Fra i suoi obiettivi c'è una guerra ad oltranza che sola avrebbe dovuto definire una volta per tutte la questione dei confini con le tribù germaniche. Proprio mentre era occupato in una operazione bellica al di là del Reno, scoppia la prima rivolta degli uomini fedeli ad Alessandro. Massimino, ritornato precipitosamente sulla sponda romana del Reno, soffoca nel sangue la ribellione.
Dopo poche settimane è la volta della ribellione del corpo degli arcieri di Osroene (Mesopotamia), anch'essi fedeli del vecchio augusto. I legionari ribelli eleggono imperatore un vecchio amico di Alessandro Severo, un tale Quartino. Il suo regno dura pochi giorni è lo stesso capo degli arcieri, un tale Macedonio, che, mutato parere, uccide Quartino portandone poi la testa spiccata dal busto a Massimino, il quale scandalizzato, gli riserva la stessa fine.
L'origine chiaramente senatoria di questi complotti convince l'imperatore a sostituire gli ufficiali di rango senatorio con soldati di carriera a lui fedeli. Finalmente sicuro di quanto stava accadendo dietro le sue spalle, Massimino varca nuovamente il Reno attraversando il ponte costruito dallo stesso Severo nei pressi di Magonza. Le legioni avanzavano bruciando e distruggendo villaggi, uccidendo tanto gli uomini quanto le donne e i bambini. Più volte affrontato dalle orde germaniche, spesso in situazioni di chiaro svantaggio tattico per la relativa conoscenza del territorio pieno di foreste e di paludi, Massimino le sconfigge facendo rifulgere in più di un'occasione la sua abilità militare e il suo coraggio. Che differenza dal suo predecessore doveva essere per i soldati vedere il loro comandante combattere a cavallo davanti a loro, guidando più volte lui stesso furiose cariche di cavalleria! Nonostante le perdite la campagna si conclude con un chiaro successo che consente a Massimino di fregiarsi del titolo di "Germanico". I Senatori che gli avevano conferito questo onore avrebbero forse preteso che Massimino si recasse a Roma per onorarli ma, in modo politicamente improvvido, Massimino non vi si recò mai preferendo a queste formalità il rimanere sul campo di battaglia, dove riteneva essere più necessaria la sua opera.

Dopo avere trascorso l'inverno del 235 e del 236 nel centro strategico di Sirmium "il Trace" si rimette all'opera per ricacciare dietro i confini del Limes le tribù ribelli del Danubio. La campagna è lunga e anche qui, secondo il suo stile, sanguinosa, ma si conclude con un nuovo successo che consente a Massimino di fregiarsi anche dei titoli di "Sarmatico" e "Dacico". Tanta abilità militare non gli vale comunque la stima del Senato che anzi, appena può, cerca di rinfocolare le ambizioni degli avversari di Massimino. Questa volta è il turno del proconsole d'Africa Marco Antonio Gordiano, ricco latifondista, che rischiava di vedersi confiscate le terre vicino a Cartagine come già era accaduto ad altri suoi pari senatori nella stessa Roma. La politica fiscale estremamente dura fu uno dei punti deboli del governo dell'imperatore. Con la scusa delle spese di guerra sempre più onerose da sostenere Massimino aumentò le tasse in particolar modo ai più ricchi esponenti dell'oligarchia senatoria. In effetti non si può dire che avesse tutti i torti, visto che le casse dell'erario erano praticamente vuote e le guerre non davano certo i bottini che erano usuali quando Cesare conquistò la Gallia o Pompeo l'Egitto. Le tribù Germaniche erano più ricche di ferocia che d'oro. Non si può neppure dire che Massimino usasse in abbondanza dei soldi spremuti ai Senatori per ingraziarsi l'esercito con cospicui donativi. Anzi, proprio la sua rigida disciplina nei confronti di coloro che l'avevano eletto imperatore, sarà una delle cause della sua rovina.
Con un esiguo esercito, Gordiano e il figlio Gordiano Minore dapprima conquistano Cartagine, praticamente indifesa, ma devono poi soccombere al ritorno dei soldati numidi, fedeli a Massimino, guidati da Cappeliano, governatore della stessa Cartagine. Gordiano Minore, rimasto a difesa della città con pochi uomini, si batte valorosamente ma è infine sopraffatto ed ucciso . Saputo della morte del figlio, anche Gordiano si toglie la vita. Il suo titolo era durato meno di un mese.
La nomina di Gordiano ad imperatore viene abilmente manovrata dal partito senatorio a Roma che diffonde la voce della morte di Massimino. "Il Trace" è però vivo e vegeto in Pannonia e venuto a conoscenza dell'accaduto, dopo avere informato del da farsi il suo fidato luogotenente Cappeliano in Africa, si dirige a marce forzate verso l'Italia e Roma.
In mancanza del nuovo imperatore Gordiano, il Senato provvede a nominare due suoi esponenti, Marco Pupieno e Balbino, come vicari. La carica, in realtà un ibrido fra il consolato e l'impero, è frutto di una estenuante riunione dei patres per cercare di fronteggiare il pericolo incombente.

http://soldatiromanideltardoimpero.blogspot.com/2017/07/pretoriano-230-ad-epoca-di-alessandro.html?m=1

Massimino, nel frattempo valicate le Alpi, entra in Italia senza trovare resistenze ma anche senza trovare cibo per sfamare i suoi uomini. Giunto davanti ad Aquileia, fedele al Senato, chiede che la città gli apra le porte ma i battenti restano chiusi. L'assedio sembra protrarsi e piano piano la mancanza di vettovaglie e le forti perdite alimentano sempre più il malcontento fra le sue truppe.
Siamo nel giugno del 238. In un caldo pomeriggio estivo alcuni legionari della seconda legione partica facenti parte dell'esercito del Trace penetrano nella tenda uccidendo l'imperatore ed il figlio, che era stato associato al potere con la carica di principe della gioventù. La notizia giunge rapida, insieme alle teste dei due, a Marco Pupieno che si affretta a raggiungere Aquileia per premiare con una consistente somma di denaro le truppe.
Finisce così come era iniziata, dopo soli tre anni di regno, l'avventura di Massimino, il primo soldato semplice a diventare imperatore della grande Roma.











mercoledì 19 giugno 2019

Batavi, supermen al servizio dell' Impero


BATAVI SUPERMEN AL SERVIZIO DELL' IMPERO

Battaglia fiume Medwhay, Britannia

..Non esisteva alcun ponte su quel fiume, perciò un distaccamento di ausiliari romani con un addestramento speciale (descritti dall'unica fonte storica per quella battaglia, Cassio Dione Cocceiano, come "celti") attraversò il fiume a nuoto ed attaccò i cavalli da biga dei nativi. Nella confusione che seguì, la maggior parte della forza d'invasione facente capo alla Legio II Augusta sotto Vespasiano attraversò il fiume, sotto il comando generale di Tito Flavio Sabino. Sembra che i nativi fossero stati colti di sorpresa da come quei legionari pienamente equipaggiati fossero stati in grado di attraversare il fiume e Peter Salway afferma che perfino Cassio Dione sembra sorpreso..

Sono ragazzoni olandesi alti e grossi; le ultime statistiche ce li disegnano come i cittadini europei con la maggior distanza separante i propri capelli dal suolo sul quale poggiano i piedi: una media di 185 centimetri circa.
L'attacco a questo primato da parte di una piccola regione montuosa del Montenegro (un metro e 90, vera enclave di giganti) rappresenta un dato trascurabile.
Per questo (e non solo) i giovani abitanti di quelle pianure, tanto basse da estendersi al di sotto del livello del mare, eccellono in molti sport, nei quali si prevale sull'avversario grazie sopratutto alle qualità fisiche, alla vigorìa e alla resistenza: nel calcio, nel nuoto, nella pallavolo gli olandesi ottengono sovente grandi risultati; risultati, poi, tanto più apprezzabili se messi in relazione con un'entità demografica non straordinaria: sedici milioni di abitanti, quasi tutti spinti da una appassionata dedizione all'attività agonistica e sportiva, attività gratificata, come detto, da eccellenti prestazioni a livello di competizioni internazionali.
Gente agile, forte e fresca, dunque, salutarmente piena di energia.
Gli orange di oggi sono i discendenti di etnie che, nel corso dei secoli, seppero più volte imporsi in virtù della forza innata dei loro vigorosi corpi; e sebbene l'altezza media non sia sempre stata il forte di quei popoli (fino al 1800, anzi, gli abitanti dei Paesi Bassi si uniformavano a medie più meridionali che nordiche), tuttavia l'ardore, la bellicosità, la possanza fisica permetteva loro di sostenere le più dure battaglie combattute in Europa, e non solo: è noto come la piccola Olanda sia stata protagonista eccelsa dell'epopea delle colonizzazioni.
Batavi, Frisi...Erano gente di duro ceppo germanico, perfettamente dotata dalla natura per eccellere nell'arte “nobile” della guerra.
E di ciò si accorsero bene, duemila anni fa, i Romani signori del mondo, i quali attinsero a piene mani a questa genìe, così predisposta a corroborare efficacemente quella formidabile macchina da guerra che era l'esercito delle legioni.
Iniettando vigorose dosi di validi alleati (gli auxiliaria) Roma tonificava il proprio corpo bellico, attingendo in modo specifico a quelle etnie presenti geograficamente nelle varie partes Imperii.
Da sempre, la zona renana era stata fonte di forti preoccupazioni per Roma: al di là del grande fiume si estendevano lande e foreste sterminate abitate da numerose tribù germaniche, pericolose per la moltitudine e il valore dei loro guerrieri.
Catti, Tencteri,Suebi...: nomi che già al tempo di Cesare avevano intimorito non poco le truppe romane stanziate in territorio gallico, e che avevano poi perpetrato, con l'ignominioso tradimento di Arminio del 9 dopo Cristo, lo sterminio delle tre legioni augustee guidate da Varo, improvvidamente addentratosi nella selva tenebrosa di Teutoburgo.
Ci volle l'intervento, anni dopo, del miglior generale di Tiberio, Germanico (figlio del fratello dell'imperatore, Druso), per riparare all'onta subita e raddrizzare un poco la tribolata questione del Reno.
Un valido aiuto, in quella situazione e nel successivo controllo di quei turbolenti limina, giunse proprio dal popolo dei Batavi, sì di origine germanica, ma stanziato al di qua del Reno, in un isola (così racconta Cesare nel “De Bello Gallico”) situata tra la Mosa e il Waal, in quella regione, da tempo civilizzata e soggetta a Roma, chiamata Gallia Belgica.
I Batavi, dunque. Chi erano?
Innanazitutto, numericamente erano in pochi, pochi davvero. Lo sottolineamo per confermare quanto qualità e quantità vadano a braccetto raramente.
Una sorta di vera e propria truppa scelta, una enclave limitata ma impareggiabile, armi in pugno: i Batavi erano un po' gli Spartiati del Nordeuropa, l'élite guerriera di un esercito formidabile ed etnicamente variegato quale era quello romano.
Il popolo batavo, nei primi decenni imperiali, non toccava molto probabilmente i quarantamila individui tra uomini e donne: ma tutti i maschi in età militare ( dai sedici anni in su) entravano a far parte dell'esercito, e di questi circa cinquemila costituivano uno dei migliori corpi di auxiliariaesistenti.
Il ritrovamento di alcune stele funerarie ci mostra, tra l'altro, come i Batavi fossero di buon grado impiegati anche quale parte integrante della guardia imperiale, una formazione istituita da Augusto e il cui ruolo era di “corporis custodes”(letteralmente “guardie del corpo”) del princeps.
Tra di essi si distingueva il reparto di cavalleria batava, vero e proprio fiore all'occhiello, che forniva il nucleo degli Equites singulares di scorta all'imperatore.
Tanto era tenuto di conto per le sue peculiarità in campo militare, che la gente batava godeva del non trascurabile privilegio dell'esenzione dai tributi, dovuti solitamente a Roma dagli alleati.

http://soldatiromanideltardoimpero.blogspot.com/2010/04/nellimmagine-precedente-e-raffigurato.html?m=1

In cosa eccellevano questi straordinari soldati? Conosciamoli meglio, accompagnati dalle rapide ma efficaci descrizioni che ne dà Tacito in una delle sue opere principali, le “Historiae”.
I Batavi vengono trattati nel quarto e nel quinto libro di questo capolavoro letterario, giuntoci purtroppo solo in minima parte: “Senza subire lo sfruttamento delle loro risorse (fatto eccezionale nell'alleanza coi più forti), forniscono all'Impero solo uomini e armi; ampiamente addestrati nella guerra contro i Germani, avevano visto crescere la loro gloria con le campagne in Britannia, per merito delle coorti colà inviate al comando, secondo l'antica tradizione, dei capi più nobili del loro popolo. Vantavano - prosegue il grande storico narbonense - anche reparti scelti di cavalleria, così specializzati nel nuoto da attraversare il Reno con armi e cavalli, in formazione compatta.”
E ancora: “Da loro non si pretendevano tributi, ma solo valore e uomini. Era la condizione più vicina alla libertà. E -chiosa con un velo d'ironia Tacito- dovendo scegliere un padrone, meglio i prìncipi romani che le donne germaniche...!”
Anche i Batavi, per quanto alleati fidati dei Romani, non furono esenti dall'aspirare a rendersi, una buona volta, autonomi da Roma; a tal scopo, scoppiò presso quel popolo una rivolta nell'anno 69 dopo Cristo, l'“annus horribilis” dei quattro imperatori (Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano): e forse non a caso proprio in quei mesi, data la galoppante anarchia politico-militare che attraversava l'Impero.
A capo dei ribelli si era posto Gaio Giulio Civile, un nobile batavo pienamente romanizzato, il quale poggiò il tentativo di rivolta sulla partecipazione, oltre che della sua gente, anche di tribù germaniche guidate dalla profetessa Veleda, che assunse il ruolo di ispiratrice divina dell'impresa, oltre che di alcuni popoli gallici retti da Giulio Sabino, re dei Lingoni.
Civile ci viene così descritto dal grande Tacito, che lo dipinge con una fugace ma profonda pennellata: “Dotato ben oltre il livello normale dei barbari, di una intelligenza raffinata e scaltra, si sentiva un Sertorio e un Annibale per una analoga deturpazione del volto”.
Il casus belli fu offerto dalla esecuzione sommaria di Giulio Paolo, imparentato con Civile e punito dai legati romani con l'accusa (risultata poi infondata) di sedizione contro l'Impero.
I tumulti, brevi ma intensi, furono soffocati a fatica; nel corso degli scontri andò totalmente distrutto l'accampamento di Oppidum Batavorum, vero e proprio centro amministrativo di quella regione posta tra il delta renano e il Mare del Nord.
Tuttavia, dopo le esemplari punizioni impartite ai capi dei rivoltosi, i Batavi tornarono di buon grado (e nuovamente affidabili) a servire nelle legioni, dove non fecero mancare la loro esperienza e la perizia bellica forgiate in decenni di alleanza con Roma.
Il Batavo era dunque un figlio della guerra dalle poliedriche capacità: nell'equitazione, nel nuoto, nello scontro armato venivano esaltate le sue eccellenze di combattente.
Ci sarebbe da chiedersi se il grande Jules Verne si sia ispirato iconicamente al soldato-tuttofare batavo, per dipingere con arte la figura di Michele Strogoff, il corriere dello Zar pronto a sobbarcarsi cavalcate, attraversamenti di freddi fiumi con poderose bracciate e duelli per adempiere alla propria missione, attraverso le steppe polverose e sterminate della Santa Russia.
Di sicuro, è proprio l'idea letteraria partorita dal genio dello scrittore francese ad aver ispirato, decenni dopo, quello sport chiamato Pentathlon e assurto alla dignità olimpica: in esso, attraverso prove di equitazione, tiro, corsa, nuoto e scherma si esalta la forza dell'atleta perfetto, del supermanversatile e completo.
Ma uomini di tal fatta esistettero davvero, un paio di millenni fa; stimati da chi combatteva al loro fianco, temuti da chi si ritrovava ad affrontarli in battaglia, i Batavi seppero rappresentare con merito il tipico ceppo etnico che si distingue non per la moltitudine dei suoi appartenenti, ma per la comprovata qualità dei pregi e delle virtù.
Da pratici e genuini uomini del Nord qual erano, e lontani dal mondo mediterraneo dove andava sempre più inflaccidendosi il braccio che sostiene la spada, queste genti fecero della guerra la loro attività principale, ma anche il mezzo migliore per poter esprimere compiutamente la loro valorosa natura.







Fonte: http://www.tuttostoria.net/storia-antica.aspx?code=1055

Battaglia del lago Trasimeno


-Narrazione per la rievocazione della Battaglia del Trasimeno-

Un fumo nero, denso e acre, si leva in pigre volute, in alto, sempre più in alto, tra i colli che circondano il lago.
Padre Giove, dimmi, raggiungeremo forse i tuoi Campi Elisi?

Sono così stanco...

Ma ecco: un vento crudele spira da nord e spazza via il fumo, lo disperde... non raggiungerò mai le alte nubi, e quel poco che resta di me si sente svanire... la mia coscienza si perde...

Ho paura.

Paura, come quella mattina in cui si cominciò a vociferare per l'accampamento: una  delle insegne delle legione non si svelle dal terreno! E' un cattivo presagio! E' segno di malasorte! Non dobbiamo proseguire!

Ma il console, Gaio Flaminio, era giunto, il mantello svolazzante, e a gran voce si era preso gioco del vessillifero
"Ma quale malasorte, sciocchi superstiziosi? Io vedo solo fiacca pigrizia! Siete legionari o donnette?"

Ma se la sua bocca rideva, i suoi occhi erano sbarrati, i lineamenti contratti... una vena palpitava sulla sua fronte spaziosa, e il suo ghigno di dileggio si apriva sempre di più in un ringhio...

Lui, che già aveva piegato gli Insubri e schiacciato la Gallia Cisalpina sotto ai suoi impietosi calzari, bramava sopra ogni cosa l'ennesimo trionfo.

Ma si diceva che proprio allora, tra le rovine brucianti di Mediolanum, i Druidi dei Galli avessero scagliato su di lui una tremenda maledizione... e non avevamo forse visto tutti, già alla partenza da Roma, il suo cavallo crollare a terra trascinandolo con se, sotto alla statua di Giove Statore?

A coloro che vogliono annientare, gli Dei prima fanno perdere il senno... e invero un folle mi apparve Flaminio, mentre  spazientito, con una spinta gettava a terra il vessillifero e impugnava lui stesso l'insegna, e i tendini del collo tesi come corde, il volto contratto in uno spasmo, infine la strappava schiumando dalla morsa del terreno.

Il vessillo si liberò, accompagnato da un cupo risucchio del suolo.

"E' solo fango... solo un po' di fango..." bisbigliò tra sé e sé, le labbra strette, e poi diede l'ordine di mettersi in marcia.

Timore, ancora, mentre il console ci conduceva lungo quello stretto sentiero che costeggiava il lago, chiuso al lato opposto da greppi scoscesi e invalicabili... oggi la gente di questi luoghi lo chiama "Malpasso", in memoria di quello che accadde poco dopo, ma anche senza racconti lugubri a circondarlo sarebbe apparso chiaro a chiunque che quel luogo era perfetto per un'imboscata.

Ma non al console Flaminio.

"Forza! Non abbiamo forse visto ieri notte le luci dell'accampamento punico là, oltre il passo?
Annibale è in trappola! Volete forse che lo raggiungano prima le forze del console Servilio, alle sue spalle, e che ci privino, MI privino della gloria della vittoria!?"

La nebbia, ricordo anche la nebbia che saliva dal lago... ti intirizziva e ti toglieva il respiro, mentre la tunica ti si attaccava addosso e facevi fatica a spingere lo sguardo intorno, mentre tutto veniva inghiottito dal suo viscido filtro latteo.

"Cosa guardi Caio? I Cartaginesi saranno anche ributtanti e puzzolenti, ma mica sono delle capre, da poter stare abbarbicati su quei pendii così scoscesi"

Ricordo a malapena ora il volto di Publio, mentre provava a incoraggiarmi, ma soprattutto incoraggiarsi, con quei motteggi... voleva provare a rallegrarci, credo, ma le sue parole erano vuote, e i suoi occhi sbarrati come i miei.

Poi, a un tratto, le grida.

Indietro lungo la colonna, ma anche dinnanzi... "Dardi! Frecce! Ghiande di frombola! Allerta!"

Sento frenetici richiami d'avvertimento tutt'intorno, mentre i proiettili del nemico hanno preso a saettare sopra al mio elmo... perché il costone era certo troppo accidentato per della fanteria pesante, ma non per gli agili arcieri Mauri, i rapidi frombolieri delle Baleari, e tutti gli altri fanti leggeri che Annibale vi aveva appostato, resi ancor più invisibili dalla nebbia.

Non ci siamo ancora riavuti dalla scarica di proiettili micidiali, che ecco piombare in mezzo a noi i feroci caetrati celtiberi, gli infidi lonchophoroi libi, le lance che saettano, le spade che squarciano... balzano come belve feroci dall'alto mulinando le armi e urlando come dèmoni dell'Ade, facendo scempio di chiunque... ricordo alcuni compagni, investiti da quei mostri, venire sbalzati indietro, a rotolare fino nelle acque del lago, per venire pugnalati a morte dai barbari sghignazzanti.

Mentre mi difendo, lo scudo stretto al corpo, dal fondo della colonna sento arrivare il rombo di cavalli al galoppo, e gli aspri richiami dei Numidi... la cavalleria punica ci ha preso alle spalle!

...e poi, a sovrastare il rumore della battaglia, il cupo rimbombo di centinaia di corni e buccine, seguito da una cacofonia di grida di guerra che sembrano il latrare di cani... Flaminio la riconosce bene: è l'isterico canto dei Galli, coloro dei quali ha fatto scempio in passato e predato le terre, quelli che lui pensava di aver soggiogato, e che ora si sono uniti ad Annibale...

E i Libi e i Celtiberi si ritirano di un poco, riprendono fiato sogghignando, mentre come una marea i Celti si abbattono su di noi, gli scudi protesi e le spade sguainate, intonando già il peana della vittoria.

Non so come, sono finito in testa alla colonna... l'elmo ammaccato, il sangue che mi cola davanti agli occhi... forse alcuni di noi potranno guadagnare la salvezza... ma poi davanti mi si para, come in una tremenda visione, un muro di scudi bianchi con l'odiata effige del cavallo e della palma... la fanteria pesante di Annibale, che avanza lenta e implacabile per precluderci ogni via di scampo.

Alcuni dei miei compagni si lanciano disperati contro il nemico, cercando di forzarne il blocco... non so, non ricordo se vi riuscirono, e se sì, a quale prezzo... terrorizzato mi volgo indietro, e assisto al tragico epilogo dell'impresa di Gaio Flaminio.

Il console è accanto alle insegne, dove tenta l'ultima, disperata resistenza.

Un enorme, titanico Gallo, lo indica con la lancia, bramendo nella sua lingua..."E' lui!!! E' lui!" sembra dire, poi spalanca le braccia e volge gli occhi al cielo, come per chiamare gli Dei a testimoni del fato che si compie.

Come una tempesta il Gallo si abbatte su Flaminio e la sua guardia, trucidando chiunque si pari tra lui e il console, e infine affondando l'arma nel suo petto.

Quasi con distacco osservo i pochi Triarii rimasti, le aste abbassate e gli scudi compatti, accorrere e respingere i Galli, affinché non lo spoglino delle ricche armi... il Celta, il cui nome è Ducarios, avrà in ogni caso la sua mercede, e a battaglia terminata, secondo le sue usanze barbariche, decapiterà il console e ne appenderà la testa ai finimenti del suo cavallo, come macabro trofeo.

Le forze mi abbandonano e crollo in ginocchio, mentre attraverso a un velo rossastro, di sangue misto a lacrime, scorgo i Triarii soccombere, accerchiati da ogni lato... e deve essere stato allora... un ginocchio si pianta con violenza nella mia schiena, mentre una mano rozza mi afferra alla fronte, spingendomi il capo all'indietro, a scoprire la gola... sento freddo che scorre sulla mia pelle, e tutto si sfoca, tutto diventa nero.
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Si chiamano "ustrina": sono i forni realizzati secondo alcuni in fretta e furia dai genieri di Annibale, secondo altri dalla gente del luogo, per bruciare i tanti cadaveri, muta eredità del massacro.

Come tanti, il mio cadavere viene dato alle fiamme, e come in un sacrificio i fumi dei nostri corpi combusti si innalzano nell'aria tersa.

Ed è proprio mentre il vento spazza le colline, disperdendo l'acre esalazione degli ustrina, che capisco.

E allora non ho più paura.

Spazzate in lungo e in largo, le nostre ceneri si posano delicatamente sui campi appena arati, sulla superficie calma del lago... non sono i Campi Elisi la mia ultima destinazione...  dal Cielo non va e non viene nessuna vita: viene dalla terra, dalle messi, dall'erba... Madre, quanto ho voluto poter finalmente riposare nel tuo grembo!

Ed ora io, e i miei compagni tutti, siamo ovunque, intorno a voi: siamo gli alberi silenti che troneggiano lungo il Malpasso, siamo l'erba che accarezza le vostre gambe, siamo il pesce che nuota sul fondo al lago e l'airone che si posa sulle sue sponde... per sempre, e sempre, e sempre...

Rendeteci omaggio allora, voi che siete vivi, e ascoltate la nostra canzone: è nello stormire delle fronde, nell'uccello palustre che lancia il suo richiamo, nello sciabordio delle acque del lago...  la canzone della Battaglia del Trasimeno...


Fonte: https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=10157323981194839&id=629569838

sabato 8 giugno 2019

Optio


Prendendo spunto da una discussione aperta su Contubernium, ecco due parole sulla figura dell'optio (sì, ho avuto il piacere e l'onore di svolgere anche quel ruolo per diversi anni, con i miei cari amici della Legio XXX Ulpia Traiana Victrix)...
Le fonti e le informazioni disponibili ad oggi su questa figura sono piuttosto limitate: sappiamo che l'optio, fin dalle prime menzioni letterarie, era una figura scelta direttamente dal centurione per assisterlo o sostituirlo in caso di assenza (o di sua subitanea dipartita in azione, s'intende). Optio in effetti significa "scelta", e quindi non si trattava di una sorta di sottufficiale di carriera, ma di un uomo di fiducia del centurione. E' possibile che cambiando il centurione in una centuria, cambiasse anche l'optio, anche se non abbiamo molte informazioni al riguardo...
Quanto all'armamento e all'equipaggiamento, non esisteva, a quanto ne sappiamo ad oggi, una panoplia da optio, ma solo qualche elemento identificativo come l'hastile, una sorta di bastone lungo, o meglio una sorta di lancia senza punta, che poteva aiutare a tenere in linea i soldati o a sospingerli in caso di indecisione, e lo sappiamo dall'osservazione di alcuni rilievi funerari, come quello di Cecilius Avitus, optio della XX Victrix di stanza a Deva (Chester) e morto a 34 anni dopo 15 di servizio (!)
Non risultano da nessuna parte, e quindi sono del tutto arbitrarie (opsss... meglio... discutibili? soggettive? immotivate? 😆) le mitiche creste longitudinali (invenzione di uno dei primi gruppi inglesi di rievocazione), particolari borse a tracolla o addirittura anelli come segno distintivo. Quello che contava allora, e dovrebbe contare anche oggi per un rievocatore serio e appassionato, era il ruolo, svolto con competenza e con un corretto comportamento: era, e rubo l'espressione ad un amico, l'uomo che faceva la panoplia e non viceversa!

GIUSEPPE CASCARINO



Fonte: https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=10216295497633571&id=1037650712


lunedì 3 giugno 2019

Roma le origini

Roma....
..... fra tradizione, storia ed archeologia

La Roma quadrata
La leggenda vuole che Roma ebbe le sue origini sul Palatino. In effetti, scavi recenti hanno mostrato che delle popolazioni vi abitavano già nel 1000 a.C. circa. Si trattava di un villaggio di pochi ettari, circondato da paludi, dal quale era possibile controllare il corso del Tevere.

Questo primo agglomerato urbano è la "Roma quadrata", così chiamata dalla forma approssimativamente romboidale della sommità del colle su cui si trovava.

Il più noto sepolcreto scavato alla fine dell' Ottocento nel Foro, con numerose tombe ad incinerazione, servì probabilmente ai due abitati del Palatino (Cermalus e Palatium) dopo che essi si erano fusi a formarne uno solo, che venne recinto da un muro e con una porta chiamata Romulana, dalla quale si scendeva verso il Rumon, denominazione arcaica del fiume, e con un'altra , la Mugonia, forse con riferimento al muggito delle greggi, che si apriva verso il Velia.


sabato 1 giugno 2019

Ottaviano Augusto


Gaio Ottavio, più conosciuto come Ottaviano Augusto, fu il primo imperatore di Roma. Cagionevole di salute, di statura media, poco prestante, era altresì molto bello: biondo, fronte alta, naso importante, occhi che attiravano lo sguardo. Naturalmente le qualità che gli permisero di divenire il padrone assoluto di Roma e di un impero immenso furono altre: un concentrato di astuzia, prudenza, carisma e riservatezza. Gaio Ottavio nacque a Roma il 23 settembre del 63 a.C. da Gaio Ottavio, importante uomo d'affari nonché senatore e discendente della gens Octavia, originaria di Velitrae (odierna Velletri), e da Azia, discendente invece dalla stirpe che, secondo la leggenda, avrebbe fondato Roma, la gens Iulia. Azia infatti era imparentata sia con Giulio Cesare che con Gneo Pompeo Magno, essendo la figlia della sorella di Cesare, Giulia minore, e di Marco Azio Balbo. Il piccolo Ottavio probabilmente nacque a Roma soltanto per caso, nella casa situata sul Palatino che il padre utilizzava in occasione delle riunioni del Senato: la famiglia infatti viveva a Velitrae e lì Ottavio fu allevato. Rimasto orfano all'età di quattro anni, nel 44 a.C. fu adottato per testamento come figlio ed erede dal prozio Giulio Cesare e, secondo la consuetudine, assunse il nomen gentilizio (Iulius) ed il cognomen (Caesar) del padre adottivo, aggiungendovi la denominazione della gens di provenienza aggettivata in -anus, divenendo così Gaio Giulio Cesare Ottaviano (Gaius Iulius Caesar Octavianus). Evidentemente Giulio Cesare credeva fortemente in questo ragazzo perché, sebbene fosse ancora molto giovane, lo inviò ad Apollonia (nell'attuale Albania), dove era acquartierato l'esercito con il quale si stava preparando a partire per la guerra contro i Parti, per sorvegliarne i preparativi. Fu proprio ad Apollonia che Ottaviano fu informato dell'uccisione del prozio (15 marzo 44 a.C.) ed allora tornò immediatamente a Roma per reclamare i suoi diritti di figlio adottivo e di erede di Cesare. Ottaviano, giunto a Roma il 21 maggio, quando gli assassini di Cesare avevano già abbandonato la città grazie ad un'amnistia concessa dal console superstite, Marco Antonio, rivendicò il nome adottivo di Gaio Giulio Cesare, dichiarando pubblicamente di accettare l'eredità del padre: fu per questo motivo che, in occasione dell'udienza nella quale incontrò Antonio, chiese che gli venissero restituiti, almeno in parte, i denari consegnati ad Antonio dalla moglie di Cesare, Calpurnia, subito dopo la morte del dittatore, con i quali si sarebbero dovuti pagare i 300 sesterzi a testa che Cesare aveva lasciato nel suo testamento ai cittadini romani. Antonio non dovette preoccuparsi molto di quel giovinetto che gli comparve di fronte e con indifferenza rispose che non avrebbe potuto soddisfare la sua richiesta perché quelli non erano denari privati ma dell'erario. Ottaviano decise allora, impegnando i propri beni, di anticipare al popolo le somme, diffondendo ad arte la voce che Antonio gli impediva di entrare in possesso della sua eredità. La sua popolarità crebbe immediatamente, ottenendo inoltre che molti cesariani si schierarono dalla sua parte contro Antonio, suo diretto avversario nella successione politica a Cesare. Quando il Senato approvò la ratifica del testamento, riconoscendo ad Ottaviano lo status di erede legittimo e soprattutto padrone del patrimonio di Giulio Cesare, Ottaviano fu in grado di reclutare un esercito privato di circa 3.000 veterani di Cesare e comprò 2 legioni dell'esercito macedonico del console (la Martia e la IV). L'occasione di scontrarsi con Antonio avvenne quando il Senato inviò i due consoli del 43 a.C., Gaio Vibio Pansa ed Aulo Irzio, a sostegno di Decimo Bruto, uno dei capi dei cesaricidi, assediato da Antonio che voleva impadronirsi delle truppe della Gallia Cisalpina. Il 21 aprile Antonio venne sconfitto nella battaglia di Modena, nella quale rimasero uccisi anche i due consoli, cosicché Ottaviano ne uscì unico vincitore. Tornato a Roma con l'esercito, questi, malgrado la giovane età, si fece eleggere consul suffectus (ossia console in sostituzione) assieme a Quinto Pedio, ottenendo compensi per i suoi legionari e facendo approvare dal Senato la Lex Pedia contro i cesaricidi. In tal modo i consoli poterono rifiutarsi di portare ulteriore soccorso a Decimo Bruto, che, in fuga, venne infine ucciso nella Cisalpina da un capo Gallo fedele ad Antonio. Dalla sua nuova posizione di forza, divenuto legalmente a capo dello Stato romano, Ottaviano prese contatti con il principale sostenitore di Antonio, il pontefice massimo Marco Emilio Lepido, già magister equitum di Cesare, con l'intenzione di ricomporre i dissidi interni alla fazione cesariana. Ottaviano, Antonio e Lepido organizzarono un incontro nei pressi di Bologna, dal quale nacque un accordo della durata di cinque anni: si trattava del secondo triumvirato, riconosciuto legalmente dal Senato il 27 novembre di quello stesso anno con la Lex Titia, con la quale veniva creata la speciale magistratura dei Triumviri rei publicae constituendae consulari potestate, ovvero "Triumviri per la costituzione dello stato con potere consolare". Il patto prevedeva la divisione dei territori romani: ad Ottaviano toccarono Sicilia, Sardegna ed Africa, ad Antonio le due Gallie, a Lepido la Spagna e la Narbonense. La decisione più drastica fu quella di eliminare fisicamente gli oppositori di Cesare, che portò alla confisca dei beni ed all'uccisione di un gran numero di senatori e cavalieri, tra cui lo stesso Cicerone, che pagò in tal modo le Filippiche rivolte contro Antonio. Nell'ottobre del 42 a.C. Antonio ed Ottaviano, lasciato Lepido al governo di Roma, si scontrarono con i cesaricidi Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino e li sconfissero in due battaglie a Filippi, nella Macedonia orientale: i due anticesariani trovarono la morte suicidandosi. Ottaviano, Antonio e Lepido procedettero ad una nuova spartizione delle province: a Lepido furono lasciate la Numidia e l'Africa proconsolaris, ad Antonio la Gallia, la Transpadania e l'Oriente romano, ad Ottaviano spettarono l'Italia, la Sicilia, l'Iberia, la Sardegna e la Corsica. Al fine di allearsi con Sesto Pompeo, prefetto della flotta romana, Ottaviano sposò Scribonia, parente dello stesso Sesto: da questa donna Ottaviano ebbe la sua unica figlia, Giulia. Nell'estate del 40 a.C. Ottaviano ed Antonio giunsero ad aperte ostilità: Antonio cercò di sbarcare a Brindisi con l'aiuto di Sesto Pompeo, ma la città gli chiuse le porte. I soldati di ambedue le fazioni si rifiutarono di combattere ed i triumviri, pertanto, misero da parte le discordie. Con il trattato di Brindisi (settembre del 40 a.C.) si venne ad una nuova divisione delle province: ad Antonio restò l'Oriente romano da Scutari, compresa la Macedonia, e l'Acaia (ovvero l'antica Grecia), ad Ottaviano l'Occidente compreso l'Illirico, a Lepido, ormai fuori dai giochi di potere, l'Africa e la Numidia; a Sesto Pompeo la Sicilia. Il patto fu sancito con il matrimonio tra Antonio, la cui moglie Fulva era morta da poco, e la sorella di Ottaviano, Ottavia minore. Dopo il trattato di Brindisi, Ottaviano ruppe l'alleanza con Sesto Pompeo, ripudiò Scribonia e sposò Livia Drusilla, madre di Tiberio ed in attesa di un secondo figlio. Nel 39 a.C., a Miseno, Ottaviano assegnò a Sesto Pompeo le province di Sardegna e Corsica, fondando la città di Turris Libisonis (odierna Porto Torres) e promettendogli l'Acaia, ottenendo in cambio la ripresa dei rifornimenti a Roma (Pompeo con la sua flotta bloccava infatti le navi provenienti dal Mediterraneo). Nel 38 a.C. Ottaviano accettò di incontrarsi a Brindisi con Antonio e Lepido per rinnovare il patto di alleanza per altri cinque anni. Nel 36 a.C., grazie all'amico e generale Marco Vipsanio Agrippa, Ottaviano riuscì a liberarsi finalmente di Sesto Pompeo, divenuto un alleato scomodo, sconfiggendolo definitivamente presso Mileto, grazie anche ad alcuni rinforzi inviati da Antonio. La Sicilia cadde e Sesto Pompeo fuggì in Oriente, dove poco dopo fu assassinato dai sicari di Antonio. A quel punto, però, Ottaviano dovette far fronte alle ambizioni di Lepido, il quale, aspirando alla Sicilia rimasta libera, ruppe il patto di alleanza e mosse per impossessarsene. Sconfitto però rapidamente, dopo che i suoi soldati lo abbandonarono passando dalla parte di Ottaviano, Lepido fu confinato al Circeo, pur conservando la carica pubblica di pontifex maximus. Con l'eliminazione graduale di tutti i contendenti nell'arco di 6 anni, da Bruto e Cassio, a Sesto Pompeo e Lepido, la situazione vide a questo punto due soli contendenti: Ottaviano in Occidente ed Antonio in Oriente, portando un inevitabile aumento dei contrasti tra i due triumviri, ciascuno troppo ingombrante per l'altro. Alla sua scadenza, nel 33 a.C., il triumvirato non venne rinnovato e, cosa ben più grave, Antonio ripudiò la sorella di Ottaviano con un affronto per quest'ultimo intollerabile. Il conflitto divenne inevitabile. Mancava solo il casus belli, che Ottaviano trovò nel testamento di Antonio, in cui risultavano le sue decisioni di lasciare i territori orientali di Roma a Cleopatra VII d'Egitto ed ai suoi figli, compreso Cesarione, figlio di Gaio Giulio Cesare. Ottaviano ebbe vita facile ad evidenziare l'atto come un'offesa irreparabile nei confronti di Roma ed a far sì che il Senato dichiarasse guerra a Cleopatra, ultima regina tolemaica di Egitto, sul finire del 32 a.C.