mercoledì 19 giugno 2019

Battaglia del lago Trasimeno


-Narrazione per la rievocazione della Battaglia del Trasimeno-

Un fumo nero, denso e acre, si leva in pigre volute, in alto, sempre più in alto, tra i colli che circondano il lago.
Padre Giove, dimmi, raggiungeremo forse i tuoi Campi Elisi?

Sono così stanco...

Ma ecco: un vento crudele spira da nord e spazza via il fumo, lo disperde... non raggiungerò mai le alte nubi, e quel poco che resta di me si sente svanire... la mia coscienza si perde...

Ho paura.

Paura, come quella mattina in cui si cominciò a vociferare per l'accampamento: una  delle insegne delle legione non si svelle dal terreno! E' un cattivo presagio! E' segno di malasorte! Non dobbiamo proseguire!

Ma il console, Gaio Flaminio, era giunto, il mantello svolazzante, e a gran voce si era preso gioco del vessillifero
"Ma quale malasorte, sciocchi superstiziosi? Io vedo solo fiacca pigrizia! Siete legionari o donnette?"

Ma se la sua bocca rideva, i suoi occhi erano sbarrati, i lineamenti contratti... una vena palpitava sulla sua fronte spaziosa, e il suo ghigno di dileggio si apriva sempre di più in un ringhio...

Lui, che già aveva piegato gli Insubri e schiacciato la Gallia Cisalpina sotto ai suoi impietosi calzari, bramava sopra ogni cosa l'ennesimo trionfo.

Ma si diceva che proprio allora, tra le rovine brucianti di Mediolanum, i Druidi dei Galli avessero scagliato su di lui una tremenda maledizione... e non avevamo forse visto tutti, già alla partenza da Roma, il suo cavallo crollare a terra trascinandolo con se, sotto alla statua di Giove Statore?

A coloro che vogliono annientare, gli Dei prima fanno perdere il senno... e invero un folle mi apparve Flaminio, mentre  spazientito, con una spinta gettava a terra il vessillifero e impugnava lui stesso l'insegna, e i tendini del collo tesi come corde, il volto contratto in uno spasmo, infine la strappava schiumando dalla morsa del terreno.

Il vessillo si liberò, accompagnato da un cupo risucchio del suolo.

"E' solo fango... solo un po' di fango..." bisbigliò tra sé e sé, le labbra strette, e poi diede l'ordine di mettersi in marcia.

Timore, ancora, mentre il console ci conduceva lungo quello stretto sentiero che costeggiava il lago, chiuso al lato opposto da greppi scoscesi e invalicabili... oggi la gente di questi luoghi lo chiama "Malpasso", in memoria di quello che accadde poco dopo, ma anche senza racconti lugubri a circondarlo sarebbe apparso chiaro a chiunque che quel luogo era perfetto per un'imboscata.

Ma non al console Flaminio.

"Forza! Non abbiamo forse visto ieri notte le luci dell'accampamento punico là, oltre il passo?
Annibale è in trappola! Volete forse che lo raggiungano prima le forze del console Servilio, alle sue spalle, e che ci privino, MI privino della gloria della vittoria!?"

La nebbia, ricordo anche la nebbia che saliva dal lago... ti intirizziva e ti toglieva il respiro, mentre la tunica ti si attaccava addosso e facevi fatica a spingere lo sguardo intorno, mentre tutto veniva inghiottito dal suo viscido filtro latteo.

"Cosa guardi Caio? I Cartaginesi saranno anche ributtanti e puzzolenti, ma mica sono delle capre, da poter stare abbarbicati su quei pendii così scoscesi"

Ricordo a malapena ora il volto di Publio, mentre provava a incoraggiarmi, ma soprattutto incoraggiarsi, con quei motteggi... voleva provare a rallegrarci, credo, ma le sue parole erano vuote, e i suoi occhi sbarrati come i miei.

Poi, a un tratto, le grida.

Indietro lungo la colonna, ma anche dinnanzi... "Dardi! Frecce! Ghiande di frombola! Allerta!"

Sento frenetici richiami d'avvertimento tutt'intorno, mentre i proiettili del nemico hanno preso a saettare sopra al mio elmo... perché il costone era certo troppo accidentato per della fanteria pesante, ma non per gli agili arcieri Mauri, i rapidi frombolieri delle Baleari, e tutti gli altri fanti leggeri che Annibale vi aveva appostato, resi ancor più invisibili dalla nebbia.

Non ci siamo ancora riavuti dalla scarica di proiettili micidiali, che ecco piombare in mezzo a noi i feroci caetrati celtiberi, gli infidi lonchophoroi libi, le lance che saettano, le spade che squarciano... balzano come belve feroci dall'alto mulinando le armi e urlando come dèmoni dell'Ade, facendo scempio di chiunque... ricordo alcuni compagni, investiti da quei mostri, venire sbalzati indietro, a rotolare fino nelle acque del lago, per venire pugnalati a morte dai barbari sghignazzanti.

Mentre mi difendo, lo scudo stretto al corpo, dal fondo della colonna sento arrivare il rombo di cavalli al galoppo, e gli aspri richiami dei Numidi... la cavalleria punica ci ha preso alle spalle!

...e poi, a sovrastare il rumore della battaglia, il cupo rimbombo di centinaia di corni e buccine, seguito da una cacofonia di grida di guerra che sembrano il latrare di cani... Flaminio la riconosce bene: è l'isterico canto dei Galli, coloro dei quali ha fatto scempio in passato e predato le terre, quelli che lui pensava di aver soggiogato, e che ora si sono uniti ad Annibale...

E i Libi e i Celtiberi si ritirano di un poco, riprendono fiato sogghignando, mentre come una marea i Celti si abbattono su di noi, gli scudi protesi e le spade sguainate, intonando già il peana della vittoria.

Non so come, sono finito in testa alla colonna... l'elmo ammaccato, il sangue che mi cola davanti agli occhi... forse alcuni di noi potranno guadagnare la salvezza... ma poi davanti mi si para, come in una tremenda visione, un muro di scudi bianchi con l'odiata effige del cavallo e della palma... la fanteria pesante di Annibale, che avanza lenta e implacabile per precluderci ogni via di scampo.

Alcuni dei miei compagni si lanciano disperati contro il nemico, cercando di forzarne il blocco... non so, non ricordo se vi riuscirono, e se sì, a quale prezzo... terrorizzato mi volgo indietro, e assisto al tragico epilogo dell'impresa di Gaio Flaminio.

Il console è accanto alle insegne, dove tenta l'ultima, disperata resistenza.

Un enorme, titanico Gallo, lo indica con la lancia, bramendo nella sua lingua..."E' lui!!! E' lui!" sembra dire, poi spalanca le braccia e volge gli occhi al cielo, come per chiamare gli Dei a testimoni del fato che si compie.

Come una tempesta il Gallo si abbatte su Flaminio e la sua guardia, trucidando chiunque si pari tra lui e il console, e infine affondando l'arma nel suo petto.

Quasi con distacco osservo i pochi Triarii rimasti, le aste abbassate e gli scudi compatti, accorrere e respingere i Galli, affinché non lo spoglino delle ricche armi... il Celta, il cui nome è Ducarios, avrà in ogni caso la sua mercede, e a battaglia terminata, secondo le sue usanze barbariche, decapiterà il console e ne appenderà la testa ai finimenti del suo cavallo, come macabro trofeo.

Le forze mi abbandonano e crollo in ginocchio, mentre attraverso a un velo rossastro, di sangue misto a lacrime, scorgo i Triarii soccombere, accerchiati da ogni lato... e deve essere stato allora... un ginocchio si pianta con violenza nella mia schiena, mentre una mano rozza mi afferra alla fronte, spingendomi il capo all'indietro, a scoprire la gola... sento freddo che scorre sulla mia pelle, e tutto si sfoca, tutto diventa nero.
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Si chiamano "ustrina": sono i forni realizzati secondo alcuni in fretta e furia dai genieri di Annibale, secondo altri dalla gente del luogo, per bruciare i tanti cadaveri, muta eredità del massacro.

Come tanti, il mio cadavere viene dato alle fiamme, e come in un sacrificio i fumi dei nostri corpi combusti si innalzano nell'aria tersa.

Ed è proprio mentre il vento spazza le colline, disperdendo l'acre esalazione degli ustrina, che capisco.

E allora non ho più paura.

Spazzate in lungo e in largo, le nostre ceneri si posano delicatamente sui campi appena arati, sulla superficie calma del lago... non sono i Campi Elisi la mia ultima destinazione...  dal Cielo non va e non viene nessuna vita: viene dalla terra, dalle messi, dall'erba... Madre, quanto ho voluto poter finalmente riposare nel tuo grembo!

Ed ora io, e i miei compagni tutti, siamo ovunque, intorno a voi: siamo gli alberi silenti che troneggiano lungo il Malpasso, siamo l'erba che accarezza le vostre gambe, siamo il pesce che nuota sul fondo al lago e l'airone che si posa sulle sue sponde... per sempre, e sempre, e sempre...

Rendeteci omaggio allora, voi che siete vivi, e ascoltate la nostra canzone: è nello stormire delle fronde, nell'uccello palustre che lancia il suo richiamo, nello sciabordio delle acque del lago...  la canzone della Battaglia del Trasimeno...


Fonte: https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=10157323981194839&id=629569838

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