lunedì 25 novembre 2019

Tesoro di Canoscio a Città di Castello

Tesoro di Canoscio a Città di Castello: Il Tesoro di Canoscio, oggi conservato presso il Museo del Duomo di Città di Castello, è una rara collezione di oggetti in argento sbalzato, usati per la liturgia eucaristica

sabato 16 novembre 2019

Muore Valentiniano I


VALENTINIANO I MUORE

Valentiniano muore il 17 novembre 375 d.C., in seguito a un malore durante un incontro, organizzato da Equizio, con un'ambasceria dei Quadi, che chiedevano la pace e clemenza.
Gli ambasciatori dopo essersi prostrati ai piedi dell'Imperatore, essi giustificarono le incursioni dei loro connazionali in territorio romano attribuendole a bande di briganti stranieri situate nei pressi del fiume e aggiunsero che l'odio e gli attacchi nei confronti dei Romani era stata validamente provocata dal fatto che questi ultimi avevano cominciato a costruire fortificazioni nei loro territori.
Queste giustificazioni, ritenute arroganti irritò terribilmente l'Imperatore che, mentre con violenza verbale rivolta verso l'ambasceria, accusò il popolo dei Quadi di irriconoscenza, si sentì male all'improvviso colpito da ictus, le sue condizioni di salute apparvero subito gravi, condotto in un altra stanza e doposto su un letto, i soccorsi risultarono vani, il medico arrivò tardi, poiché, Valentiniano, i migliori li aveva mandati al fronte per curare i soldati colpiti da una epidemia. l'Imperatore si spense così, a causa di un improvviso attacco apoplettico nel corso del cinquantacinquesimo anno di età e del dodicesimo anno di regno.

1] Giunsero quindi i legati dei Quadi per chiedere supplichichevolmente che fosse loro concessa la pace e il perdono del passato e, per ottenerla senza difficoltà promettevano di inviare reclute e di compiere alcune prestazioni
utili allo stato romano.
2] Poiché sembrò opportuno riceverli e rimandarli in patria dopo aver loro concessola tregua richiesta dato che la mancanza di vettovaglie e la stagione sfavorevole impedivano di attaccarli più a lungo, su parere di Equizio furono introdotti in concistorio. Mentre tremanti e pieni di paura se e stavano curvi, furono invitati ad esporre le loro richieste. Ricorrevano alle solite scuse, alle quali cercavano di dare una parvenza di realtà giurando che nessun delitto era stato commesso contro i nostri per comune consenso dei capi della loro stirpe, ma che quegli atti brutali erano stati compiuti da briganti stranieri, abitanti lungo il fiume. Aggiungevano pure, come se questa fosse una valida giustificazione del loro comportamento, che la costruzione ingiusta ed inopportuna della fortezza aveva spinto i loro animi selvaggi alla ferocia
3] A queste affermazioni l'imperatore, in preda a una violenta ira e fuor di sé specie all'inizio della sua risposta, rinfacciò con parole di rimprovero a tutta la nazione d'essere ingrata ed immemore dei benefici. A poco a poco si placò sembrando più incline alla mitezza e, come se fosse stato colpito da un fulmine, ostruitisi il respiro e la circolazione, apparve di un color rosso fuoco. Poiché gli si era arrestata improvvisamente la circolazione ed era bagnato di sudore letale, per evitare che cadesse in presenza di molte persone e di bassa condizione, fu condotto in una stanza interna dalla servitù a lui addetta.
4] Qui, posto sul letto, traeva gli ultimi respiri e, conservando intatto il vigore dell'intelletto, riconosceva tutti i presenti che erano stati convocati in fretta dai ciambellani perché non si sospettasse che fosse stato ucciso. Siccome l'interno dell'organismo era in preda a una febbre ardente, bisognava eseguire un salasso, ma non si poté trovare un medico, perché Valentiniano li aveva inviati in varie parti con l'incarico di curare i soldati colpiti da un'epidemia.
5] Finalmente fu trovato uno, il guale, sebbene pungese più volte una vena, non riusci ad estrarne una goccia di sangue, poiché l'organismo interno era bruciato da un eccessivo calore eppure, come alcuni ritenevano, poiché le membra s'erano inaridite in quanto alcuni passaggi che ora chiamiamo haemorrhoidae, s'erano chiusi incrostandosi per effetto della temperatura freddissima.
6] Si rese conto, oppresso com 'era dall'immensa violenza del male, che erano giunti i momenti estremi fissatigli dal fato e tento di parlare o di dare qualche disposizione, come risultava dal singulto che gli scuoteva i fianchi, dallo stridore dei denti e dal movimento delle braccia che sembravano lottare con i cesti. Ma, ormai vinto dal male e cosparso di macchie livide, spirò dopo una lunga lotta con la morte all'età di cinquantacinque anni, dopo aver segnato per dodici anni meno cento giorni.

1. Post haec Quadorum venere legati, pacem cum praeteritorum oblitteratione suppliciter obsecrantes, quam ut adipisci sine obstaculo possent, et tirocinium et quaedam utilia rei Romanae pollicebantur.
2. quos quoniam suscipi placuit, et redire indutiis, quae poscebantur, indultis - quippe eos vexari diutius nec ciborum inopia nec alienum tempus anni patiebantur - in consistorium Aequitio suadente sunt intromissi. cumque membris incurvatis starent metu debiles et praestricti, docere iussi, quae ferebant, usitatas illas causationum species iurandi fidem addendo firmabant: nihil ex communi mente procerum gentis delictum adseverantes in nostros, sed per extimos quosdam latrones amnique confines evenisse, quae inciviliter gesta sunt, etiam id quoque addendo, ut sufficiens ad facta purganda firmantes, quod munimentum extrui coeptum nec iuste nec oportune, ad ferociam animos agrestes accendit.
3. ad haec imperator ira vehementi perculsus, et inter exordia respondendi tumidior, increpabat verborum obiurgatorio sonu nationem omnem ut beneficiorum inmemorem et ingratam. paulatimque lenitus et ad molliora propensior, tamquam ictus e caelo vitalique via voceque simul obstructa, suffectus igneo lamine cernebatur; et repente cohibito sanguine, letali sudore perfusus, ne laberetur spectantibus et vilibus, concursu ministrorum vitae secretioris ad conclave ductus est intimum.
4. ubi locatus in lecto, exiguas spiritus reliquias trahens, nondum intellegendi minuto vigore, cunctos agnoscebat adstantes, quos cubicularii, nequis eum necatum suspicaretur, celeritate maxima conrogarant. et quoniam viscerum flagrante conpage laxanda erat necessario vena, nullus inveniri potuit medicus hanc ob causam, quod eos per varia sparserat, curaturos militem pestilentiae morbo temptatum.
5. unus tamen repertus, venam eius iterum saepiusque pungendo, ne guttam quidem cruoris elicere potuit, internis nimietate calorum ambustis, vel, ut quidam existimabant, arefactis ideo membris, quod meatus aliqui, quos haemorrhoidas nunc appellamus, obserati sunt gelidis frigoribus concrustati.
6. sensit inmensa vi quadam urgente morborum, ultimae necessitatis adesse praescripta, dicereque conatus aliqua vel mandare, ut singultus ilia crebrius pulsans, stridorque dentium et brachiorum motus velut caestibus dimicantium indicabat, iam superatus liventibusque maculis interfusus, animam diu conluctatam efflavit, aetatis quinquagesimo anno et quinto, imperii, minus centum dies, secundo et decimo.

Ammiano Marcellino, Historia Romana XXX 6.




mercoledì 6 novembre 2019

L' incendio di Roma


Nerone e l’incendio del 64 d.C.

Con molta probabilità non fu Nerone a ordinare di appiccare il fuoco a Roma, come la storia ci ha sempre superficialmente tramandato, restituendoci l’immagine di un imperatore   megalomane e indifferente al dolore del suo popolo, tanto da suonare la lira nei tempi drammatici del rogo di  Roma, ammirando dall’alto il divampare delle fiamme, felice e giulivo di poter ricostruire la capitale e la sua residenza privata  secondo i suoi egoistici desideri.

Né a provocare l'incendio, contribuì il caldo torrido dell'estate. In realtà, secondo le ricerche condotte dallo storico Gerhard Baudy, professore all'università bavarese di Costanza, a dare alle fiamme nel 64 d.C. il nucleo più antico della città eterna, sarebbe stato un gruppo di fanatici religiosi, deciso a rovesciare l'impero romano, sulla scia di rivelazioni divine, tra cui una in particolare, sulla quale l'aspettativa era così alta da non poter escludere che deliberatamente qualcuno non cercasse di tradurla in realtà.

Un'antica profezia egizia dai toni apocalittici e molto diffusa tra i primi cristiani  di Roma, annunciava la caduta della grande città malvagia, la lussuriosa prostituta pagana dedita al culto dei demoni,   nel giorno in cui la stella Sirio, avrebbe fatto la sua comparsa.  Sirio si alzò il 19 luglio del 64 d.C.  il giorno stesso in cui divampò il grande incendio di Roma.  Gerhard Baudy e con lui molti altri studiosi, come Carlo Pascal e Leon Hermann,   ritengono che, tenendo presente questa data profetica, un pugno di fanatici appartenenti alla frangia più estremista della comunità  cristiana, potrebbe aver appiccato  il fuoco o forse acceso  fuochi aggiuntivi, nella speranza di realizzare ciò che, secondo loro,  esprimevano quelle terribili parole.

L’incendio scoppiò al Circo Massimo e durò nove giorni nonostante i tentativi di fermarlo devastando quattordici quartieri della città. Nerone fece presto a incolparne i cristiani, condannandone a morte duecento o trecento dei tremila che vivevano a Roma. Secondo Tacito, molti furono uccisi nel più crudele dei modi. E’ difficile sapere se credere o meno alle accuse riportate negli scritti di Tacito.

Nerone non era a Roma quando scoppiò l’incendio,  fece di tutto per soccorrere la popolazione afflitta, aprì i suoi giardini, mise a disposizione ingenti quantitativi di derrate alimentari,  ricostruì la città con criteri antincendi molto innovativi. Il popolo lo adorava, le famiglie aristocratiche un po’ meno.

Di lui ci rimane un’opera grandiosa, la domus aurea avvolta da tanti misteri tecnologici irrisolti, come la sala rotante, che poggiando probabilmente su cuscinetti a sfera, mossi dall’acqua regalava una vista  mozzafiato sull’intera città. Il progettista di questa meraviglia è l’ingegnere della robotica, oggi lo chiameremmo in questo modo, Erone d’Alessandria, chiamato da Nerone a realizzare i suoi progetti che a distanza di duemila anni  ancora fanno discutere e affascinano.

Nel XII secolo, papa Pasquale II (1099 – 1118), superstizioso e suggestionato dai corvi che volteggiavano sul noce vicino al sepolcro dell’imperatore, convinto di vedere in Nerone l’Anticristo descritto dalle profezie, o meglio, la bestia identificata con il numero 666,  ne fece disperdere le ceneri; in seguito, davanti alle proteste dei romani, fece diffondere la notizia di aver fatto trasferire i resti all’interno di un sarcofago lungo la Via Cassia in una zona che, da allora, prese il nome di “Tomba di Nerone”.




martedì 5 novembre 2019

Bologna romana


BONONIA (BOLOGNA) ROMANA

Con la discesa dei Galli nella penisola italica, tra il V e il IV secolo a.C., gli Etruschi vennero progressivamente messi in minoranza e Felsina fu conquistata dalla tribù gallica dei Boi.
Tracce di incendi e destrutturazioni emerse dagli scavi archeologici fanno pensare ad una crisi violenta della città etrusca. Nel periodo dei galli, pur riscontrando una minore densità delle strutture abitative, proseguì un'attività edilizia organizzata, anche se più rarefatta e disorganica, con una distribuzione delle abitazioni meno omogenea, orientamenti modificati e occupazione di spazi precedentemente aperti.
Sebbene sconfitti nel 225 a.C. nella battaglia di Talamone, i Galli Boi mantennero abbastanza potere e indipendenza per essere un alleato chiave di Annibale nelle Guerre Puniche. Con la sconfitta di Cartagine, la rappresaglia romana portò alla distruzione di molti centri abitati gallici e gallo-etruschi come Monte Bibele, dove Etruschi e Celti avevano sviluppato un'armonia non unica nella Gallia Cisalpina. I Galli Boi vennero definitivamente sconfitti delle truppe romane nel 196 a.C. e poi nel 191 a.C., da Publio Cornelio Scipione Nasica, portando così alla confisca dell'ager boicus e all'inizio dell'egemonia romana sulla città.

Bononia colonia romana

Sconfitti i Boi, il senato della Repubblica romana votò nel 189 a.C. l'istituzione della colonia romana di Bononia. Il nome, latinizzato dai romani, era forse tratto dalla denominazione della tribù stessa (Boi) oppure dalla parola celta bona, che presumibilmente significava "città" o "luogo fortificato". Alla fondazione di questa ed altre colonie nella zona emiliano-romagnola seguì la costruzione di una fitta rete stradale, tra cui la via Emilia, nata nel 187 a.C., voluta dal console Marco Emilio Lepido e Bononia divenne uno dei fulcri della rete viaria romana. Essa fu collegata anche ad Arezzo ed Aquileia tramite la via Flaminia minor e la via Emilia Altinate rispettivamente.
Il centro fu notevolmente ampliato e nell'88 a.C., a conclusione delle guerre sociali, Bononia cambiò il suo stato giuridico: da colonia divenne municipio e i suoi cittadini acquisirono la cittadinanza romana.
Le guerre civili e la crisi politica che smossero la metà del I secolo a.C. segnarono di fatto la fine della repubblica e diedero avvio, con la morte di Cesare, ad una serie di fatti di guerra, alcuni dei quali si svolsero nella città di Bononia. In un'isoletta del fiume Reno nacque nel 43 a.C. il secondo triumvirato formato da Antonio, Lepido ed Ottaviano che promise grosse ricompense ai veterani. Bononia ne dovette accogliere un buon numero ed a costoro vennero assegnati terreni abbandonati in seguito alle guerre sociali.
In età augustea Bononia arricchì l'arredo urbano con oltre 10 chilometri di pavimentazioni stradali stabili. In quel periodo si costruirono anche le fognature ma l'opera più eclatante fu l'acquedotto che convogliava le migliori acque dal torrente Setta nei pressi di Sasso Marconi e la portava, come avviene tuttora, alle porte della città passando per Casalecchio di Reno con una galleria di 18 chilometri.

L'acqua veniva poi distribuita in città grazie ad una fitta rete di tubi di piombo siti sotto i pavimenti stradali. L'opera impiegò più di 6000 uomini e 12 anni di lavori. Sempre in quel periodo si rinnovarono gli edifici pubblici con largo uso di marmi e quelli privati in cui si diffuse l'uso del mosaico; entrarono in funzione le terme, un teatro, l'arena e sorsero le prime fabbriche di tessuti. Bononia era costruita in mattoni, selenite e soprattutto legno, e proprio a causa di ciò risultò gravemente danneggiata da un incendio nel 53 d.C. ma fu subito ricostruita grazie all'interessamento di Nerone, il quale, fra l'altro, fece ampliare e abbellire il teatro. Da allora per tre secoli la vita della città non registrò fatti di particolare rilievo.
Dopo la morte di Alessandro Severo nel 235 iniziò un decadimento irreversibile causato dalle crisi economiche e politiche ed è in questo contesto che vanno segnalate le prime persecuzioni ai cristiani come quella di Diocleziano nel 304. Nonostante ciò, nel 313 - al momento dell'Editto di Costantino - venne eletto il primo vescovo, San Zama.








venerdì 1 novembre 2019

Manus ad ferrum


“Manus ad Ferrum”
Lucius Domitius Aurelianus
Sirmio 9 settembre 214 – Bisanzio, 25 settembre 275
54 mm Art Girona
Scultura Adriano Laruccia Pittura Michel Hupet

E' stato un imperatore romano, dal 270 alla sua morte.Per la sua tempra di guerriero fu soprannominato manus ad ferrum (mano sulla spada).
Soldato di carriera, fu elevato alla porpora dai soldati, e dai soldati fu ucciso dopo appena cinque anni di regno. Malgrado la brevità del suo regno, riuscì a portare a termine dei compiti decisivi affinché l'Impero romano superasse la grave crisi del terzo secolo: ricompose l'unità dell'Impero, che rischiava di frantumarsi in tre parti tra loro ostili (Gallie, parte legittima e Palmira) - vedi figura sopra-; elevò una cinta muraria attorno a Roma, che prese il nome di Mura aureliane; interruppe e invertì la tendenza alla svalutazione monetaria che stava danneggiando l'economia dell'impero.
Lucio Domizio Aureliano nacque nella Pannonia Inferiore, nei dintorni di Sirmio, il 9 settembre 214 o 215 da una famiglia di modeste condizioni. Il padre era colono di un certo senatore Aurelio, mentre la madre sarebbe stata una sacerdotessa del Sole. È perciò possibile che, essendo Domizio il nome paterno, il futuro imperatore abbia preso il cognome Aureliano dalla madre Aurelia, probabilmente una liberta del senatore Aurelio.
Il culto del Sole si era già esteso alla fine del II secolo, particolarmente nelle regioni danubiane, portatovi dai soldati che, come il padre di Aureliano, smesso il servizio, vi si stabilivano come contadini. A Roma tale culto risulta essere stato praticato dalla gens Aurelia così che appare naturale che anche la madre di Aureliano abbia praticato la religione solare e che ad essa sia stato anche il figlio Aureliano. Di altri familiari, si sa soltanto che ebbe almeno una sorella un figlio della quale egli, divenuto imperatore, farà uccidere.
Carriera militare. Le regioni danubiane erano e rimasero a lungo terra di reclutamento militare delle legioni dell’Impero e Aureliano fu probabilmente arruolato intorno ai venti anni. Si sa che intorno al 242 prese parte come comandante di una coorte ai combattimenti contro i Sarmati che avevano invaso l’Illiria e qualche anno dopo, tribuno della cosiddetta Legio VI Gallicana, combatté i Franchi a Magonza, nei pressi del Reno. Il nome di quella legione, così indicato dalla Historia Augusta, è però inesistente: si trattava in realtà di una legione proveniente dalla Britannia. Anni dopo Aureliano sarebbe poi passato per Antiochia, in occasione della sua partecipazione a un'ambasceria in Persia. Aureliano è menzionato ancora in Gallia nel 256, quando vi giunge Gallieno mentre un anno o due dopo, avrebbe assunto, in assenza del comandante Ulpio Crinito, la responsabilità della difesa del Basso Danubio, battendo i Goti invasori.
Il 268 è un anno di gravi minacce per l’Impero: a nord premono i Germani e nei Balcani i Goti, mentre il ribelle Aureolo è assediato dall’armata imperiale a Milano. È proprio qui che i generali ordiscono una congiura. Il prefetto del pretorio Eracliano, Marciano, Claudio e Aureliano, allora magister equitum, decidono di sbarazzarsi di Gallieno, sembra seguendo un piano predisposto dallo stesso Aureliano: Gallieno viene ucciso e Claudio è proclamato imperatore, mentre anche Aureolo, pur essendosi arreso, viene assassinato.
Aureliano, che è ormai divenuto il braccio destro di Claudio, combatte contro gli Alemanni sconfiggendoli sulle rive del lago di Garda e nel 269 affronta i Goti che sono penetrati in Mesia battendoli a Doberos e a Naisso. Con l'inizio del 270, quando ancora Claudio era impegnato a fronteggiare la minaccia gotica, una nuova invasione tornò a procurare ingenti danni in Rezia e Norico. Claudio, costretto ad intervenire con grande prontezza, affidò il comando balcanico ad Aureliano, mentre egli stesso si dirigeva a Sirmio, suo quartier generale, da dove poteva meglio controllare ed operare contro i barbari, ma moriva poco dopo in seguito ad una nuova epidemia di peste scoppiata tra le file del suo esercito.
Claudio aveva lasciato ad Aquileia un presidio di truppe al comando del fratello Quintillo, al quale il Senato conferì la carica imperiale. Saputo della morte di Claudio e della nomina di Quintillo, Aureliano concluse rapidamente la guerra contro i Goti in Tracia e nelle Mesie, ponendo fine agli assedi di Anchialus, nei pressi della moderna Pomorie in Bulgaria sul Mar Nero, e di Nicopolis ad Istrum, per accorrere a Sirmio, dove fu acclamato imperatore: a questa notizia Quintillo, che era rimasto ad Aquileia, abbandonato dai suoi stessi soldati, preferì suicidarsi.
Regno di Aureliano (270-275). Aureliano poté così affrontare l'invasione di quelle popolazioni germaniche che stava interessando l'Italia. I barbari, Alamanni, Marcomanni o Iutungi che fossero, in numero di 40.000 cavalieri e 80.000 fanti avevano superato l’Alto Danubio invadendo la Rezia e il Norico ed erano scesi in Italia attraverso lo Spluga e il Brennero.
Aureliano da Sirmio si portò in Rezia, affrontando i barbari che, alla notizia del suo arrivo, riattraversavano le Alpi: furono battuti ma poterono tornare nei loro paesi oltre il Danubio dopo aver stipulato la pace. Le loro richieste di un rinnovo del precedente trattato e del riconoscimento di nuovi sussidi furono rifiutati da Aureliano: la pace siglata tra l'impero e le popolazioni germaniche definì la politica del nuovo imperatore nei confronti dei barbari. In cambio di un loro foedus egli rifiutò compensi che avrebbero reso l'impero tributario dei suoi stessi federati. Poi discese a Roma, per prendere ufficialmente possesso della dignità imperiale dalle mani del Senato. Prendendo il potere, Aureliano trovava l’Impero diviso in tre parti: la Gallia e la Britannia, che costituivano l’impero gallo-romano, soggetto a Tetrico, e che si trovava in piena crisi interna e doveva guardarsi dalle incursioni d’oltre Reno delle tribù germaniche; in Oriente, la Siria, l’Asia minore e l’Egitto erano soggette al Regno di Palmira di Zenobia e del figlio Vaballato, e guardavano le frontiere partiche. L’Impero romano propriamente detto era costituito dall’Italia, dai Balcani, dalla Grecia e dalle province africane, Egitto escluso. Aureliano aveva a disposizione 14 legioni e tutta la frontiera danubiana da vigilare da Iutungi, Alamanni, Marcomanni, Quadi, Iazigi, Goti, Alani, Eruli e Roxolani.
Aureliano, pur deciso a ricostituire l’Impero, doveva guadagnare tempo, a causa delle insufficienti risorse militari: egli poteva infatti ricorrere soltanto a un esercito provato da anni di continue campagne. A vigilare l’Impero gallo-romano di Tetrico, che non era in grado di predisporre alcuna politica di espansione, poteva bastare il corpo militare stanziato nella provincia narbonense agli ordini di Giulio Placidiano, ma nei confronti del regno di Palmira, in piena espansione, dovette piegarsi a ricorrere alle concessioni, riconoscendo a Vaballato il possesso delle province orientali, i titoli di Vir consularis, Rex, Imperator e Dux Romanorum e il diritto di battere moneta con la sua effigie sul diritto, mentre sul rovescio appariva quella di Aureliano. In questo modo veniva garantita, almeno formalmente, l’unità dell’Impero, secessione di Tetrico a parte.
Nel novembre del 270 Aureliano si trovava ancora a Roma, quando si verificò una nuova invasione nelle province della Pannonia superiore ed inferiore che Aureliano aveva sguarnito recandosi in Italia: si trattava questa volta dei Vandali Asdingi, insieme ad alcune bande di Sarmati Iazigi. Anche in questa circostanza il pronto intervento dell'imperatore costrinse queste popolazioni germano-sarmatiche a capitolare ed a chiedere la pace. Aureliano costrinse i barbari a fornire in ostaggio molti dei loro figli, oltre ad un contingente di cavalleria ausiliaria di duemila uomini, in cambio del ritorno alle loro terre a nord del Danubio.
Era appena cessata questa minaccia, che una nuova si profilava all'orizzonte all'inizio del 271. Questa volta si trattava di un'importante invasione congiunta di Alemanni, Marcomanni e forse di alcune bande di Iutungi. Aureliano, anche questa volta, fu costretto ad accorrere in Italia, ora che questi popoli avevano già forzato i passi alpini. Raggiunta la pianura padana a marce forzate percorrendo la via Postumia, fu inizialmente sconfitto dalla coalizione dei barbari presso Piacenza, a causa di un'imboscata. Nel prosieguo della campagna, i barbari però, per avidità di bottino, si divisero in numerose bande armate, sparpagliate nel territorio circostante. Aureliano, resosi conto del vantaggio che ne derivava dal poterli affrontare uno per uno separatamente, riuscì a ribaltare le sorti della guerra in Italia ed a batterli prima nella battaglia di Fano, poi nei pressi del fiume Metauro, ed infine sulla strada del ritorno nei pressi di Pavia. Una volta terminata la campagna in Italia, nel dirigersi in Oriente per combattere la regina Zenobia del regno di Palmira, batté Goti e Carpi che gli muovevano contro, ed attraversato il Danubio, uccise il capo dei Goti, un certo Cannabaude, insieme a 5.000 dei suoi armati. Per questi successi il Senato gli conferì l'appellativo di Gothicus maximus.
La crescente crisi lungo le frontiere danubiane, oltre alla secessione in Occidente dell'Impero delle Gallie ed in Oriente del Regno di Palmira, costrinse l'imperatore romano Aureliano ad evacuare la provincia delle Tre Dacie, sotto i crescenti colpi da parte soprattutto di Goti (la tribù dei Tervingi) e Carpi, oltre ai Sarmati Iazigi della piana del Tisza. Egli, sgombrando l'area a nord del Danubio, decise di formare tuttavia una nuova Dacia a sud del corso del grande fiume, ritagliando due nuove regioni dalla Mesia inferiore: la Dacia Ripense e la Dacia Mediterranea. Le conseguenze dell'abbandono romano del bacino carpatico generò, non solo nuove tensioni tra Goti e Gepidi (ad oriente), e sarmati Iazigi (ad occidente), venendo le une a contatto con le altre, ma permise di rafforzare le frontiere del medio-basso corso del Danubio con il ritiro di due intere legioni (legio V Macedonica e legio XIII Gemina, posizionate ora ad Oescus e Ratiaria) ed un consistente numero di unità ausiliarie, per un totale complessivo di oltre 45.000 armati.
Riunificazione dell'Impero: Zenobia e Tetrico (271-274) A partire dallo stesso Claudio il Gotico, ma soprattutto con il successore, Aureliano, l’ideale unitario dell’Impero romano poté concretizzarsi con la sconfitta prima di Zenobia e Vaballato in Oriente (regno di Palmira) nel 272 e poi di Tetrico in Occidente (Impero delle Gallie) nel 274 al termine della battaglia presso i Campi Catalauni. Per tale azione egli ricevette il titolo di "Restitutor Orbis" dal Senato romano e celebrò un magnifico trionfo. Tetrico e Zenobia, al termine del Trionfo celebrato in Roma poco dopo, non furono però giustiziati. Al contrario il primo fu nominato governatore della Lucania, mentre la regina orientale fu insediata a Tibur e le fu dato un senatore romano come marito. Un giusto riconoscimento per aver "salvato" i confini del vecchio impero contro le invasioni dei barbari in Occidente e dei Sasanidi in Oriente.
Politica religiosa: il culto del Dio Sole Nell'anno 274 Aureliano introdusse a Roma il culto del Sol Invictus, cercando di imporlo come culto di stato. Edifica un santuario (situato nel Campus Agrippae, l'attuale piazza San Silvestro) dedicato a questa divinità e proclama (per la prima volta in Occidente) il 25 dicembre giorno di festa in onore del nuovo dio: il Dies Natalis Solis Invicti. L'imperatore stesso si dichiarò suo supremo sacerdote, e che il potere gli fosse stato concesso direttamente da esso, inaugurando così la quasi bimillenaria formula dei re che stanno sul trono per grazia di Dio. La festa del Dies Natalis Solis Invicti divenne via via sempre più importante in quanto si innestava, concludendola, sulla festa romana più antica, i Saturnali.

Aureliano aveva appena concluso la riunificazione dell'Impero romano, reduce dalla vittoria sulla regina Zenobia del Regno di Palmira. La vittoria era stata resa possibile dallo schierarsi della città-Stato siriana Emesa a fianco dell'esercito romano in un momento di sbandamento delle milizie: Aureliano all'inizio della battaglia decisiva disse di aver avuto la visione benaugurante del dio Sole, venerato ad Emesa.
Come più tardi Costantino I con il Cristianesimo, Aureliano vedeva nell'adozione del culto del Sol Invictus un forte elemento di coesione culturale e politica dell'Impero, dato che, in varie forme, il culto del Sole era già presente in molte regioni dell'impero, dall'Egitto all'Anatolia, tra le popolazioni celtiche e quelle arabiche, tra i Greci e gli stessi Romani. Inoltre, Aureliano ordinò che il primo giorno della settimana fosse dedicato al dio Sole, chiamandolo Dies Solis, cioè appunto "giorno del sole". Successivamente, nel 383 Teodosio I avendo proibito tutti gli altri culti all'infuori del Cristianesimo, decretò che il nome del giorno venisse cambiato in Dies Dominicus; tuttavia, nel nord Europa, rimase la denominazione decisa da Aureliano, da cui derivarono il Sonntag tedesco ed il Sunday inglese.
Morte (275). Aureliano venne nominato Oriens Augustus. Preoccupato per gli intrighi del Senato, che tentava con ogni mezzo di riacquistare l'antico potere perso a favore dell'elemento militare, Aureliano cercò in tutti i modi di accentrare il potere nelle sue mani anche prendendo a pretesto le reali condizioni di corruzione, malversazione e disservizio nei quali versavano la maggior parte dei pubblici uffici, zecca inclusa. E proprio mentre si apprestava ad indagare e punire i reati commessi in relazione alla coniazione delle monete d'argento, ebbe luogo una gravissima sollevazione popolare (274) probabilmente sobillata dagli stessi funzionari della zecca che temevano di essere puniti e che fu domata con molte difficoltà. Malgrado le oggettive difficoltà interne, egli non volle perdere di vista l'ormai secolare "problema partico" e verso la fine dell'estate del 275, si apprestò a preparare una spedizione contro i Sasanidi. Raccolto un forte esercito, era ormai nelle vicinanze di Bisanzio dove la flotta avrebbe dovuto trasbordarli dall'altra parte del Bosforo, quando fu assassinato da uno dei suoi segretari, per vendetta privata. L'assassinio dell'imperatore Aureliano produsse in tutto l'impero profondo cordoglio, ma anche scatenò, lungo i confini settentrionali, nuovi assalti da parte dei barbari.