domenica 26 novembre 2017

Historie Medievali: La fine di un'era

Historie Medievali: La fine di un'era: In un precedente articolo  abbiamo visto qual è stato il periodo in cui la penisola italiana ha toccato il fondo durante il Medioevo, ossia ...

Historie Medievali: La fine di un'era

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venerdì 25 agosto 2017

Giulio Agricola

Roma GNEO GIULIO AGRICOLA

Nato nella Gallia Narbonense, Gneo Giulio Agricola  era figlio del senatore Giulio Grecino e di Giulia Procilla, e Iniziò la sua carriera come tribuno militare in Britannia dal 58 al 62 d.C., sotto il comando del governatore Svetonio Paolino, partecipando con molta probabilità alla soppressione della rivolta fomentata dalla regina Budicca. Tornato in seguito a Roma, dove divenne questore nel 64 d.C., servì poi nelle province d’Asia per poi, nel 66 d.C., essere eletto tribuno della plebe e nel 68 pretore. Nella confusa annata dei quattro imperatori Agricola si schierò a favore di Vespasiano e in seguito all’ascesa al trono di quest’ultimo venne posto a capo della Legio XX Valeria Victrix stanziata in Britannia. Nel 71 d.C., sotto il governatorato di Quinto Petilio Cereale, Agricola ebbe modo di distinguersi durante le campagne militari contro la tribù dei Briganti. Nel 75 d.C., venne nominato governatore della Gallia Aquitania, nel 77 d.C., tornato a Roma, dove fu eletto pontefice, diede in moglie al famoso storico Tacito la propria figlia Giulia, nel 78 d.C., fece ritorno in Britannia, questa volta nelle vesti di governatore dove ebbe un ruolo chiave nella conquista romana dell’isola.
Agricola, appena giunto sull’isola come governatore, mosse guerra verso occidente contro la tribù degli Ordovici, stanziati nell’odierno Galles, che poco tempo prima avevano annientato un reparto ausiliario di cavalleria. Al termine di queste prime operazioni, Agricola, decise di allestire una flotta e di sottomettere nuovamente l’isola di Mona (odierna Angelesey) che si trovava poco distante dalle coste appena occupate.  Questa piccola isola, dopo essere stata conquistata da Svetonio Paolino nel 61 d.C.,, era però stata perduta ad opera degli stessi Britanni poco tempo più tardi.

L’anno seguente il governatore Agricola si distinse per il suo buon governo, combattè la dilagante corruzione, aumentò il processo di romanizzazione sull’isola,  così come incoraggiò la costruzione di città sul modello di quelle romane facendo educare i figli dei nativi secondo i costumi romani.

I due anni che seguirono proseguirono con piccoli scontri che portarono gli uomini di Agricola a fortificare la linea del Gask Ridge, e indirizzando poi ancora più precisamente  l’azione militare verso i territori scozzesi, aumentando i presidi su quella linea di confine.

Nell’81 d.C., Le armate romane procedettero a consolidare le conquiste dell’anno precedente soprattutto nel sud-ovest della Scozia, battendo più volte le armate nemiche, ancora Agricola attraversò il mare (è stato ipotizzato che si potesse trattare del Clyde o del Forth), e sconfisse popoli fino ad allora sconosciuti ai romani. Agricola fortificò la costa britannica che guardava verso l’Irlanda e Tacito ricorda che il suocero diceva spesso che quest’isola poteva essere conquistata con una sola legione e pochi ausiliari.  Egli aveva anche dato rifugio a un re irlandese in fuga e si potrebbe pensare che egli l’abbia potuto usare come scusa per attaccare e conquistare l’Irlanda.  Tale conquista non ci fu mai, ma alcuni storici pensano che la traversata e lo scontro con popoli sconosciuti ai romani di cui parla Tacito si riferiscano a una qualche spedizione punitiva o esplorativa di Agricola in Irlanda.

Nell’ 82 d.C., Giulio Agricola con le sue legioni attaccò le tribù stanziate nel Forth, ma i Caledoni durante una notte assaltarono gli accampamenti della Legio IX Hispana, Agricola riuscì a fatica a respingere l’attacco con la cavalleria, e in seguito penetrò ancora più a fondo nei territori nemici.

Nell’83 d.C. L’esercito romano si scontrò nella battaglia del monte Graupio contro l’armata dei Caledoni, guidati da un certo Calgaco. La formazione di battaglia romana vedeva al centro 8 000 ausiliari di fanteria, mentre 3 000 cavalieri erano stati posti ai lati dello schieramento. Le legioni furono invece tenute di riserva,  in caso di necessità presso il muro dell’accampamento. I Caledoni  si erano posti su un terreno più elevato: la loro avanguardia stava più in basso, ma gli altri ranghi erano invece stati disposti in file serrate lungo il pendio e sulla cima della collina. Il governatore Agricola, temendo che il nemico, in superiorità numerica, lo impegnasse contemporaneamente su più fronti , fece allargare le file del suo schieramento, col rischio calcolato di diradare troppo i reparti. Dopo un breve scambio di pietre e giavellotti, Agricola mandò all’attacco alcune coorti di ausiliari batavi con l’ordine di impegnare in un corpo a corpo i Caledoni, le cui armi non erano adatte a questo tipo di scontro, essendo lunghe e sprovviste di punta. La cavalleria romana, messi in fuga i temibili carri da guerra  nemici, si gettò anch’essa nella mischia. I Caledoni furono quindi sospinti indietro sulla cima della collina. Ma dovendo combattere in salita, a un tratto i Romani si trovarono in difficoltà, sia i cavalieri per la formazione compatta nemica e per il terreno diseguale, sia i fanti, che venivano travolti da cavalli imbizzarriti senza cavaliere. Le riserve nemiche tentarono una manovra aggirante dall’alto delle alture, ma Agricola aveva tenuto in serbo quattro squadroni di cavalieri e li fece avanzare contro questi, che si diressero quindi contro di loro; una parte della cavalleria fu mandata quindi dal fronte della battaglia alle loro spalle, massacrandoli. Questi quindi si misero in fuga, e si radunarono a gruppetti nelle vicinanze delle foreste, circondando i cavalieri imprudenti che li inseguivano; Agricola, tuttavia, aveva precedentemente disposto delle coorti e dei cavalieri dentro ed attorno la selva, per perlustrare la zona, e con questi aiuti i nemici furono distrutti. I Caledoni furono messi in fuga e si rifugiarono nella notte in località lontane ed inaccessibili. Secondo Tacito, i Caledoni persero 10 000 uomini, i Romani solo 360.

Nell’84 d.C. terminate le campagne militari culminate con la vittoria sui Caledoni che vedeva approssimarsi la definitiva conquista dell’isola, Agricola venne richiamato a Roma e sostituito nel ruolo di governatore.

Agricola fu richiamato a Roma dall'imperatore Domiziano nell'85, dopo un governatorato di inusuale lunghezza. Secondo Tacito, Domiziano prese questa decisione perché geloso dei grandi successi del generale, che mettevano in ombra le modeste vittorie dell'imperatore sul fronte germanico.

I rapporti tra l'imperatore e Agricola non sono chiari: se, da un lato, ad Agricola vennero tributati grandi onori e una statua (i più grandi riconoscimenti militari eccetto il trionfo), dall'altro egli non ricoprì più alcuna carica civile o militare, nonostante il suo grande valore e la sua esperienza. Gli venne offerta la carica di governatore dell'Africa, ma la rifiutò, forse a causa della sua salute cagionevole o (come sostiene Tacito) delle macchinazioni di Domiziano. Morì nel 93, in circostanze poco chiare, forse avvelenato per ordine dello stesso imperatore.

giovedì 17 agosto 2017

La Legio I Adiutrix ("ausiliatrice")

La Legio I Adiutrix ("ausiliatrice"), fu una legione romana formata nei primi mesi del 68 con i marinai della flotta di Miseno, forse da Galba su ordine di Nerone. L'ultima registrazione che menziona la Adiutrix è del 444, quando questa era di stanza a Szöny (Brigetio), nella provincia romana di Pannonia. L'emblema della legione era un Capricorno, usato assieme ad un cavallo alato Pegaso.
Durante il turbolento anno dei quattro imperatori, la legione presumibilmente combatté prima per Galba, e quindi nell'esercito di Otone, nella battaglia di locus Castorum e nella prima battaglia di Bedriaco, dove questo imperatore venne sconfitto da Vitellio. Nel 70, la legione combatteva le ultime fasi della Rivolta batava.
La città di Magonza (Mogontiacum) è la prima base conosciuta della legione, che condivideva con la Legio XIV Gemina. Qui le due legioni si occupavano principalmente di difendere la nuova provincia della Germania superiore. Nell'83 parteciparono alle campagne germaniche di Domiziano contro la popolazione dei Catti, una tribù germanica che viveva oltre il Reno a nord del fiume Meno. Alcune sue vexillationes potrebbero essere state inviate nel vicino castum di Mirebeau a costituire una riserva strategica dell'imperatore Domiziano.
Poco più tardi nell'85-86 prese parte con sue vexillationes alla nuova guerra contro i Daci, promossa da Domiziano. A partire dall'89 prese parte anche alle campagne suebo-sarmatiche di Domiziano (concluse da Traiano nel 97), durante le quali potrebbe essere stata già trasferita in Pannonia (anche in seguito alla distruzione di un'intera legione ad opera dei sarmati Iazigi), o forse per un paio d'anni a Burnum in Dalmazia. Il primo castrum pannonico alcuni ipotizzano possa essere stato quello di Mursa (dal 90 circa), vista la vicinanza con quello di Sirmio, dove era dislocata la legio II Adiutrix
A seguito dell'assassinio di Domiziano del 96, la Adiutrix, assieme all'armata danubiana, giocò un ruolo importante nella politica romana nell'ottobre del 97, favorendo l'adozione di Traiano da parte di Nerva, successore della dinastia flavia. La legione era ora certamente stanziata a Brigetio (se non già dal 90). Quando Traiano divenne imperatore (nel 98), diede alla legione il cognomen di pia fidelis ("leale e fedele") in riconoscimento del suo appoggio.
Tra il 101 e il 106, sotto il comando del nuovo imperatore, la Adiutrix partecipò alla conquista la Dacia ed occupò la nuova provincia (insieme alle legioni Legio IIII Flavia Felix e Legio XIII Gemina) con sue vexillationes lasciate ad Apulum. Una volta divisa la provincia di Pannonia in Pannonia inferiore e Pannonia superiore (nel 103), il castrum di Brigetio rientrò nella giurisdizione del governatore di quest'ultima, almeno fino a quando l'imperatore Caracalla non modificò i confini tra le due nuove province, attribuendo castrum e legione alla provincia inferior.
Traiano utilizzò questa legione anche nella campagna contro la Partia (115-117). Una volta conclusa la pace da parte di Adriano, la I Adiutrix fu stanziata di nuovo in Pannonia, a Brigetio. Si hanno notizie della sua presenza lì fino all'anno 444.
Durante i decenni successivi alle campagne di Traiano, la I Adiutrix rimase stanziata sulla frontiera danubiana, a parte una breve permanenza di sue vexillationes nel Ponto per una campagna contro gli Alani lungo i confini della Cappadocia (al tempo di Publio Elio Adriano). Tra il 171 e il 175, suo comandante fu Pertinace, imperatore per un breve periodo nel 193.
Appoggiò la candidatura dell'allora governatore della Pannonia superiore, Settimio Severo, durante la guerra civile degli anni 193-197 fino all'ottenimento del trono imperiale. Nei decenni successivi la legione partecipò con sue vexillationes a diverse campagne contro i Parti, a partire da quelle degli anni 195 e 197-198, poi del 215-217 sotto Caracalla e del 244 ai tempi dell'imperatore Gordiano III. Passò sotto il comando del governatore della Pannonia inferiore a partire dal 214, pur rimanendo di stanza a Brigetio.
Nel corso del III secolo la legione ricevette tutta una serie di cognomina: Pia Fidelis bis ("due volte leale e fedele") e Constans ("affidabile"); Antoniana (dagli imperatori Caracalla o Eliogabalo).

lunedì 7 agosto 2017

Il Vallo di Adriano

Il Vallo di Adriano (in latino: Vallum Hadriani) era una imponente fortificazione in pietra, fatta costruire dall'imperatore romano Adriano nella prima metà del II secolo d.C., che segnava il confine tra la provincia romana occupata della Britannia e la Caledonia. Questa fortificazione divideva l'isola in due parti.
Il vallo di Adriano faceva parte del limes romano e venne costruito per prevenire le incursioni delle tribù dei Pitti che calavano da nord. Il nome viene ancor oggi talvolta usato per indicare il confine tra Scozia e Inghilterra, anche se il muro non segue il confine attuale. Il muro rappresentò il confine più settentrionale dell'Impero Romano in Britannia per gran parte del periodo di dominio romano su queste terre; era inoltre il confine più pesantemente fortificato dell'intero impero. Oltre al suo impiego come fortificazione militare, si ritiene che le porte di accesso attraverso il vallo siano servite come dogane per permettere la tassazione delle merci.
Una significativa porzione del vallo è ancora esistente, in particolare la parte centrale, e per gran parte della sua lunghezza il percorso del muro può essere seguito a piedi. Esso costituisce la principale attrazione turistica dell'Inghilterra settentrionale, dove è noto semplicemente come Roman Wall (muraglia romana). Il Vallo di Adriano è diventato patrimonio dell'umanità dell'UNESCO nel 1987.Il Vallo di Adriano corre per 117 km (pari a 80 miglia romane) da Wallsend, sul fiume Tyne, alla costa del Solway Firth.Il muro venne costruito inizialmente con una larghezza di 3 metri, ma le sezioni successive vennero ridotte a 2,5 m. L'altezza è stata stimata a circa 5 metri. Lungo il muro erano posizionati 14 forti ausiliari, compresi Housesteads e Birdoswald. C'erano 80 fortini adiacenti alle porte, uno ogni miglio romano. Due torrette erano poste nel tratto che separava ogni coppia di fortini, probabilmente utilizzate come punti di osservazione e segnalazione.
Il muro faceva parte di un sistema difensivo che, da nord a sud, comprendeva:
un glacis e un profondo fossato, armato con file di pali appuntiti
,il muro ,una strada ad uso militare
il Vallum: due grossi argini con un fossato nel mezzo. Il Vallum probabilmente delimitava una zona militare piuttosto che essere inteso come fortificazione principale, anche se le tribù britanniche stanziate a sud erano anch'esse talvolta un problema.Il Vallo venne costruito dopo la visita dell'imperatore romano Adriano. Questi stava sperimentando difficoltà militari non solo in Britannia, ma anche in vari territori occupati in tutto l'impero, tra cui Egitto, Giudea, Africa proconsolare, Mauretania, e in molte altre province conquistate dal predecessore Traiano. Era quindi desideroso di imporre l'ordine. La costruzione di un muro così imponente voleva comunque rappresentare un simbolo della potenza romana, sia nella Britannia che a Roma.
La costruzione ebbe inizio tra il 122 e il 128 d.C. ad opera dell'allora governatore di Britannia, Aulo Platorio Nepote, e venne completata nel giro di dieci anni dai soldati di tutte e tre le legioni occupanti. Il percorso prescelto seguiva la Stanegate da Carlisle a Corbridge, già difesa da un limes e da diversi forti ausiliari come quello di Vindolanda.
Il muro era sorvegliato da un misto di vexillationes legionarie e unità ausiliarie dell'esercito romano. Il loro numero fluttuò nel periodo dell'occupazione, ma dovrebbe essere stato attorno ai 9.000 uomini, compresa fanteria e cavalleria. Queste unità soffrirono seri attacchi prima nel 180, e ancor di più tra il 196 e il 197, quando la guarnigione fu molto indebolita. In seguito alle insurrezioni fu intrapresa una grossa opera di ricostruzione del muro sotto Settimio Severo; dopo la dura repressione delle tribù attuata sempre sotto Settimio, la regione limitrofa alla muraglia rimase pacificata per gran parte del III secolo.

Conturbernium nella torre di avvistamento lungo il Vallo di Adriano II sec.d.C
Realizzazione in 120 mm di Валерий Вершинин

giovedì 20 luglio 2017

LA LEGIONE ROMANA DURANTE LA MARCIA

Si e' spesso abituati ad immaginare l'esercito Romano perfettamente schierato, organizzato e coperto sul campo di battaglia pronto ad ingaggiare il nemico.
I Romani usavano 3 vocaboli per definire l'esercito: lo chiamavano "AGMEN" quando era in marcia, "EXERCITVS" se volevano indicare un'armata ordinata e disciplinata, "ACIES" se si riferivano all'armata schierata in ordine di battaglia.

Un errore, un automatismo che non funzionava, poteva far volgere le sorti del combattimento per uno o l'altro schieramento.

Ma non era l'unico momento in cui l'organizzazione Romana faceva la differenza...

La giornata di marcia durava circa 6 ore, qualche cosa di piu' se la luce lo permetteva.
Le velocita' di marcia, come scrissero PVBLIVS FLAVIVS VEGETIVS RENATVS (Publio Flavio Vegezio Renato) e IVLIVS CAESAR (Giulio Cesare) erano sostanzialmente due: l'ITER IVSTVM di 30 km al giorno e l'ITER MAGNM di 36 km al giorno.
Una campagna militare o una battaglia era composta da tanti altri momenti "interlocutori", tutti fondamentali. Uno di questi era la marcia della legione.

Una legione Romana in movimento era come una piccola citta' che si spostava, spesso su terreni sconosciuti e angusti.

Uno dei principali problemi che si trovava a dover affrontare un generale Romano era garantire la sicurezza durante lo spostamento e la marcia del suo esercito; la legione in movimento non poteva essere in ordine come quando era disposta in battaglia e per questo era un ghiotto boccone per attacchi a sorpresa e imboscate.

A questo problema i Romani pensato molto, tentando di trovare delle valide soluzioni che garantissero da un lato la rapidita' di spostamento e dall'altro la sicurezza.

Numerose sono state le strategie adottate dai generali Romani ma tutte essenzialmente molto simili tra loro.

Una legione Romana completa dei propri bagagli non occupava mai meno di 4 km di strada e un esercito si poteva allungare fino ai 20 km: in pratica la giornata di marcia dell'avanguardia finiva quando quella della retroguardia era da poco cominciata.
A inizio colonna veniva posizionata un'avanguardia, costituita nella maggior parte dei casi da ausiliari e cavalleria, che aveva il compito di esplorare il terreno e all'occorrenza di ripiegare rapidamente.

A fine colonna veniva posizionata una retroguardia che, nella maggior parte dei casi, era costituita da unita' di minore valore quali gli ausiliari.

I soldati Romani non marciavano leggeri: anche quando portavano con se' solo cio' che serviva per il combattimento, avevano un carico di circa 30 kg, mentre circa altri 20 kg costituivano il bagaglio normale.

Al centro della colonna erano posizionati i bagagli, che costituivano la parte piu' delicata e vulnerabile di un esercito in marcia (e spesso l'obiettivo principale dei nemici), ed i legionari, che avevano l'obbligo primario e costante di proteggere il carico.

Una classica armata Consolare di 25.000 soldati consumava circa 23 tonnellate di derrate alimentare al giorno, senza contare il foraggio degli animali, con i quali la cifra piu' o meno raddoppiava.

Bagagli e Legionari erano sempre posizionati vicini ed al centro dello schieramento di marcia, questo perche' altrimenti i legionari nel tentativo di raggiungere e proteggere i bagagli rischiavano di scompaginare i ranghi esponendosi fatalmente al nemico.

In aggiunta a queste regole auree di disposizione, la tattica di marcia variava a seconda della conformazione del terreno da attraversare, che si sostanziava in due casi:

Attraversamento in un terreno stretto

In questo caso, diventa impossibile difendere i fianchi, quindi le truppe venivano allungate in un'esile colonna.

Questa era la situazione che aveva dovuto affrontare CAIVS IVLIVS CAESAR (Caio Giulio Cesare), nel 57 a.C., nella campagna contro i belgi.

In testa alla colonna aveva posizionato la cavalleria e un gruppo di frombolieri e arcieri (ossia ausiliari). Seguiva il grosso dell'esercito, costituito dalle sei legioni migliori, poi veniva il bagaglio e infine per ultime due legioni di reclute.

Quella di affrontare un passaggio stretto era una situazione da evitare ad ogni costo, da trovarvisi solo se costretti.

Attraversamento di un terreno sgombro

In questo caso era possibile assicurare alla colonna in marcia anche la protezione dei fianchi con i legionari o gli ausiliari, evitando così il rischio di imboscate.

Le truppe erano schierate in ordine serrato e quadrato, in maniera che il bagaglio fosse collocato al centro, quindi efficacemente protetto.

All'avanguardia si sistemava la cavalleria con parte delle truppe ausiliarie.

Venivano inviati soldati a raccogliere il foraggio ed a esplorare il territorio circostante.

giovedì 6 luglio 2017

Magno massimo fra storia e leggenda

Macsen Wledig: Le origini romane segrete di Re Artù




Uno dei cicli medievali più conosciuti è senza dubbio quello di re Artù.
Leggendario re di Inghilterra, difende l'isola dai Sassoni, da feroci usurpatori e crudeli maghi.
Ma chi è esattamente questo Sovrano Le cui origini si perdono nella leggenda a cavallo tra V e VI secolo dopo Cristo?.
Una base come tutte le leggende c'è stata, si parla di numerosi condottieri romano britannici quali Ambrosio Aureliano e Lucio Artorio Casto presenti nelle opere Historia Brittonum del gallese Nennio e l' Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth.
Tuttavia è presente un terzo personaggio che potrebbe fungere da innesco primordiale ancor più degli altri due: Magno Clemente Massimo, anch'esso presente nell'opera di Monmouth tanto che parrebbe risultare che questi tre personaggi siano in un certo senso imparentati tra loro.
E' forse quest'ultimo personaggio colui che ha unito romani, britannici e foderati sarmati nella difesa contro i sassoni?.
Magno Clemente Massimo è l'ultimo comes Britanniarum, l'ultimo governatore delle isole britanniche prima che queste siano abbandonate dalle legioni romane. 
Magno Clemente Massimo nasce in Spagna, è un provinciale come l'amico (poi rivale e nemico) Teodosio.
E' inizialmente Dux Moesiae Secundae (governatore della Mesia) e partecipa alla terribile sconfitta di Adrianopoli nel 378 d.C. Dove i goti annientano i romani e l'imperatore Valente trova la morte e il suo corpo non viene più ritrovato.
Investito della carica di governatore di Britannia dove combatte al fianco di Teodosio distinguendosi contro i Sassoni e i Pitti.
Ma qui avviene qualcosa di straordinario, anziché perseguitarli con la violenza, Magno Massimo rispetta invece i culti druidici locali e conosce molti di questi sacerdoti tra cui il leggendario arcidruido Taliesin e si unisce in matrimonio con Elen Lwyddog, principessa britannica e futura imperatrice.
Magno Massimo diviene ben presto geloso del destino di Teodosio innalzato alla porpora imperiali, le truppe a lui fedeli inoltre non vedono di buon occhio che i contingenti sarmatici come nel caso gli Alani abbiano paghe molto elevate e lo proclamano imperatore. Magno Massimo è però adesso un usurpatore del titolo imperiale.
Sbarcato in Gallia con un grande esercito sconfigge l'imperatore Graziano che uccide poco dopo, Magno Clemente Massimo è ora padrone delle Gallie, della Spagna e della Britannia.
Si inserisce nello scontro contro l'imperatore Valentiniano II d'Occidente sfruttando la diatriba tra cattolici e ariani di cui Ambrogio, vescovo di Milano e futuro santo si pone come mediatore.
La pace però non è destinata a durare, Teodosio firma la pace con l'impero sassanide e passa al contrattacco rinforzato dal fatto che Valentiniano II si è convertito al cattolicesimo.
Con un forte esercito, travolge in Pannonia a Sisak, le truppe di Magno Massimo. Questi seppure sconfitto decide di proseguire la sua marcia, ma le sue truppe sono decimate e vittima di continue diserzioni si rifugia a Aquileia e definitivamente sconfitto, consegnato a Teodosio e decapitato nel 388 d.C.
Su Magno Clemente Massimo cala subito il velo della Damnatio memoriae. Non sarà così per i britanni che ne canteranno a lungo le gesta, eleggendo questo condottiero protagonista di numerose opere tra cui il Mabinogion, unica testimonianza rimasta dell'antica cultura celta ed è il solo straniero ad apparire in un opera di una cultura non sua.
Il contributo per la nascita di Artù nasce proprio qui, a queste fonti Goffredo di Monmouth attinge e poi la stessa Materia di Britannia riprenderà.
Le grandi vittorie di Magno Massimo sui sassoni fanno di lui una figura leggendaria conosciuta con il nome di Macsen Wledig (Massimo il duca o Massimo la guida), dove proprio nel racconto a lui intitolato Il Sogno di Macsen Wledig, fa costruire vari castelli tra cui uno a Caerleon e uno a Carmarthen, dove secondo le recenti ricerche storico geografiche dovrebbe sorgere la mitica Camelot.
Oltre a ciò la tolleranza manifestata da quest'uomo fa nascere un altro importante tassello nel mito arturiano, la fusione tra gli antichi culti celtici e il Cristianesimo che ha sua espressione nella figura di Merlino.
Anche la presenza dei popoli Sarmati è fondamentale nella comprensione della Figura di Artù. I Sarmati popoli di etnia iranica e stanziatisi agli estremi confini orientali dell'impero nelle regioni attuali di Ucraina, Russia Meridionale e Crimea attorno al Mar d'Azov.
Sottomessi dai romani vengono fin da Marco Aurelio inviati in Britannia.
La loro trasfigurazione nei leggendari Cavalieri della Tavola Rotonda potrebbe derivare dalla loro arte bellica di combattere con corazze a scaglie e con archi e frecce, similmente ai catafratti persiani prima e bizantini poi. Un altro particolare della cultura sarmata che si riscontra in questo ciclo è il drago, simbolo di guerra, da cui potrebbe derivare Uterpendragon nome del padre di Artù.
Il mito di Artù che nasce nel 1200 e dura ancora fino a oggi, deve dunque molto anche alla recente riscoperta di questa grande figura che é Magno Clemente Massimo, cui sono stati dedicati i recenti romanzi: L'aquila e la spada e Excalibur: La Spada di Macsen

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TARDO IMPERO | romanoimpero.com

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I Visigoti

I Visigoti sono germanici (uno dei due rami dei Goti) che nel IV secolo si convertono all'arianesimo (seguivano le teorie dell'eretico Ario che negava la divinità di Gesù Cristo), soprattutto per impulso del loro vescovo Ulfila. Sono organizzati in una rudimentale monarchia sulla quale ha grande influenza la famiglia dei Balti. Nel 376, spinti dagli Unni, i Visigoti lasciano l'antica Dacia romana, passano il Danubio e si insediano nella Mesia Inferiore.
L'imperatore d'Oriente li considera federati. Ma nel 395 il nuovo re Alarico mette a sacco la Tracia, la Macedonia, la Tessaglia e la Grecia. L'imperatore Arcadio gli concede il titolo di dux e di magister militum, ma la tregua dura solo tre anni. Alarico e le sue orde invadono l'Italia, devastano Roma, portano via Galla Placidia (sorella dell'imperatore Onorio) e scendono in Calabria con l'intenzione di passare in Africa. Ma la flotta allestita a Reggio viene distrutta da una tempesta. Alarico muore a Cosenza. Il suo successore Ataulfo sposa Galla Placidia. Ma nuovi contrasti con Ravenna lo spingono verso la Spagna. Il suo successore, Wallia, riporta i Visigoti al nord dei Pirenei. Qui trovano la loro prima sede stabile e fondano un vasto Stato con capitale Tolosa, primo regno romano-barbarico impiantato nei territori dell'impero. Un secolo più tardi i Franchi sconfiggeranno i Visigoti e cancelleranno il regno di Tolosa. E dopo i Franchi, nel 711, ci sarà l'invasione degli arabi. Gruppi di Visigoti superstiti si rifugeranno sulle montagne delle Asturie, mantenendosi indipendenti sino al tempo della riconquista. Ma ormai non erano più barbari.

Le Chiese a volta dell'arte Visigota 
I Visigoti, i più antichi federati dell'impero romano, insediandosi in Paesi profondamente romanizzati come l'Aquitania e la Spagna, cercarono di mantenere in vita le istruzioni amministrative e ne accettarono i sistemi di vita e la cultura in tutti i suoi aspetti. Gli artisti locali affondavano quindi le radici nelle tradizioni tardo-romane e bizantine. Ma c'è anche un'arte visigota. Per esempio, alcune chiese a volta costruite in pietra da taglio, per lo più a pianta cruciforme. Navata centrale e transetto hanno la medesima altezza e larghezza e s'intersecano, formando uno spazio quadrato, la crociera, delimitata da 4 archi e spesso sormontata da una torre. Una caratteristica dell'architettura visigota è l'uso dell'arco a ferro di cavallo. Tra i monumenti più significativi, le chiese di San Juan de Banos, San Pedro de la Mata (presso Toledo) e San Pedro de la Nave (Zamora).
Per tre giorni Alarico umiliò la grande Roma
A 25 anni Alarico era già un re potente e acclamato. Prima aveva servito l'esercito romano a capo di un reparto goto. Poi il suo popolo lo aveva incoronato. Lui era un forte condottiero, ma anche un furbo politico. S'inserisce subito nel conflitto esploso fra la parte occidentale e quella orientale di un impero decadente. Invade i Balcani, dà ai Visigoti l'orgoglio di una ritrovata identità. Viene in Italia e si ferma minaccioso alle porte di Roma. L'imperatore Onorio invano tenta di venire a patti. Alarico penetra nella città e per 3 giorni la saccheggia. E' l'anno 410. Il "sacco di Roma", benchè non così grave come le fonti antiche lo dipingono, suscita profonda impressione fra i contemporanei, infrangendo il mito della "città eterna". 




Alarico muore, in maniera piuttosto misteriosa, lo stesso anno, mentre risale verso il nord dell'Italia. Il suo corpo, secondo lo storico goto Giordane, viene sepolto nel letto del fiume Busento, presso Cosenza. A lui è dedicata una celebre ballata di A. Von Platen, tradotta dal Carducci: "La tomba nel Busento".

domenica 2 luglio 2017

Il Foro, nucleo della città romana

Il Foro, nucleo della città romana

Breathtaking 3D animation presents the massive Palace Complex of Emperor Galerius in Thessaloniki

Breathtaking 3D animation presents the massive Palace Complex of Emperor Galerius in Thessaloniki

BATTAGLIA DEL FRIGIDO

La battaglia del Frigido appartiene a quel gruppo di avvenimenti che si prestano a divenire punto di riferimento per indicare il trapasso dal mondo antico alla Tarda Antichità o al Medioevo.

In due giorni, il 5 e il 6 settembre 394, l’imperatore cattolico Teodosio, alla testa dell’esercito romano-orientale, sconfisse le forze dell’Impero d’Occidente, guidate dall’imperatore pagano Flavio Eugenio e dal suo generale Arbogaste. Per l’ultima volta un esercito romano si batté sotto le insegne di Giove, e fu vinto: da allora si può dire che sia stata decretata la fine del paganesimo. L’importanza dello scontro dal punto di vista politico-religioso ne ha offuscato i notevoli aspetti di interesse sul piano militare. Le fonti antiche, in particolare Rufino e Paolo Orosio, interpretano la dinamica dei fatti secondo una visione provvidenzialistica: Dio volle la vittoria dei cristiani e li sottrasse alla disfatta scatenando una tormenta di bora contro i soldati pagani. Questa interpretazione non aiuta a capire le scelte tattiche di Teodosio, che apparirebbero del tutto assurde. Per una descrizione in cui riemergano le competenze militari del celebre imperatore, ci si deve rivolgere a Zosimo, fonte che, peraltro, gli è personalmente ostile. Chiunque si accinga a una ricostruzione dei fatti non può comunque esimersi da un sopralluogo sul teatro della battaglia per rendersi pienamente conto di come la conformazione del luogo faccia del Frigido uno dei più singolari scontri terrestri della storia romana.

I presupposti della battaglia

Dopo la disastrosa disfatta di Adrianopoli. nella quale i Romani furono sconfitti dai Goti e cadde lo stesso imperatore Valente (378), Graziano, che governava l’Occidente, rimase unico padrone dell’Impero.
Tuttavia nominò immediatamente un collega cui affidare l’Oriente e lo scelse nella persona del trentenne Teodosio. Questi raggiunse un accordo con i Goti, accettando la realtà di fatto di un loro insediamento sul territorio romano e ottenendo, in cambio, la disponibilità a fornirgli contingenti di truppe.
Teodosio ebbe modo di avvalersi dell’aiuto militare goto dapprima nella guerra contro l’usurpatore Magno Massimo, che si era impadronito dell’Occidente dopo la morte di Graziano (383), quindi contro gli autori della “rivoluzione pagana” del 392. La caratterizzazione ormai accentuatamente cattolica dell’impero aveva infatti provocato una vivace reazione in estesi settori del Senato di Roma, legati alle tradizioni pagane. I nostalgici raggiunsero un’intesa con un potente generale di origine franca, Arbogaste: nel maggio del 392 l’imperatore d’Occidente Valentiniano Il, fratello minore di Graziano, fu eliminato e sostituito da Flavio Eugenio, un intellettuale vicino ai circoli pagani. Arbogaste divenne l’uomo forte della situazione, lasciando ampia facoltà al Senato di adottare una politica anticattolica. Abortito un tentativo di trattativa, nell’estate del 394 Teodosio mosse da Costantinopoli verso l’italia alla testa delle proprie truppe. A loro volta, Eugenio e Arbogaste mobilitarono le forze disponibili e marciarono in direzione dell’Istria. Lo scontro avvenne a metà del tratto di strada militare che collegava Aquileia ad Emona (Lubiana), nell’attuale Slovenia.

Le forze in campo

L’esercito occidentale era comandato da Arbogaste in quanto Eugenio, ex funzionario di Stato ed ex insegnante nelle scuole di retorica, non aveva competenze militari e, di fronte alle truppe, svolgeva un ruolo puramente simbolico. A! contrario, Arbogaste era un ottimo generale: ufficiale agli ordini di Graziano, prima, poi dello stesso Teodosio, aveva avuto parte nella sconfitta di Magno Massimo e individuato con lucidità gli errori di quest’ultimo. Massimo, infatti, aveva sottovalutato l’importanza strategica dei Claustra Alpium Juliarum, il complesso difensivo creato a nord-est dell’Italia a partire dal III secolo. Lasciando sguarnite le fortificazioni di quel settore, aveva infatti agevolato l’ingresso in Italia dell’avversario, finendo con il trovarsi rinchiuso e assediato dentro le mura di Aquileia. Arbogaste badò bene ad assicurarsi il controllo dei Claustra, elaborando un piano per intrappolare Teodosio tra i valichi alpini.
Da parte sua, Teodosio era un comandante altrettanto esperto, pur non essendo al meglio delle proprie facoltà: non godeva, infatti, di ottima salute ed era moralmente provato dalla scomparsa della giovanissima moglie, Galla, morta di parto insieme al bambino che portava in grembo all’inizio del 394. il lutto aveva provocato un rinvio della spedizione, regalando tempo prezioso ad Arbogaste. Ciascuno dei due eserciti poteva schierare diverse migliaia di uomini. Teodosio aveva ricevuto dai Goti un contingente che, secondo alcune fonti, comprendeva ventimila uomini, posti agli ordini di Gainas. Questi svolgeva funzioni di ufficiale di collegamento tra Io Stato Maggiore romano e il contingente goto, che conservava il proprio capo nazionale: probabilmente Alarico, futuro avversario dei Romani. Marciavano con i Goti reparti di Alani, che costituivano un corpo specializzato di arcieri a cavallo, agli ordini di un ufficiale di nome Saul, e le truppe regolari romane. L’Imperatore aveva nominato Timasio capo del proprio Stato Maggiore, in cui figuravano Bacurio - uno dei pochi ufficiali scampati al disastro di Adrianopoli - e Stilicone, destinato a svolgere un ruolo politico-militare determinante negli anni successivi. Da parte sua Arbogaste aveva arruolato soldati soprattutto in Gallia, ottenendo truppe dagli alleati Franchi. Si trattava, dunque, di eserciti tipici del tardo Impero Romano, caratterizzati da un ruolo significativo degli ausiliari barbari e dall’impiego tattico della fanteria leggera. Legionari romani e guerrieri barbari, del resto, tendevano sempre più ad assomigliarsi: dopo la riforma militare di Costantino, le corazze andavano scomparendo e il cuoio prendeva il posto delle piastre metalliche, I barbari, da parte loro, adottavano spade ed elmi di foggia o fabbncazione romana.

La dinamica dello scontro

Ai primi di settembre deI 394, l’esercito di Teodosio giunse in prossimità dei Claustra Alpium Juliarum. Il tratto di strada che si preparò a forzare si trovava a sud di Emona e si articolava sulle due piazzaforti di Nauportus (attuale Vrhnika) e Castra ad fluvium Frigidum (Ajdovscina): per raggiungere la seconda e quindi puntare sulla pianura friulana attraverso la Valle del Vipacco, era necessario oltrepassare un valico presidiato dalla fortezza di Castrum ad Pirum (Hrusica), posta a circa ottocento metri di altitudine. Teodosio la raggiunse - pare -senza incontrare difficoltà: ma ciò corrispondeva al piano di Arbogaste che, intanto, aveva occupato Castra ad Frigidum e sbarra- Castra to la Valle del Vipacco. Teodosio, a quel punto, era imbottigliato a Castrum ad Pirum, in una situazione critica. Come srive Paolo Orosio: “bloccato sulle vette delle Alpi, non poteva ricevere rifornimenti né rimanere a lungo sulle sue posizioni”. Per proseguire, avrebbe dovuto condurrre un atttacc contro avversario saldamente attestao settecento metri più in basso, lanciando i propri uomini alla disperata giù per i fianchi della montagna. L’alternativa, era ripiegare, ma Arbogaste aveva inviato un proprio ufficiale, Ambizione, a tagliare la ritirata, occupando la strada alle spalle di Teodosio.
Frenetiche riunioni dello Stato Maggiore dovettero svolgersi tra le mura di Castrum ad Pirum. Infine Teodosio decise di giocare il tutto per tutto. All’alba deI 5 settembre l’esercito riprese la marcia, avanzando per una quindicina di chilometri, e si portò a
un’altitudine di circa seicento metri, presso una postazione fortificata situata poco oltre l’attuale paese di Col. Proseguendo lungo la strada militare, l’esercito di Teodosio avrebbe dovuto condurre un attacco diretto su Castra ad Frigidum, calando per un pendio scosceso in uno spazio ristretto: gli uomini di Arbogaste avrebbero potuto respingerlo con facilità, appoggiandosi alla linea difensiva imperniata sulla città e sul torrente che la lambiva. Inoltre, macchine da lancio erano certamente in dotazione alla guarnigione di Castra, e pronte a essere usate contro gli attaccanti.
Per questi motivi, è più credibile che Teodosio preferisse deviare dalla strada e tentare la di-
scesa in valle attraverso l’ampia conca che si apriva alla sua sinistra, digradando sino a Castrum Minor (Vipacco). Lo stesso Arbogaste doveva aver tenuto in conto tale eventualità, predisponendo difese anche in quel settore. In ogni caso, dunque, si trattava di un attacco praticamente suicida, come i fatti dimostrarono. Attacco la cui forza d’urto principale fu rappresentata dai ventimila ausiliari goti.
Nel pomeriggio del 5 settembre i Goti iniziarono a scendere superando il dislivello di circa cinquecento metri, marciando in linea di colonna lungo i fianchi delle montagne: non potevano dispiegare le proprie forze, né manovrare, né giovarsi dell’appoggio tattico della cavalleria. Via via che giungevano a valle, le truppe di Arbogaste erano pronte a caricarli e abbatterli con tutta comodità. Le fonti parlano di diecimila caduti nel contingente goto: il 50% della forza. Verso sera Teodosio ordinò di sospendere le operazioni.
L’esercito di Arbogaste, contemplando il massacro di Goti, credette di aver vinto la battaglia. Eugenio alimentò gli incauti entusiasmi distribuendo onoreficenze: si festeggiò ci fu allegria e si perse la concentrazione, Era quanto, verosimilmente, si aspettava Teodosio, che aveva riservato per l’indomani un secondo attacco, quello vero, affidato soprattutto alle truppe regolari romane. La scelta di sacrificare i Goti, forse, non era stata casuale: dopo Adrianopoli i Romani subivano la loro alleanza e ridimensionarne la forza non poteva che giovare all’impero. Lo stesso Orosio non ha nulla da eccepire in merito: “averli persi fu un gran bene e una vittoria il fatto che fossero vinti”.
Inoltre Teodosio aveva segnato un altro punto a proprio favore ottenendo la defezione di Arbizione, l’ufficiale che avrebbe dovuto sbarrargli la ritirata. Arbizione doveva assalire Teodosio alle spalle: manovra che, dopo il disastroso esito del pomeriggio di battaglia, nelle speranze di Arbogaste sarebbe stata decisiva. Invece l’ufficiale mise le proprie forze a disposizione di Teodosio, “indotto a soggezione dalla presenza dell’imperatore”, scrive Orosio. O forse convinto dopo trattative intercorse nella notte. All’alba del 6settembre Teodosio scatenò il secondo attacco. Lo guidò Bacurio, l’ufficiale forse più motivato, dato che, sedici anni prima, aveva avuto una parte di responsabilità nel disastro di Adrianopoli: era giunta per lui l’occasione di riscattarsi, I legionari iniziarono la discesa coperti dalle tenebre e assalirono le linee avversarie di sorpresa. Bacurio, scrive Rufino “si aprì un varco tra le schiere dense e serrate dei nemici. Sfondò le loro linee e avanzò tra caterve di morti, in mezzo a migliaia di soldati che cadevano uno dopo l’altro, sino all’usurpatore”.
La prosa altisonante di Rufino esprime l’asprezza del secondo giorno di battaglia. Malgrado l’effetto sorpresa, le truppe di Arbogaste erano ancora in grado di organizzare una difesa e tentare di recuperare il vantaggio, grazie alla posizione favorevole. Fu in questa fase che si inserì la bora. Nella valle del Vipacco la bora può soffiare in qualunque stagione dell’anno, raggiungendo velocità di 80-100 chilometri orari e anche oltre. Era stata la presenza di questo vento a indurre i Romani ad abbandonare una precedente linea di comunicazione lungo la valle e a costruire la strada che s’inerpicava sino a Castrum ad Pirum per giungere a Castra.
La direzione della bora - vento da nord-est -faceva sì che soffiasse alle spalle dei soldati di Teodosio e frontalmente a quelli di Arbogaste. Gli effetti delle raffiche di vento sono così descritti da Orosio: “I dardi scagliati per mano dei nostri ricevevano una spinta per aria superiore alle forze umane e non cadevano quasi mai se non infliggendo colpi più profondi. Inoltre quel turbine di vento, strappando gli scudi, sferzavai volti e i petti dei nemici”. Il vento, per di più, scompaginava le formazioni di Arbogaste e rigettava indietro le loro frecce.
Non è possibile determinare in che misura la bora abbia condizionato il risultato della battaglia. La tattica di Teodosio, basata sul secondo attacco a sorpresa, aveva forse già riequilibrato l’iniziale inferiorità. Non trascurabile era poi stato i! peso della diserzione di Arbizione. Con queste premesse, la bora trasformò la sconfitta dell’esercito pagano in disfatta totale. Eugenio, catturato, “fu condotto con le mani legate dietro la schiena ai piedi di Teodosio. E questa fu la fine, della sua vita e della battaglia”, conclude Rufino.
Eugenio venne decapitato. La testa dell’ultimo imperatore pagano, infissa su una lancia, fu portata in trionfo e mostrata alle truppe. Ogni resistenza cessò e la città di Castra aprì le porte al vincitore. Arbogaste riuscì a fuggire ma i soldati di Teodosio lo braccarono due giorni in mezzo ai monti: infine, vistosi perduto, si uccise. Teodosio, ormai, era padrone di tutto l’Impero Romano.

Conseguenze della battaglia

Come s’è detto, il principale significato della battaglia del Frigido fu l’aver rappresentato la fine ufficiale del paganesimo classico. La riunificazione delle due parti dell’Impero Romano, Oriente e Occidente, durò ben poco, in quanto Teodosio morì soltanto quattro mesi più tardi, a Milano, il 17 gennaio 395. L’impero venne nuovamente diviso, come già era stato predisposto, tra i suoi due figli Onorio e Arcadio. In Occidente Teodosio mantenne il sistema di governo realizzato nel breve periodo di Eugenio e Arbogaste: affiancò alla figura dell’Imperatore quella di un dittatore militare, nella persona di Flavio Stilicone. Da quel momento, tutti gli Imperatori d’Occidente persero le effettive prerogative militari a favore di un generale, spesso di origine barbara, che finì per diventare arbitro dell’impero. Solo Maggioriano (cfr. RID 4/98) tentò, invano, di superare il dualismo: il suo fallimento accelerò il tramonto del potere imperiale in Occidente. La conseguenza più negativa riguardò il rapporto con i Goti. Dopo il pesante tributo di sangue offerto in occasione della battaglia, i Goti alzarono il prezzo della loro alleanza con i Romani. Non incontrando soddisfazione, trovarono in Alarico un capo disposto a guidarli alla rivolta: la loro “protesta armata”, come è stata definita, fiaccò l’esercito romano per quindici anni e culminò nel sacco di Roma del 410. In seguito un accordo fu raggiunto, ma l’Impero d’Occidente uscì gravemente indebolito dalla prova.

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MAGGIORANO

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sabato 1 luglio 2017

sabato 24 giugno 2017

Falerius Picenus: il teatro immerso nel verde

Lungo il fiume Tenna, nella località di Piane di Falerone (piccola ma vivace frazione del comune di Falerone) vi è la testimonianza di un’altra città dell’antica Roma, la Falerium Picenus. Rispetto all’area archeologica di Urbisaglia, quello che rimane è minore, ma per fortuna uno degli edifici più grandi, il teatro romano, è quasi intatto e ancora fruibile.

Il teatro, di 50 metri di diametro, poteva ospitare circa 1600 persone, si erigeva per tre ordini, l’ultimo dei quali, purtroppo, è andato distrutto. Sopra le volte che coprivano gli ingressi principali (i paradoi) vi erano due piccoli terrazzi (chiamati tribune) che ospitavano da un lato il Pretore e dall’altro le vestali. Lungo il perimetro esterno dell’anfiteatro è possibile notare i fusti di 22 colonne che, come le gradinate, a loro tempo erano rivestite in marmo..



Falerius Picenus: il teatro immerso nel verde

venerdì 23 giugno 2017

Giulio Cesare rapito dai pirati, 74 a.c.

Della vita di Giulio Cesare non è necessario ricordare l'importanza, trattandosi del condottiero romano più celebre e uno dei comandanti più famosi di tutta la storia. Nato nel 100 avanti Cristo, nel 74 si trovava in viaggio verso l'isola di Rodi per una vacanza-studio (esistevano anche allora) al fine di imparare la cultura greca, un'esperienza caratteristica delle classi romane più abbienti. Durante il tragitto in mare, Cesare fu rapito dai pirati, che lo condussero all'isola di Farmacussa (oggi Farmaco), di fronte alle coste turche.

I pirati, forse inconsapevoli della caratura dell'ostaggio da loro rapito, gli chiesero un riscatto di 20 talenti d'argento (circa 620 chilogrammi), ma Cesare li sbeffeggiò, dicendo che gli avrebbero dovuto chiedere al minimo 50 talenti (1550 chilogrammi). I pirati ascoltarono il consiglio del condottiero e gli chiesero, ovviamente, 50 talenti d'Argento (una situazione piuttosto surreale).

Il Romano mandò quindi i suoi uomini a raccogliere l'argento necessario a Mileto, attendendo il loro ritorno a Farmacussa. Durante il periodo passato con i pirati, complessivamente 38 giorni, Cesare non temette mai per la propria vita, arrivando a sbeffeggiare i pirati più volte. Il condottiero aveva a disposizione due schiavi ed il medico personale, e partecipò alle gare dei pirati, alle cene e ai loro tornei. Durante quel mese compose numerose poesie, che sottopose al giudizio dei suoi "Carcerieri", cui continuava a ripetere che, una volta liberato, li avrebbe fatti uccidere tutti.

PACTA SVNT SERVANDA.
Pagato il riscatto e ripreso il mare, Cesare giunse a Mileto dove trovò Iunco, il propretore della provincia d'Asia, che lo aiutò a formare una flotta. Con questa, Cesare tornò a Farmacussa dove catturò i pirati, dirigendo alla volta della Bitinia per farli giustiziare da Marco Iunco stesso. Il propretore era però interessato al danaro dei pirati, e pensò di ordire una trama contro Cesare, in modo da rubare il bottino dei pirati e venderli come schiavi. Il grande condottiero romano non si lasciò raggirare e, prelevati i pirati dalla prigionia in Bitinia, li crocifisse uno ad uno, strangolandoli prima di metterli sulla croce.

L'esperienza, significativa e riportata da Plutarco nella sua biografia di Cesare, fu importante per testimoniare, anche a Roma, l'importanza della parola del grande condottiero Romano.