lunedì 25 novembre 2019

Tesoro di Canoscio a Città di Castello

Tesoro di Canoscio a Città di Castello: Il Tesoro di Canoscio, oggi conservato presso il Museo del Duomo di Città di Castello, è una rara collezione di oggetti in argento sbalzato, usati per la liturgia eucaristica

sabato 16 novembre 2019

Muore Valentiniano I


VALENTINIANO I MUORE

Valentiniano muore il 17 novembre 375 d.C., in seguito a un malore durante un incontro, organizzato da Equizio, con un'ambasceria dei Quadi, che chiedevano la pace e clemenza.
Gli ambasciatori dopo essersi prostrati ai piedi dell'Imperatore, essi giustificarono le incursioni dei loro connazionali in territorio romano attribuendole a bande di briganti stranieri situate nei pressi del fiume e aggiunsero che l'odio e gli attacchi nei confronti dei Romani era stata validamente provocata dal fatto che questi ultimi avevano cominciato a costruire fortificazioni nei loro territori.
Queste giustificazioni, ritenute arroganti irritò terribilmente l'Imperatore che, mentre con violenza verbale rivolta verso l'ambasceria, accusò il popolo dei Quadi di irriconoscenza, si sentì male all'improvviso colpito da ictus, le sue condizioni di salute apparvero subito gravi, condotto in un altra stanza e doposto su un letto, i soccorsi risultarono vani, il medico arrivò tardi, poiché, Valentiniano, i migliori li aveva mandati al fronte per curare i soldati colpiti da una epidemia. l'Imperatore si spense così, a causa di un improvviso attacco apoplettico nel corso del cinquantacinquesimo anno di età e del dodicesimo anno di regno.

1] Giunsero quindi i legati dei Quadi per chiedere supplichichevolmente che fosse loro concessa la pace e il perdono del passato e, per ottenerla senza difficoltà promettevano di inviare reclute e di compiere alcune prestazioni
utili allo stato romano.
2] Poiché sembrò opportuno riceverli e rimandarli in patria dopo aver loro concessola tregua richiesta dato che la mancanza di vettovaglie e la stagione sfavorevole impedivano di attaccarli più a lungo, su parere di Equizio furono introdotti in concistorio. Mentre tremanti e pieni di paura se e stavano curvi, furono invitati ad esporre le loro richieste. Ricorrevano alle solite scuse, alle quali cercavano di dare una parvenza di realtà giurando che nessun delitto era stato commesso contro i nostri per comune consenso dei capi della loro stirpe, ma che quegli atti brutali erano stati compiuti da briganti stranieri, abitanti lungo il fiume. Aggiungevano pure, come se questa fosse una valida giustificazione del loro comportamento, che la costruzione ingiusta ed inopportuna della fortezza aveva spinto i loro animi selvaggi alla ferocia
3] A queste affermazioni l'imperatore, in preda a una violenta ira e fuor di sé specie all'inizio della sua risposta, rinfacciò con parole di rimprovero a tutta la nazione d'essere ingrata ed immemore dei benefici. A poco a poco si placò sembrando più incline alla mitezza e, come se fosse stato colpito da un fulmine, ostruitisi il respiro e la circolazione, apparve di un color rosso fuoco. Poiché gli si era arrestata improvvisamente la circolazione ed era bagnato di sudore letale, per evitare che cadesse in presenza di molte persone e di bassa condizione, fu condotto in una stanza interna dalla servitù a lui addetta.
4] Qui, posto sul letto, traeva gli ultimi respiri e, conservando intatto il vigore dell'intelletto, riconosceva tutti i presenti che erano stati convocati in fretta dai ciambellani perché non si sospettasse che fosse stato ucciso. Siccome l'interno dell'organismo era in preda a una febbre ardente, bisognava eseguire un salasso, ma non si poté trovare un medico, perché Valentiniano li aveva inviati in varie parti con l'incarico di curare i soldati colpiti da un'epidemia.
5] Finalmente fu trovato uno, il guale, sebbene pungese più volte una vena, non riusci ad estrarne una goccia di sangue, poiché l'organismo interno era bruciato da un eccessivo calore eppure, come alcuni ritenevano, poiché le membra s'erano inaridite in quanto alcuni passaggi che ora chiamiamo haemorrhoidae, s'erano chiusi incrostandosi per effetto della temperatura freddissima.
6] Si rese conto, oppresso com 'era dall'immensa violenza del male, che erano giunti i momenti estremi fissatigli dal fato e tento di parlare o di dare qualche disposizione, come risultava dal singulto che gli scuoteva i fianchi, dallo stridore dei denti e dal movimento delle braccia che sembravano lottare con i cesti. Ma, ormai vinto dal male e cosparso di macchie livide, spirò dopo una lunga lotta con la morte all'età di cinquantacinque anni, dopo aver segnato per dodici anni meno cento giorni.

1. Post haec Quadorum venere legati, pacem cum praeteritorum oblitteratione suppliciter obsecrantes, quam ut adipisci sine obstaculo possent, et tirocinium et quaedam utilia rei Romanae pollicebantur.
2. quos quoniam suscipi placuit, et redire indutiis, quae poscebantur, indultis - quippe eos vexari diutius nec ciborum inopia nec alienum tempus anni patiebantur - in consistorium Aequitio suadente sunt intromissi. cumque membris incurvatis starent metu debiles et praestricti, docere iussi, quae ferebant, usitatas illas causationum species iurandi fidem addendo firmabant: nihil ex communi mente procerum gentis delictum adseverantes in nostros, sed per extimos quosdam latrones amnique confines evenisse, quae inciviliter gesta sunt, etiam id quoque addendo, ut sufficiens ad facta purganda firmantes, quod munimentum extrui coeptum nec iuste nec oportune, ad ferociam animos agrestes accendit.
3. ad haec imperator ira vehementi perculsus, et inter exordia respondendi tumidior, increpabat verborum obiurgatorio sonu nationem omnem ut beneficiorum inmemorem et ingratam. paulatimque lenitus et ad molliora propensior, tamquam ictus e caelo vitalique via voceque simul obstructa, suffectus igneo lamine cernebatur; et repente cohibito sanguine, letali sudore perfusus, ne laberetur spectantibus et vilibus, concursu ministrorum vitae secretioris ad conclave ductus est intimum.
4. ubi locatus in lecto, exiguas spiritus reliquias trahens, nondum intellegendi minuto vigore, cunctos agnoscebat adstantes, quos cubicularii, nequis eum necatum suspicaretur, celeritate maxima conrogarant. et quoniam viscerum flagrante conpage laxanda erat necessario vena, nullus inveniri potuit medicus hanc ob causam, quod eos per varia sparserat, curaturos militem pestilentiae morbo temptatum.
5. unus tamen repertus, venam eius iterum saepiusque pungendo, ne guttam quidem cruoris elicere potuit, internis nimietate calorum ambustis, vel, ut quidam existimabant, arefactis ideo membris, quod meatus aliqui, quos haemorrhoidas nunc appellamus, obserati sunt gelidis frigoribus concrustati.
6. sensit inmensa vi quadam urgente morborum, ultimae necessitatis adesse praescripta, dicereque conatus aliqua vel mandare, ut singultus ilia crebrius pulsans, stridorque dentium et brachiorum motus velut caestibus dimicantium indicabat, iam superatus liventibusque maculis interfusus, animam diu conluctatam efflavit, aetatis quinquagesimo anno et quinto, imperii, minus centum dies, secundo et decimo.

Ammiano Marcellino, Historia Romana XXX 6.




mercoledì 6 novembre 2019

L' incendio di Roma


Nerone e l’incendio del 64 d.C.

Con molta probabilità non fu Nerone a ordinare di appiccare il fuoco a Roma, come la storia ci ha sempre superficialmente tramandato, restituendoci l’immagine di un imperatore   megalomane e indifferente al dolore del suo popolo, tanto da suonare la lira nei tempi drammatici del rogo di  Roma, ammirando dall’alto il divampare delle fiamme, felice e giulivo di poter ricostruire la capitale e la sua residenza privata  secondo i suoi egoistici desideri.

Né a provocare l'incendio, contribuì il caldo torrido dell'estate. In realtà, secondo le ricerche condotte dallo storico Gerhard Baudy, professore all'università bavarese di Costanza, a dare alle fiamme nel 64 d.C. il nucleo più antico della città eterna, sarebbe stato un gruppo di fanatici religiosi, deciso a rovesciare l'impero romano, sulla scia di rivelazioni divine, tra cui una in particolare, sulla quale l'aspettativa era così alta da non poter escludere che deliberatamente qualcuno non cercasse di tradurla in realtà.

Un'antica profezia egizia dai toni apocalittici e molto diffusa tra i primi cristiani  di Roma, annunciava la caduta della grande città malvagia, la lussuriosa prostituta pagana dedita al culto dei demoni,   nel giorno in cui la stella Sirio, avrebbe fatto la sua comparsa.  Sirio si alzò il 19 luglio del 64 d.C.  il giorno stesso in cui divampò il grande incendio di Roma.  Gerhard Baudy e con lui molti altri studiosi, come Carlo Pascal e Leon Hermann,   ritengono che, tenendo presente questa data profetica, un pugno di fanatici appartenenti alla frangia più estremista della comunità  cristiana, potrebbe aver appiccato  il fuoco o forse acceso  fuochi aggiuntivi, nella speranza di realizzare ciò che, secondo loro,  esprimevano quelle terribili parole.

L’incendio scoppiò al Circo Massimo e durò nove giorni nonostante i tentativi di fermarlo devastando quattordici quartieri della città. Nerone fece presto a incolparne i cristiani, condannandone a morte duecento o trecento dei tremila che vivevano a Roma. Secondo Tacito, molti furono uccisi nel più crudele dei modi. E’ difficile sapere se credere o meno alle accuse riportate negli scritti di Tacito.

Nerone non era a Roma quando scoppiò l’incendio,  fece di tutto per soccorrere la popolazione afflitta, aprì i suoi giardini, mise a disposizione ingenti quantitativi di derrate alimentari,  ricostruì la città con criteri antincendi molto innovativi. Il popolo lo adorava, le famiglie aristocratiche un po’ meno.

Di lui ci rimane un’opera grandiosa, la domus aurea avvolta da tanti misteri tecnologici irrisolti, come la sala rotante, che poggiando probabilmente su cuscinetti a sfera, mossi dall’acqua regalava una vista  mozzafiato sull’intera città. Il progettista di questa meraviglia è l’ingegnere della robotica, oggi lo chiameremmo in questo modo, Erone d’Alessandria, chiamato da Nerone a realizzare i suoi progetti che a distanza di duemila anni  ancora fanno discutere e affascinano.

Nel XII secolo, papa Pasquale II (1099 – 1118), superstizioso e suggestionato dai corvi che volteggiavano sul noce vicino al sepolcro dell’imperatore, convinto di vedere in Nerone l’Anticristo descritto dalle profezie, o meglio, la bestia identificata con il numero 666,  ne fece disperdere le ceneri; in seguito, davanti alle proteste dei romani, fece diffondere la notizia di aver fatto trasferire i resti all’interno di un sarcofago lungo la Via Cassia in una zona che, da allora, prese il nome di “Tomba di Nerone”.




martedì 5 novembre 2019

Bologna romana


BONONIA (BOLOGNA) ROMANA

Con la discesa dei Galli nella penisola italica, tra il V e il IV secolo a.C., gli Etruschi vennero progressivamente messi in minoranza e Felsina fu conquistata dalla tribù gallica dei Boi.
Tracce di incendi e destrutturazioni emerse dagli scavi archeologici fanno pensare ad una crisi violenta della città etrusca. Nel periodo dei galli, pur riscontrando una minore densità delle strutture abitative, proseguì un'attività edilizia organizzata, anche se più rarefatta e disorganica, con una distribuzione delle abitazioni meno omogenea, orientamenti modificati e occupazione di spazi precedentemente aperti.
Sebbene sconfitti nel 225 a.C. nella battaglia di Talamone, i Galli Boi mantennero abbastanza potere e indipendenza per essere un alleato chiave di Annibale nelle Guerre Puniche. Con la sconfitta di Cartagine, la rappresaglia romana portò alla distruzione di molti centri abitati gallici e gallo-etruschi come Monte Bibele, dove Etruschi e Celti avevano sviluppato un'armonia non unica nella Gallia Cisalpina. I Galli Boi vennero definitivamente sconfitti delle truppe romane nel 196 a.C. e poi nel 191 a.C., da Publio Cornelio Scipione Nasica, portando così alla confisca dell'ager boicus e all'inizio dell'egemonia romana sulla città.

Bononia colonia romana

Sconfitti i Boi, il senato della Repubblica romana votò nel 189 a.C. l'istituzione della colonia romana di Bononia. Il nome, latinizzato dai romani, era forse tratto dalla denominazione della tribù stessa (Boi) oppure dalla parola celta bona, che presumibilmente significava "città" o "luogo fortificato". Alla fondazione di questa ed altre colonie nella zona emiliano-romagnola seguì la costruzione di una fitta rete stradale, tra cui la via Emilia, nata nel 187 a.C., voluta dal console Marco Emilio Lepido e Bononia divenne uno dei fulcri della rete viaria romana. Essa fu collegata anche ad Arezzo ed Aquileia tramite la via Flaminia minor e la via Emilia Altinate rispettivamente.
Il centro fu notevolmente ampliato e nell'88 a.C., a conclusione delle guerre sociali, Bononia cambiò il suo stato giuridico: da colonia divenne municipio e i suoi cittadini acquisirono la cittadinanza romana.
Le guerre civili e la crisi politica che smossero la metà del I secolo a.C. segnarono di fatto la fine della repubblica e diedero avvio, con la morte di Cesare, ad una serie di fatti di guerra, alcuni dei quali si svolsero nella città di Bononia. In un'isoletta del fiume Reno nacque nel 43 a.C. il secondo triumvirato formato da Antonio, Lepido ed Ottaviano che promise grosse ricompense ai veterani. Bononia ne dovette accogliere un buon numero ed a costoro vennero assegnati terreni abbandonati in seguito alle guerre sociali.
In età augustea Bononia arricchì l'arredo urbano con oltre 10 chilometri di pavimentazioni stradali stabili. In quel periodo si costruirono anche le fognature ma l'opera più eclatante fu l'acquedotto che convogliava le migliori acque dal torrente Setta nei pressi di Sasso Marconi e la portava, come avviene tuttora, alle porte della città passando per Casalecchio di Reno con una galleria di 18 chilometri.

L'acqua veniva poi distribuita in città grazie ad una fitta rete di tubi di piombo siti sotto i pavimenti stradali. L'opera impiegò più di 6000 uomini e 12 anni di lavori. Sempre in quel periodo si rinnovarono gli edifici pubblici con largo uso di marmi e quelli privati in cui si diffuse l'uso del mosaico; entrarono in funzione le terme, un teatro, l'arena e sorsero le prime fabbriche di tessuti. Bononia era costruita in mattoni, selenite e soprattutto legno, e proprio a causa di ciò risultò gravemente danneggiata da un incendio nel 53 d.C. ma fu subito ricostruita grazie all'interessamento di Nerone, il quale, fra l'altro, fece ampliare e abbellire il teatro. Da allora per tre secoli la vita della città non registrò fatti di particolare rilievo.
Dopo la morte di Alessandro Severo nel 235 iniziò un decadimento irreversibile causato dalle crisi economiche e politiche ed è in questo contesto che vanno segnalate le prime persecuzioni ai cristiani come quella di Diocleziano nel 304. Nonostante ciò, nel 313 - al momento dell'Editto di Costantino - venne eletto il primo vescovo, San Zama.








venerdì 1 novembre 2019

Manus ad ferrum


“Manus ad Ferrum”
Lucius Domitius Aurelianus
Sirmio 9 settembre 214 – Bisanzio, 25 settembre 275
54 mm Art Girona
Scultura Adriano Laruccia Pittura Michel Hupet

E' stato un imperatore romano, dal 270 alla sua morte.Per la sua tempra di guerriero fu soprannominato manus ad ferrum (mano sulla spada).
Soldato di carriera, fu elevato alla porpora dai soldati, e dai soldati fu ucciso dopo appena cinque anni di regno. Malgrado la brevità del suo regno, riuscì a portare a termine dei compiti decisivi affinché l'Impero romano superasse la grave crisi del terzo secolo: ricompose l'unità dell'Impero, che rischiava di frantumarsi in tre parti tra loro ostili (Gallie, parte legittima e Palmira) - vedi figura sopra-; elevò una cinta muraria attorno a Roma, che prese il nome di Mura aureliane; interruppe e invertì la tendenza alla svalutazione monetaria che stava danneggiando l'economia dell'impero.
Lucio Domizio Aureliano nacque nella Pannonia Inferiore, nei dintorni di Sirmio, il 9 settembre 214 o 215 da una famiglia di modeste condizioni. Il padre era colono di un certo senatore Aurelio, mentre la madre sarebbe stata una sacerdotessa del Sole. È perciò possibile che, essendo Domizio il nome paterno, il futuro imperatore abbia preso il cognome Aureliano dalla madre Aurelia, probabilmente una liberta del senatore Aurelio.
Il culto del Sole si era già esteso alla fine del II secolo, particolarmente nelle regioni danubiane, portatovi dai soldati che, come il padre di Aureliano, smesso il servizio, vi si stabilivano come contadini. A Roma tale culto risulta essere stato praticato dalla gens Aurelia così che appare naturale che anche la madre di Aureliano abbia praticato la religione solare e che ad essa sia stato anche il figlio Aureliano. Di altri familiari, si sa soltanto che ebbe almeno una sorella un figlio della quale egli, divenuto imperatore, farà uccidere.
Carriera militare. Le regioni danubiane erano e rimasero a lungo terra di reclutamento militare delle legioni dell’Impero e Aureliano fu probabilmente arruolato intorno ai venti anni. Si sa che intorno al 242 prese parte come comandante di una coorte ai combattimenti contro i Sarmati che avevano invaso l’Illiria e qualche anno dopo, tribuno della cosiddetta Legio VI Gallicana, combatté i Franchi a Magonza, nei pressi del Reno. Il nome di quella legione, così indicato dalla Historia Augusta, è però inesistente: si trattava in realtà di una legione proveniente dalla Britannia. Anni dopo Aureliano sarebbe poi passato per Antiochia, in occasione della sua partecipazione a un'ambasceria in Persia. Aureliano è menzionato ancora in Gallia nel 256, quando vi giunge Gallieno mentre un anno o due dopo, avrebbe assunto, in assenza del comandante Ulpio Crinito, la responsabilità della difesa del Basso Danubio, battendo i Goti invasori.
Il 268 è un anno di gravi minacce per l’Impero: a nord premono i Germani e nei Balcani i Goti, mentre il ribelle Aureolo è assediato dall’armata imperiale a Milano. È proprio qui che i generali ordiscono una congiura. Il prefetto del pretorio Eracliano, Marciano, Claudio e Aureliano, allora magister equitum, decidono di sbarazzarsi di Gallieno, sembra seguendo un piano predisposto dallo stesso Aureliano: Gallieno viene ucciso e Claudio è proclamato imperatore, mentre anche Aureolo, pur essendosi arreso, viene assassinato.
Aureliano, che è ormai divenuto il braccio destro di Claudio, combatte contro gli Alemanni sconfiggendoli sulle rive del lago di Garda e nel 269 affronta i Goti che sono penetrati in Mesia battendoli a Doberos e a Naisso. Con l'inizio del 270, quando ancora Claudio era impegnato a fronteggiare la minaccia gotica, una nuova invasione tornò a procurare ingenti danni in Rezia e Norico. Claudio, costretto ad intervenire con grande prontezza, affidò il comando balcanico ad Aureliano, mentre egli stesso si dirigeva a Sirmio, suo quartier generale, da dove poteva meglio controllare ed operare contro i barbari, ma moriva poco dopo in seguito ad una nuova epidemia di peste scoppiata tra le file del suo esercito.
Claudio aveva lasciato ad Aquileia un presidio di truppe al comando del fratello Quintillo, al quale il Senato conferì la carica imperiale. Saputo della morte di Claudio e della nomina di Quintillo, Aureliano concluse rapidamente la guerra contro i Goti in Tracia e nelle Mesie, ponendo fine agli assedi di Anchialus, nei pressi della moderna Pomorie in Bulgaria sul Mar Nero, e di Nicopolis ad Istrum, per accorrere a Sirmio, dove fu acclamato imperatore: a questa notizia Quintillo, che era rimasto ad Aquileia, abbandonato dai suoi stessi soldati, preferì suicidarsi.
Regno di Aureliano (270-275). Aureliano poté così affrontare l'invasione di quelle popolazioni germaniche che stava interessando l'Italia. I barbari, Alamanni, Marcomanni o Iutungi che fossero, in numero di 40.000 cavalieri e 80.000 fanti avevano superato l’Alto Danubio invadendo la Rezia e il Norico ed erano scesi in Italia attraverso lo Spluga e il Brennero.
Aureliano da Sirmio si portò in Rezia, affrontando i barbari che, alla notizia del suo arrivo, riattraversavano le Alpi: furono battuti ma poterono tornare nei loro paesi oltre il Danubio dopo aver stipulato la pace. Le loro richieste di un rinnovo del precedente trattato e del riconoscimento di nuovi sussidi furono rifiutati da Aureliano: la pace siglata tra l'impero e le popolazioni germaniche definì la politica del nuovo imperatore nei confronti dei barbari. In cambio di un loro foedus egli rifiutò compensi che avrebbero reso l'impero tributario dei suoi stessi federati. Poi discese a Roma, per prendere ufficialmente possesso della dignità imperiale dalle mani del Senato. Prendendo il potere, Aureliano trovava l’Impero diviso in tre parti: la Gallia e la Britannia, che costituivano l’impero gallo-romano, soggetto a Tetrico, e che si trovava in piena crisi interna e doveva guardarsi dalle incursioni d’oltre Reno delle tribù germaniche; in Oriente, la Siria, l’Asia minore e l’Egitto erano soggette al Regno di Palmira di Zenobia e del figlio Vaballato, e guardavano le frontiere partiche. L’Impero romano propriamente detto era costituito dall’Italia, dai Balcani, dalla Grecia e dalle province africane, Egitto escluso. Aureliano aveva a disposizione 14 legioni e tutta la frontiera danubiana da vigilare da Iutungi, Alamanni, Marcomanni, Quadi, Iazigi, Goti, Alani, Eruli e Roxolani.
Aureliano, pur deciso a ricostituire l’Impero, doveva guadagnare tempo, a causa delle insufficienti risorse militari: egli poteva infatti ricorrere soltanto a un esercito provato da anni di continue campagne. A vigilare l’Impero gallo-romano di Tetrico, che non era in grado di predisporre alcuna politica di espansione, poteva bastare il corpo militare stanziato nella provincia narbonense agli ordini di Giulio Placidiano, ma nei confronti del regno di Palmira, in piena espansione, dovette piegarsi a ricorrere alle concessioni, riconoscendo a Vaballato il possesso delle province orientali, i titoli di Vir consularis, Rex, Imperator e Dux Romanorum e il diritto di battere moneta con la sua effigie sul diritto, mentre sul rovescio appariva quella di Aureliano. In questo modo veniva garantita, almeno formalmente, l’unità dell’Impero, secessione di Tetrico a parte.
Nel novembre del 270 Aureliano si trovava ancora a Roma, quando si verificò una nuova invasione nelle province della Pannonia superiore ed inferiore che Aureliano aveva sguarnito recandosi in Italia: si trattava questa volta dei Vandali Asdingi, insieme ad alcune bande di Sarmati Iazigi. Anche in questa circostanza il pronto intervento dell'imperatore costrinse queste popolazioni germano-sarmatiche a capitolare ed a chiedere la pace. Aureliano costrinse i barbari a fornire in ostaggio molti dei loro figli, oltre ad un contingente di cavalleria ausiliaria di duemila uomini, in cambio del ritorno alle loro terre a nord del Danubio.
Era appena cessata questa minaccia, che una nuova si profilava all'orizzonte all'inizio del 271. Questa volta si trattava di un'importante invasione congiunta di Alemanni, Marcomanni e forse di alcune bande di Iutungi. Aureliano, anche questa volta, fu costretto ad accorrere in Italia, ora che questi popoli avevano già forzato i passi alpini. Raggiunta la pianura padana a marce forzate percorrendo la via Postumia, fu inizialmente sconfitto dalla coalizione dei barbari presso Piacenza, a causa di un'imboscata. Nel prosieguo della campagna, i barbari però, per avidità di bottino, si divisero in numerose bande armate, sparpagliate nel territorio circostante. Aureliano, resosi conto del vantaggio che ne derivava dal poterli affrontare uno per uno separatamente, riuscì a ribaltare le sorti della guerra in Italia ed a batterli prima nella battaglia di Fano, poi nei pressi del fiume Metauro, ed infine sulla strada del ritorno nei pressi di Pavia. Una volta terminata la campagna in Italia, nel dirigersi in Oriente per combattere la regina Zenobia del regno di Palmira, batté Goti e Carpi che gli muovevano contro, ed attraversato il Danubio, uccise il capo dei Goti, un certo Cannabaude, insieme a 5.000 dei suoi armati. Per questi successi il Senato gli conferì l'appellativo di Gothicus maximus.
La crescente crisi lungo le frontiere danubiane, oltre alla secessione in Occidente dell'Impero delle Gallie ed in Oriente del Regno di Palmira, costrinse l'imperatore romano Aureliano ad evacuare la provincia delle Tre Dacie, sotto i crescenti colpi da parte soprattutto di Goti (la tribù dei Tervingi) e Carpi, oltre ai Sarmati Iazigi della piana del Tisza. Egli, sgombrando l'area a nord del Danubio, decise di formare tuttavia una nuova Dacia a sud del corso del grande fiume, ritagliando due nuove regioni dalla Mesia inferiore: la Dacia Ripense e la Dacia Mediterranea. Le conseguenze dell'abbandono romano del bacino carpatico generò, non solo nuove tensioni tra Goti e Gepidi (ad oriente), e sarmati Iazigi (ad occidente), venendo le une a contatto con le altre, ma permise di rafforzare le frontiere del medio-basso corso del Danubio con il ritiro di due intere legioni (legio V Macedonica e legio XIII Gemina, posizionate ora ad Oescus e Ratiaria) ed un consistente numero di unità ausiliarie, per un totale complessivo di oltre 45.000 armati.
Riunificazione dell'Impero: Zenobia e Tetrico (271-274) A partire dallo stesso Claudio il Gotico, ma soprattutto con il successore, Aureliano, l’ideale unitario dell’Impero romano poté concretizzarsi con la sconfitta prima di Zenobia e Vaballato in Oriente (regno di Palmira) nel 272 e poi di Tetrico in Occidente (Impero delle Gallie) nel 274 al termine della battaglia presso i Campi Catalauni. Per tale azione egli ricevette il titolo di "Restitutor Orbis" dal Senato romano e celebrò un magnifico trionfo. Tetrico e Zenobia, al termine del Trionfo celebrato in Roma poco dopo, non furono però giustiziati. Al contrario il primo fu nominato governatore della Lucania, mentre la regina orientale fu insediata a Tibur e le fu dato un senatore romano come marito. Un giusto riconoscimento per aver "salvato" i confini del vecchio impero contro le invasioni dei barbari in Occidente e dei Sasanidi in Oriente.
Politica religiosa: il culto del Dio Sole Nell'anno 274 Aureliano introdusse a Roma il culto del Sol Invictus, cercando di imporlo come culto di stato. Edifica un santuario (situato nel Campus Agrippae, l'attuale piazza San Silvestro) dedicato a questa divinità e proclama (per la prima volta in Occidente) il 25 dicembre giorno di festa in onore del nuovo dio: il Dies Natalis Solis Invicti. L'imperatore stesso si dichiarò suo supremo sacerdote, e che il potere gli fosse stato concesso direttamente da esso, inaugurando così la quasi bimillenaria formula dei re che stanno sul trono per grazia di Dio. La festa del Dies Natalis Solis Invicti divenne via via sempre più importante in quanto si innestava, concludendola, sulla festa romana più antica, i Saturnali.

Aureliano aveva appena concluso la riunificazione dell'Impero romano, reduce dalla vittoria sulla regina Zenobia del Regno di Palmira. La vittoria era stata resa possibile dallo schierarsi della città-Stato siriana Emesa a fianco dell'esercito romano in un momento di sbandamento delle milizie: Aureliano all'inizio della battaglia decisiva disse di aver avuto la visione benaugurante del dio Sole, venerato ad Emesa.
Come più tardi Costantino I con il Cristianesimo, Aureliano vedeva nell'adozione del culto del Sol Invictus un forte elemento di coesione culturale e politica dell'Impero, dato che, in varie forme, il culto del Sole era già presente in molte regioni dell'impero, dall'Egitto all'Anatolia, tra le popolazioni celtiche e quelle arabiche, tra i Greci e gli stessi Romani. Inoltre, Aureliano ordinò che il primo giorno della settimana fosse dedicato al dio Sole, chiamandolo Dies Solis, cioè appunto "giorno del sole". Successivamente, nel 383 Teodosio I avendo proibito tutti gli altri culti all'infuori del Cristianesimo, decretò che il nome del giorno venisse cambiato in Dies Dominicus; tuttavia, nel nord Europa, rimase la denominazione decisa da Aureliano, da cui derivarono il Sonntag tedesco ed il Sunday inglese.
Morte (275). Aureliano venne nominato Oriens Augustus. Preoccupato per gli intrighi del Senato, che tentava con ogni mezzo di riacquistare l'antico potere perso a favore dell'elemento militare, Aureliano cercò in tutti i modi di accentrare il potere nelle sue mani anche prendendo a pretesto le reali condizioni di corruzione, malversazione e disservizio nei quali versavano la maggior parte dei pubblici uffici, zecca inclusa. E proprio mentre si apprestava ad indagare e punire i reati commessi in relazione alla coniazione delle monete d'argento, ebbe luogo una gravissima sollevazione popolare (274) probabilmente sobillata dagli stessi funzionari della zecca che temevano di essere puniti e che fu domata con molte difficoltà. Malgrado le oggettive difficoltà interne, egli non volle perdere di vista l'ormai secolare "problema partico" e verso la fine dell'estate del 275, si apprestò a preparare una spedizione contro i Sasanidi. Raccolto un forte esercito, era ormai nelle vicinanze di Bisanzio dove la flotta avrebbe dovuto trasbordarli dall'altra parte del Bosforo, quando fu assassinato da uno dei suoi segretari, per vendetta privata. L'assassinio dell'imperatore Aureliano produsse in tutto l'impero profondo cordoglio, ma anche scatenò, lungo i confini settentrionali, nuovi assalti da parte dei barbari.




sabato 12 ottobre 2019

Gladiatori a Pompei


Due gladiatori al termine del combattimento, l’uno vince l’altro soccombe.  Questa è la scena dell’ultimo affresco rinvenuto a Pompei nell’area di cantiere della Regio V,  nell’ambito dei lavori di messa in sicurezza e rimodulazione dei fronti di scavo, previsti dal Grande Progetto Pompei.
Si tratta della scena di un combattimento tra un “Mirmillone” e un “Trace”, due tipologie di lottatori distinti da armature differenti e classici avversari nelle lotte gladiatorie.

“E’ molto probabile che questo luogo fosse frequentato da gladiatori.  - dichiara il Direttore Generale Massimo Osanna – Siamo nella Regio V, non lontani dalla caserma dei gladiatori da dove, tra l’altro, provengono il numero più alto di iscrizioni graffite riferite a questo mondo. In questo affresco, di particolare interesse è la rappresentazione estremamente realistica delle ferite, come quella al polso e al petto del gladiatore soccombente, che lascia fuoriuscire il sangue e bagna i gambali.  Non sappiamo quale fosse l’esito finale di questo combattimento. Si poteva morire o avere la grazia. In questo caso c’è un gesto singolare che il trace ferito fa con la mano, forse, per implorare salvezza; è il gesto di ad locutia, abitualmente fatto dall’imperatore o dal generale per concedere la grazia. 
L’ambiente di rinvenimento  è solo parzialmente portato in luce - su un lato emerge un'altra piccola porzione di affresco che rivela la presenza di un’altra figura- in quanto lo scavo dello stesso è stato possibile a seguito dell’intervento di rimodulazione dei pendii dei fronti e alla loro messa in sicurezza, che costituisce l’esigenza prioritaria di tutto il cantiere della Regio V”






venerdì 11 ottobre 2019

Spade (III): la Spatha

Spade (III): la Spatha

Il vocabolario degli Augures nell'italiano moderno


I sacerdoti antichi, con quella testa sempre rivolta in sù, verso il cielo, ci sembrano così lontani nel tempo e nella mentalità, eppure senza rendercene conto spesso usiamo elementi del loro linguaggio, sebbene con un senso mutato rispetto a quello che aveva in origine.
AUGURIIII!!!
Auguri viene dal verbo augere (pronuncia con la g dura, gh) che significa aumentare, e gli Augures, i sacerdoti, erano dunque gli aumentatori, coloro che interpretando la volontà degli Dei instradavano la società verso un incremento di prosperità e successo.
Quindi quando diciamo auguri senza rendercene conto stiamo augurando, appunto, che il ricevente abbia maggiore prosperità, felicità e successo
AUSPICABILE/AUSPICHEVOLE
viene da auspicio, cioè la visione dei segni fatta dal sacerdote tramite il volo degli uccelli, appunto AVIS SPICERE (c dura, k) che significa osservare/interpretare (il volo de)gli uccelli.
Ovviamente si è fissato il senso di trarre auspici favorevoli, quando l'avvistamento diceva all'Augur che la volontà di Giove era favorevole e che ne sarebbe giunta felicità e prosperità.
UNA COSA FAUSTA O INFAUSTA
viene da Fas e Nefas, ovverosia dall'essere in linea con la volontà Divina.
Se una cosa era conforme alla volontà Divina avrebbe portato l'abbondanza e il successo prima o poi, non importa se inizialmente ci fossero stati degli ostacoli.
Di contro una cosa contraria alla volontà Divina avrebbe portato sventura, non importa se inizialmente fosse sembrata un successo
Da qui il senso di cosa positiva e benefica quando diciamo fausto, o viceversa di cosa brutta quando diciamo infausto.
INAUGURAZIONE
oggi si usa nel senso di primo utilizzo di un oggetto o avviamento di un'attività.
Deriva da un rito complesso con cui gli Augures consacravano un luogo su cui poi si sarebbe costruito un tempio o un edifico pubblico sacrale o di importanza fondamentale per la società romana.
Si inaugurava e poi si procedeva a costruire. Da qui il senso di iniziare una cosa bene.
Senza considerare poi che nella chiesa il pastorale e i colori dei vescovi sono un copia e incolla di quelli degli Augures, così come il bianco del pontifex maximus per quanto riguarda il papa....

Ivan Alibrandi

Fonte: https://m.facebook.com/groups/339822453193454?view=permalink&id=678733595969003

venerdì 27 settembre 2019

Il miliarium aureum


Da dove partivano tutte le strade di Roma?....Da quà.....dal Miliarium Aureum....Il "miliarium aureum" (ovvero la pietra miliare aurea) era una colonna rivestita di bronzo dorato che l'imperatore Augusto aveva fatto innalzare nel 20 a.C. (quando rivestiva la carica di "curator viarum", cioè amministratore delle strade) all'estremità dell'emiciclo dei Rostra verso la Basilica Iulia. La colonna indicava il punto di inizio di tutte le strade dell'Impero e quindi tutte le distanze venivano misurate a partire da questo punto: per questo motivo la colonna recava incise, a lettere dorate, sulla sua superficie le distanze tra Roma e le principali città dell'Impero. Nella foto sopra possiamo ammirare quanto resta della colonna, ovvero un frammento di base decorata con palmette, posta alla base del Tempio di Saturno.




Ricordando Plauto..


UN BRANO DE MILES GLORIOSUS: LA MOGLIE...
un tema cosi'..attuale..

PERIPLECTOMENO:
 — Effettivamente sarebbe una bella cosa metter su famiglia con una buona moglie, se uno sapesse dove andarsela a pescare. Ma vi pare che io mi metterei alle costole una che non mi dicesse mai :
« Marito mio,
comprati della lana che ti faccio un caldo e morbido mantello e una buona tunica per ripararti da questo brutto inverno »?
(Non c’è pericolo che una moglie ti dica queste cose.)

Invece, prima ancora che cantino i galli, mi sveglierebbe per dirmi:
 « Marito mio, dàmmi i soldi per fare un regalo a mia madre per
il primo del mese;
i soldi per la marmellata;
i soldi per pagare alla ricorrenza delle Quinquatrie la fattucchiera,
l’interprete dei sogni,
l’indovina, la maga.
Sarebbe uno scandalo non mandare nulla a quella che legge il pianeta dal sopracciglio;
sarebbe una crudeltà non fare un regalino alla pieghettatrice.
E’ un pezzo che la ceraia mi tiene il broncio perché non ha avuto la mancia;
 anche la levatrice s’è lamentata con me d’aver ricevuto poco.
 E non vorrai dare qualcosa alla balia che ti nutre gli schiavetti di casa? ».
 Questi e mille simili malanni delle donne mi hanno sconsigliato di pigliare moglie, che mi ricanterebbe a ogni momento di tali tantafere —
(Plauto, Atto III, scena I)

martedì 10 settembre 2019

Marco Celio

MARCVS CÆLIVS (MARCO CELIO)

Il cenotafio di MARCVS CÆLIVS (Marco Celio) eretto dal fratello PVBLIVS CÆLIVS (Publio Celio) nella speranza di recuperarne i resti. Il centurione è rappresentato con i suoi liberti PRIVATVS (Privato) e THIMIANVS (Thimiano) che ne condivisero la sorte ed è rappresentato con le sue decorazioni militari
MARCVS CÆLIVS (Marco Celio) (nacque a BONONIA (Bologna) intorno al 44 a.C. e morì il 9 d.C.). Era un centurione PRIMVS PILVS della Legio XIIX che venne ucciso nell’agguato della foresta di Teutoburgo. E 'conosciuto dal suo cenotafio, eretto dal fratello PVBLIVS CÆLIVS (Publio Celio), nella speranza di recuperarne i resti. Il centurione è rappresentato con i suoi liberi PRIVATVS (Privato) e THIMIANVS (Thimiano), che ne condivisero la sorte. Venne scoperto nel 1620 a Birten (ora una parte di Xanten), in Germania. Celio è raffigurato con indosso la sua uniforme militare, e decorazioni: PHALERÆ (falere) (un tipo di decorazione militare), ed armille (un tipo di decorazioni che venivano portate al collo e un braccialetto), una corona civica (un premio che spettava a chi avesse salvato la vita ad un cittadino Romano), mentre nella sua mano destra, tiene un vitis (Un bastone di vite, simbolo di comando, portato dai centurioni, incaricato al comando di una centuria). Su entrambi i lati della sua immagine vi sonoi suoi liberti (ex schiavi), MARCVS CÆLIVS PRIVATVS e MARCVS CÆLIVS THIAMINVS.
In basso a sinistra della lapide danneggiata, ma abbastanza leggibile, vi è riportato il testo che descrive MARCVS CÆLIVS:

M[ARCVS] CÆLIVS T[ITI] F[ILIO] LEM[ONIA TRIBV] BON[ONIA]
I O[RDINI] LEG[IONIS] XIIX ANN[ORVM] LIII S[EMISSIS]
CECIDIT BELLO VARIANO OSSA
[LIBERTORVM] INFERRE LICEBIT P[VBLIVS] CAELIVS T[ITI] F[ILIVS]
LEM[ONIA TRIBV] FRATER FECIT

Marco Celio, figlio di Tito, appartenente alla tribu’ Lemonia, nativo di Bologna, centurione di primo ordine della Legione XIIX, di anni 53 mezzo, fu ucciso nella guerra Variana, la lapide contiene le sue e quelle dei suoi Liberti. Messe da Publio Celio, figlio di Tito, della Tribu’ Lemonia e fratello di Marco, fece.








domenica 4 agosto 2019

DOSSIER SPECIALE: PREZZI, STIPENDI, PRESTITI E TASSE. IL DENARO NEL MONDO ROMANO | 1

DOSSIER SPECIALE: PREZZI, STIPENDI, PRESTITI E TASSE. IL DENARO NEL MONDO ROMANO | 1: (di Fiorenzo Catalli) | “Gli assi di Augusto, i sesterzi di Nerone, i denari di Giuda… Ne abbiamo sentito parlare in più occasioni forse senza comprendere appieno il reale significato in rapporto a ciascuna epoca che queste monete rappresentano, sicuramente senza avere alcun aggancio significativo con una realtà quotidiana in cui operavano il cittadino romano,...

martedì 25 giugno 2019

I dona militaria


I DONA MILITARIA,  IN AZIONE BELLICA: OSTENTAZIONE narcisistica  POCO CREDIBILE DI PATACCHE, O "INSIGNIA" riconoscibili DI VIRTUS?

Spesso nell'ambito ricostruttivo di una battaglia,  si possono vedere rievocatori interpretare centurioni e tribuni in azione, che ostentano il petto (ed il crine) ornato di " phalerae e torques"..
Sebbene il soldato tenda ad una certa estetica del proprio valore, sfruttata anche per giocare sul livello di morale dell'avversario, puo' sembrare assurdo che un ufficiale andasse in battaglia portandosi appresso le sue decorazioni..
Decorazioni che sappiamo introdotte nella prima Repubblica (Plinius. Historia Naturalis 22, 6-13)
E di cui fa per la prima volta menzione Polibio (Pragmateia, 6,39)

Ma nella descrizione della guerra in Spagna, Cesare/AuloIrzio menzionano un episodio che parrebbe comprovare questa "giuliva pataccosità di decorazioni" in battaglia..
L'episodio fa riferimento a Munda, 54 a.C.
E cosi' leggiamo:

"Itaque praeter consuetudinem cum a nostris animadversum esset cedere, centuriones ex legione v flumen transgressi duo restituerunt aciem, acriterque eximia virtute plures cum agerent, ex superiore loco multitudine telorum alter eorum concidit. Ita cum eius compar proelium facere coepisset, cum undique se circumveniri animum advertisset, in[teger re]gressus pedem offendit. Huius concidentis temporis aquari fortis insignia cum conplures adversariorum concursum facerent, equites nostri transgressi inferiori loco adversarios ad vallum agere coeperunt"

Tradotto:

"Di conseguenza, quando i nostri uomini si accorsero che stavano cedendo terreno più del loro solito, due centurioni della V Legione attraversarono  il fiume (Salsum) e ripristinarono la linea di battaglia (acies)  e mentre respingevano energicamente i loro numerosi nemici, con  eccezionale virtu',  uno di loro cedette a una raffica di missili scagliati da un punto più alto. E così il suo collega iniziò una lotta in salita; e quando osservò che era completamente circondato, si ritirò e perse l'equilibrio/si feri' il piede. Mentre questo ufficiale galante cadeva, numerosi nemici si affrettarono a deprededare le sue decorazioni (insignia); ma la nostra cavalleria attraversò il fiume e dalla parte inferiore procedette a spingere il nemico verso il vallo"
(Bellum Hispaniense, 23)

Dunque, quantomeno parrebbe che alcune decorazioni venissero portate in battaglia.
Forse per incoraggiare gli uomini piuttosto che per personale ostentazione, come nella piu' classica delle tradizioni dei mores romani.
Sebbene ponessero gli ufficiali nella duplice situazione vantaggiosa/svantaggiosa di essere riconosciuti sia dalle proprie truppe, che dai nemici.

Non sappiamo di quali decorazioni si parli nel brano: forse appunto di phalerae e torques; o di armillae...
Dunque, sebbene sembrerebbe esserci una riprova delle "patacche" in battaglia, sarebbe bene comunque tener conto che visibilità rappresentativa non significa per forza ...
"enfasi narcisistica ostentata"


Fonte: https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=1620910551361103&id=100003265221988

lunedì 24 giugno 2019

Massimino il trace


Gaio Giulio Vero Massimino
MASSIMINO detto il  TRACE   

Alto più di due metri, con una enorme potenza fisica, era in grado di trainare un carro a forza delle sole braccia, di abbattere un cavallo con un solo pugno e di frantumare i massi a mani nude. Si dice fosse figlio di un contadino goto, tale Micca, e di Hababa una donna della tribù degli Alani (Erodiano che lo definisce Per natura barbaro nel costume come nella stirpe).

Fu il primo imperatore ad essere eletto per volontà dell'esercito avendo in precedenza percorso tutta la carriera militare da soldato semplice a generale ed il secondo Imperatore di rango equestre venti anni circa dopo la nomina ad Augusto del prefetto del pretorio Opellio Macrino (217-218).

Gaio Giulio Vero, passato alla storia come Massimino il Trace, nacque in una zona imprecisata non lontana dal Danubio probabilmente fra il 172 d.C. e il 185 d.C.
Nato probabilmente da una famiglia di rango equestre fu il primo esponente di una serie di imperatori-soldati di stirpe illirico-balcanica che cercò con la forza delle armi di difendere l'Impero dalle sempre più frequenti invasioni barbariche.
Entrato nell'esercito come un semplice soldato, Massimino emerge dai ranghi in ragione della sua forza e della sua ferocia che in breve divennero leggendarie fra i suoi compagni.
Le notizie che riguardano Massimino sono confuse e la brevità del suo regno, tre soli anni tutti passati sul campo di battaglia, non gli hanno consentito, come spesso accade a molti potenti, di costruirsi a posteriori un passato glorioso. In vita egli fu fiero avversario della classe senatoria e proprio da storici appartenenti a questa classe vennero poi raccontati gli eventi che lo riguardano, tutti tramandatici in maniera tale da mettere il Trace sotto una luce negativa di rozzo barbaro contrapposto al suo predecessore, l'illuminato, almeno per la classe senatoria, Alessandro Severo.

Da sempre fedele alla dinastia dei Severi, Massimino, che ancora adolescente era stato notato da Settimio Severo il quale ne aveva incoraggiato e poi premiato la carriera militare, conosce un periodo infelice solo sotto l'impero di Eliogabalo.
Una volta salito al potere il tredicenne Alessandro Severo, Massimino viene riportato in primo piano nei ranghi dell'esercito tanto è vero che nel 232 ha il comando di una legione in Egitto e l'anno successivo diventa governatore della provincia di Mesopotamia.
Nel 235 d.C. troviamo Massimino all'apice della sua carriera militare come generale di Alessandro Severo a Magonza per domare una rivolta di popolazioni germaniche lungo il confine del Reno. A lui l'imperatore affida il comando delle reclute. Può apparire un comando minore ma è proprio Alessandro Severo a smentirlo e a definire la stima che ha di Massimino come soldato. Dice l'imperatore :

Massimino carissimo, il comando dei veterani, perché ho temuto che tu non potessi ormai più correggere i loro vizi... hai nelle tue mani delle reclute: fa loro apprendere la vita militare secondo il modello dei tuoi costumi, del tuo valore, del tuo impegno, perché tu abbia a procurarmi molti Massimini, così necessari per il bene dello Stato..

 Questa è la fiducia che Alessandro ripone in Massimino, fiducia che solo pochi mesi dopo viene ripagata con l'uccisione dello stesso Severo da parte di quelle reclute guidate e istruite, forse plagiate, dallo stesso Massimino.
Al di là della storiografia, tutta contraria al Trace che lo dipinge come un rozzo barbaro quasi privo di sentimenti, viene spontaneo chiedersi come mai questi accetti senza alcuna remora la nomina ad imperatore e il tradimento nei confronti di colui che era pur sempre il suo comandante... Alessandro Severo è un debole. Salito al regno appena adolescente ha sempre gestito il potere in modo formale delegando gli affari di stato alla madre invadente Giulia Mamea e alla nonna, la volitiva Giulia Mesa. Con Alessandro il potere viene gestito di fatto anche dall'oligarchia senatoria che impone al principe un comitato di patres guidati dal prefetto del pretorio, il famoso giurista fenicio Domizio Ulpiano, che deve indicare ad Alessandro Severo la politica da seguire.
Massimino, invece, è un militare ed odia il Senato e la politica. Non c'è dubbio alcuno che, nonostante la sua fedeltà all'imperatore, Massimino non si sia dato pena di nascondere con i suoi soldati il disprezzo che provava. Il capo dell'esercito, l'imperatore sottoposto a ventisette anni ancora all'autorità della madre: inconcepibile! In questa atmosfera di disprezzo per Alessandro Severo devono essere state allevate le reclute fedeli solo al loro generale. Ed è per questo che, dopo l'ennesima vittoria ottenuta sotto la sua guida, proprio queste reclute proclamano Massimino imperatore.
Il campo di Alessandro Severo dista appena un miglio dall'accampamento di Massimino. Le reclute del Trace si gettano sull'imperatore che non ottiene protezione neppure dalle legioni orientali partiche che gli erano fedeli fino a pochi giorni prima. Severo fugge nella tenda della madre Giulia Mesa e fra le lacrime la rimprovera per la sua ambizione definendola come nuova Messalina. Entrambi scappano con pochi fedeli. La loro fuga è però breve, perché ben presto vengono raggiunti e trucidati.
Il Senato è colto di sorpresa e non può far altro che ratificare la volontà delle legioni.

http://soldatiromanideltardoimpero.blogspot.com/2017/06/legionario-200-ad-epoca-di-settimio.html?

La prima preoccupazione del generale è la guerra contro i Germani. Fra i suoi obiettivi c'è una guerra ad oltranza che sola avrebbe dovuto definire una volta per tutte la questione dei confini con le tribù germaniche. Proprio mentre era occupato in una operazione bellica al di là del Reno, scoppia la prima rivolta degli uomini fedeli ad Alessandro. Massimino, ritornato precipitosamente sulla sponda romana del Reno, soffoca nel sangue la ribellione.
Dopo poche settimane è la volta della ribellione del corpo degli arcieri di Osroene (Mesopotamia), anch'essi fedeli del vecchio augusto. I legionari ribelli eleggono imperatore un vecchio amico di Alessandro Severo, un tale Quartino. Il suo regno dura pochi giorni è lo stesso capo degli arcieri, un tale Macedonio, che, mutato parere, uccide Quartino portandone poi la testa spiccata dal busto a Massimino, il quale scandalizzato, gli riserva la stessa fine.
L'origine chiaramente senatoria di questi complotti convince l'imperatore a sostituire gli ufficiali di rango senatorio con soldati di carriera a lui fedeli. Finalmente sicuro di quanto stava accadendo dietro le sue spalle, Massimino varca nuovamente il Reno attraversando il ponte costruito dallo stesso Severo nei pressi di Magonza. Le legioni avanzavano bruciando e distruggendo villaggi, uccidendo tanto gli uomini quanto le donne e i bambini. Più volte affrontato dalle orde germaniche, spesso in situazioni di chiaro svantaggio tattico per la relativa conoscenza del territorio pieno di foreste e di paludi, Massimino le sconfigge facendo rifulgere in più di un'occasione la sua abilità militare e il suo coraggio. Che differenza dal suo predecessore doveva essere per i soldati vedere il loro comandante combattere a cavallo davanti a loro, guidando più volte lui stesso furiose cariche di cavalleria! Nonostante le perdite la campagna si conclude con un chiaro successo che consente a Massimino di fregiarsi del titolo di "Germanico". I Senatori che gli avevano conferito questo onore avrebbero forse preteso che Massimino si recasse a Roma per onorarli ma, in modo politicamente improvvido, Massimino non vi si recò mai preferendo a queste formalità il rimanere sul campo di battaglia, dove riteneva essere più necessaria la sua opera.

Dopo avere trascorso l'inverno del 235 e del 236 nel centro strategico di Sirmium "il Trace" si rimette all'opera per ricacciare dietro i confini del Limes le tribù ribelli del Danubio. La campagna è lunga e anche qui, secondo il suo stile, sanguinosa, ma si conclude con un nuovo successo che consente a Massimino di fregiarsi anche dei titoli di "Sarmatico" e "Dacico". Tanta abilità militare non gli vale comunque la stima del Senato che anzi, appena può, cerca di rinfocolare le ambizioni degli avversari di Massimino. Questa volta è il turno del proconsole d'Africa Marco Antonio Gordiano, ricco latifondista, che rischiava di vedersi confiscate le terre vicino a Cartagine come già era accaduto ad altri suoi pari senatori nella stessa Roma. La politica fiscale estremamente dura fu uno dei punti deboli del governo dell'imperatore. Con la scusa delle spese di guerra sempre più onerose da sostenere Massimino aumentò le tasse in particolar modo ai più ricchi esponenti dell'oligarchia senatoria. In effetti non si può dire che avesse tutti i torti, visto che le casse dell'erario erano praticamente vuote e le guerre non davano certo i bottini che erano usuali quando Cesare conquistò la Gallia o Pompeo l'Egitto. Le tribù Germaniche erano più ricche di ferocia che d'oro. Non si può neppure dire che Massimino usasse in abbondanza dei soldi spremuti ai Senatori per ingraziarsi l'esercito con cospicui donativi. Anzi, proprio la sua rigida disciplina nei confronti di coloro che l'avevano eletto imperatore, sarà una delle cause della sua rovina.
Con un esiguo esercito, Gordiano e il figlio Gordiano Minore dapprima conquistano Cartagine, praticamente indifesa, ma devono poi soccombere al ritorno dei soldati numidi, fedeli a Massimino, guidati da Cappeliano, governatore della stessa Cartagine. Gordiano Minore, rimasto a difesa della città con pochi uomini, si batte valorosamente ma è infine sopraffatto ed ucciso . Saputo della morte del figlio, anche Gordiano si toglie la vita. Il suo titolo era durato meno di un mese.
La nomina di Gordiano ad imperatore viene abilmente manovrata dal partito senatorio a Roma che diffonde la voce della morte di Massimino. "Il Trace" è però vivo e vegeto in Pannonia e venuto a conoscenza dell'accaduto, dopo avere informato del da farsi il suo fidato luogotenente Cappeliano in Africa, si dirige a marce forzate verso l'Italia e Roma.
In mancanza del nuovo imperatore Gordiano, il Senato provvede a nominare due suoi esponenti, Marco Pupieno e Balbino, come vicari. La carica, in realtà un ibrido fra il consolato e l'impero, è frutto di una estenuante riunione dei patres per cercare di fronteggiare il pericolo incombente.

http://soldatiromanideltardoimpero.blogspot.com/2017/07/pretoriano-230-ad-epoca-di-alessandro.html?m=1

Massimino, nel frattempo valicate le Alpi, entra in Italia senza trovare resistenze ma anche senza trovare cibo per sfamare i suoi uomini. Giunto davanti ad Aquileia, fedele al Senato, chiede che la città gli apra le porte ma i battenti restano chiusi. L'assedio sembra protrarsi e piano piano la mancanza di vettovaglie e le forti perdite alimentano sempre più il malcontento fra le sue truppe.
Siamo nel giugno del 238. In un caldo pomeriggio estivo alcuni legionari della seconda legione partica facenti parte dell'esercito del Trace penetrano nella tenda uccidendo l'imperatore ed il figlio, che era stato associato al potere con la carica di principe della gioventù. La notizia giunge rapida, insieme alle teste dei due, a Marco Pupieno che si affretta a raggiungere Aquileia per premiare con una consistente somma di denaro le truppe.
Finisce così come era iniziata, dopo soli tre anni di regno, l'avventura di Massimino, il primo soldato semplice a diventare imperatore della grande Roma.











mercoledì 19 giugno 2019

Batavi, supermen al servizio dell' Impero


BATAVI SUPERMEN AL SERVIZIO DELL' IMPERO

Battaglia fiume Medwhay, Britannia

..Non esisteva alcun ponte su quel fiume, perciò un distaccamento di ausiliari romani con un addestramento speciale (descritti dall'unica fonte storica per quella battaglia, Cassio Dione Cocceiano, come "celti") attraversò il fiume a nuoto ed attaccò i cavalli da biga dei nativi. Nella confusione che seguì, la maggior parte della forza d'invasione facente capo alla Legio II Augusta sotto Vespasiano attraversò il fiume, sotto il comando generale di Tito Flavio Sabino. Sembra che i nativi fossero stati colti di sorpresa da come quei legionari pienamente equipaggiati fossero stati in grado di attraversare il fiume e Peter Salway afferma che perfino Cassio Dione sembra sorpreso..

Sono ragazzoni olandesi alti e grossi; le ultime statistiche ce li disegnano come i cittadini europei con la maggior distanza separante i propri capelli dal suolo sul quale poggiano i piedi: una media di 185 centimetri circa.
L'attacco a questo primato da parte di una piccola regione montuosa del Montenegro (un metro e 90, vera enclave di giganti) rappresenta un dato trascurabile.
Per questo (e non solo) i giovani abitanti di quelle pianure, tanto basse da estendersi al di sotto del livello del mare, eccellono in molti sport, nei quali si prevale sull'avversario grazie sopratutto alle qualità fisiche, alla vigorìa e alla resistenza: nel calcio, nel nuoto, nella pallavolo gli olandesi ottengono sovente grandi risultati; risultati, poi, tanto più apprezzabili se messi in relazione con un'entità demografica non straordinaria: sedici milioni di abitanti, quasi tutti spinti da una appassionata dedizione all'attività agonistica e sportiva, attività gratificata, come detto, da eccellenti prestazioni a livello di competizioni internazionali.
Gente agile, forte e fresca, dunque, salutarmente piena di energia.
Gli orange di oggi sono i discendenti di etnie che, nel corso dei secoli, seppero più volte imporsi in virtù della forza innata dei loro vigorosi corpi; e sebbene l'altezza media non sia sempre stata il forte di quei popoli (fino al 1800, anzi, gli abitanti dei Paesi Bassi si uniformavano a medie più meridionali che nordiche), tuttavia l'ardore, la bellicosità, la possanza fisica permetteva loro di sostenere le più dure battaglie combattute in Europa, e non solo: è noto come la piccola Olanda sia stata protagonista eccelsa dell'epopea delle colonizzazioni.
Batavi, Frisi...Erano gente di duro ceppo germanico, perfettamente dotata dalla natura per eccellere nell'arte “nobile” della guerra.
E di ciò si accorsero bene, duemila anni fa, i Romani signori del mondo, i quali attinsero a piene mani a questa genìe, così predisposta a corroborare efficacemente quella formidabile macchina da guerra che era l'esercito delle legioni.
Iniettando vigorose dosi di validi alleati (gli auxiliaria) Roma tonificava il proprio corpo bellico, attingendo in modo specifico a quelle etnie presenti geograficamente nelle varie partes Imperii.
Da sempre, la zona renana era stata fonte di forti preoccupazioni per Roma: al di là del grande fiume si estendevano lande e foreste sterminate abitate da numerose tribù germaniche, pericolose per la moltitudine e il valore dei loro guerrieri.
Catti, Tencteri,Suebi...: nomi che già al tempo di Cesare avevano intimorito non poco le truppe romane stanziate in territorio gallico, e che avevano poi perpetrato, con l'ignominioso tradimento di Arminio del 9 dopo Cristo, lo sterminio delle tre legioni augustee guidate da Varo, improvvidamente addentratosi nella selva tenebrosa di Teutoburgo.
Ci volle l'intervento, anni dopo, del miglior generale di Tiberio, Germanico (figlio del fratello dell'imperatore, Druso), per riparare all'onta subita e raddrizzare un poco la tribolata questione del Reno.
Un valido aiuto, in quella situazione e nel successivo controllo di quei turbolenti limina, giunse proprio dal popolo dei Batavi, sì di origine germanica, ma stanziato al di qua del Reno, in un isola (così racconta Cesare nel “De Bello Gallico”) situata tra la Mosa e il Waal, in quella regione, da tempo civilizzata e soggetta a Roma, chiamata Gallia Belgica.
I Batavi, dunque. Chi erano?
Innanazitutto, numericamente erano in pochi, pochi davvero. Lo sottolineamo per confermare quanto qualità e quantità vadano a braccetto raramente.
Una sorta di vera e propria truppa scelta, una enclave limitata ma impareggiabile, armi in pugno: i Batavi erano un po' gli Spartiati del Nordeuropa, l'élite guerriera di un esercito formidabile ed etnicamente variegato quale era quello romano.
Il popolo batavo, nei primi decenni imperiali, non toccava molto probabilmente i quarantamila individui tra uomini e donne: ma tutti i maschi in età militare ( dai sedici anni in su) entravano a far parte dell'esercito, e di questi circa cinquemila costituivano uno dei migliori corpi di auxiliariaesistenti.
Il ritrovamento di alcune stele funerarie ci mostra, tra l'altro, come i Batavi fossero di buon grado impiegati anche quale parte integrante della guardia imperiale, una formazione istituita da Augusto e il cui ruolo era di “corporis custodes”(letteralmente “guardie del corpo”) del princeps.
Tra di essi si distingueva il reparto di cavalleria batava, vero e proprio fiore all'occhiello, che forniva il nucleo degli Equites singulares di scorta all'imperatore.
Tanto era tenuto di conto per le sue peculiarità in campo militare, che la gente batava godeva del non trascurabile privilegio dell'esenzione dai tributi, dovuti solitamente a Roma dagli alleati.

http://soldatiromanideltardoimpero.blogspot.com/2010/04/nellimmagine-precedente-e-raffigurato.html?m=1

In cosa eccellevano questi straordinari soldati? Conosciamoli meglio, accompagnati dalle rapide ma efficaci descrizioni che ne dà Tacito in una delle sue opere principali, le “Historiae”.
I Batavi vengono trattati nel quarto e nel quinto libro di questo capolavoro letterario, giuntoci purtroppo solo in minima parte: “Senza subire lo sfruttamento delle loro risorse (fatto eccezionale nell'alleanza coi più forti), forniscono all'Impero solo uomini e armi; ampiamente addestrati nella guerra contro i Germani, avevano visto crescere la loro gloria con le campagne in Britannia, per merito delle coorti colà inviate al comando, secondo l'antica tradizione, dei capi più nobili del loro popolo. Vantavano - prosegue il grande storico narbonense - anche reparti scelti di cavalleria, così specializzati nel nuoto da attraversare il Reno con armi e cavalli, in formazione compatta.”
E ancora: “Da loro non si pretendevano tributi, ma solo valore e uomini. Era la condizione più vicina alla libertà. E -chiosa con un velo d'ironia Tacito- dovendo scegliere un padrone, meglio i prìncipi romani che le donne germaniche...!”
Anche i Batavi, per quanto alleati fidati dei Romani, non furono esenti dall'aspirare a rendersi, una buona volta, autonomi da Roma; a tal scopo, scoppiò presso quel popolo una rivolta nell'anno 69 dopo Cristo, l'“annus horribilis” dei quattro imperatori (Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano): e forse non a caso proprio in quei mesi, data la galoppante anarchia politico-militare che attraversava l'Impero.
A capo dei ribelli si era posto Gaio Giulio Civile, un nobile batavo pienamente romanizzato, il quale poggiò il tentativo di rivolta sulla partecipazione, oltre che della sua gente, anche di tribù germaniche guidate dalla profetessa Veleda, che assunse il ruolo di ispiratrice divina dell'impresa, oltre che di alcuni popoli gallici retti da Giulio Sabino, re dei Lingoni.
Civile ci viene così descritto dal grande Tacito, che lo dipinge con una fugace ma profonda pennellata: “Dotato ben oltre il livello normale dei barbari, di una intelligenza raffinata e scaltra, si sentiva un Sertorio e un Annibale per una analoga deturpazione del volto”.
Il casus belli fu offerto dalla esecuzione sommaria di Giulio Paolo, imparentato con Civile e punito dai legati romani con l'accusa (risultata poi infondata) di sedizione contro l'Impero.
I tumulti, brevi ma intensi, furono soffocati a fatica; nel corso degli scontri andò totalmente distrutto l'accampamento di Oppidum Batavorum, vero e proprio centro amministrativo di quella regione posta tra il delta renano e il Mare del Nord.
Tuttavia, dopo le esemplari punizioni impartite ai capi dei rivoltosi, i Batavi tornarono di buon grado (e nuovamente affidabili) a servire nelle legioni, dove non fecero mancare la loro esperienza e la perizia bellica forgiate in decenni di alleanza con Roma.
Il Batavo era dunque un figlio della guerra dalle poliedriche capacità: nell'equitazione, nel nuoto, nello scontro armato venivano esaltate le sue eccellenze di combattente.
Ci sarebbe da chiedersi se il grande Jules Verne si sia ispirato iconicamente al soldato-tuttofare batavo, per dipingere con arte la figura di Michele Strogoff, il corriere dello Zar pronto a sobbarcarsi cavalcate, attraversamenti di freddi fiumi con poderose bracciate e duelli per adempiere alla propria missione, attraverso le steppe polverose e sterminate della Santa Russia.
Di sicuro, è proprio l'idea letteraria partorita dal genio dello scrittore francese ad aver ispirato, decenni dopo, quello sport chiamato Pentathlon e assurto alla dignità olimpica: in esso, attraverso prove di equitazione, tiro, corsa, nuoto e scherma si esalta la forza dell'atleta perfetto, del supermanversatile e completo.
Ma uomini di tal fatta esistettero davvero, un paio di millenni fa; stimati da chi combatteva al loro fianco, temuti da chi si ritrovava ad affrontarli in battaglia, i Batavi seppero rappresentare con merito il tipico ceppo etnico che si distingue non per la moltitudine dei suoi appartenenti, ma per la comprovata qualità dei pregi e delle virtù.
Da pratici e genuini uomini del Nord qual erano, e lontani dal mondo mediterraneo dove andava sempre più inflaccidendosi il braccio che sostiene la spada, queste genti fecero della guerra la loro attività principale, ma anche il mezzo migliore per poter esprimere compiutamente la loro valorosa natura.







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