domenica 5 dicembre 2021

Mura Aureliane e tasse da pagare

L'altro giorno vi ho accennato, di sfuggita, che avrei voluto parlarvi delle Mura Aureliane. Chi non le conosce? Chi ha avuto modo di venire a Roma, ma anche chi le ha viste in tv, al cinema o, anche, soltanto in foto avrà avuto la sensazione di guardare qualcosa di gigantesco e, probabilmente, sarà andato con il pensiero ai tempi necessari ed ai costi ingentissimi per la realizzazione dell'enorme opera. Non parlo, poi, degli abitanti della Capitale che nelle loro uscite quotidiane non possono fare a meno di incontrarle. In effetti, le Mura costituiscono la più imponente struttura urbana mai concepita nell'intero mondo romano. La nuova cinta muraria della lunghezza complessiva di quasi 19 km andò a sostituire dopo più di 600 anni le cosiddette Mura Serviane che erano quasi completamente scomparse. Nel corso dei secoli l‟originario impianto architettonico subì alcune modificazioni anche importanti ma, per gli scopi che ci interessano, possiamo trascurare di parlarne. Non si conosce con precisione il tempo necessario a realizzarle, ma gli esperti ritengono che il cantiere iniziò nel 271 d.C. e alcuni di loro ritengono che furono completate già prima della morte di Aureliano (275 d.C.). Quindi una velocità impressionante, una volata incredibile, oltre tutto in assenza dell'Imperatore impegnato a guerreggiare sul fronte orientale. Quale fu il motivo di questo ambizioso progetto di fortificazione che, tra l'altro, comportava anche una spesa enorme? Scommetto che qualcuno di voi, anzi più di qualcuno, si è già fatta un'idea; ma siete sicuri che l'unico scopo fosse quello di difendere la Città dai barbari? Cerchiamo di ragionarci con calma.
Ai primi dell’anno 271 d.C., una grossa massa di guerrieri germanici, passate le Alpi, scesero nella penisola italiana alla ricerca di bottino. Dopo un primo scontro vittorioso a Piacenza con l'esercito imperiale, si diressero verso sud, provocando il panico a Roma, che non si sentiva minacciata direttamente dai tempi di Annibale. Ma nel giro di poche settimane Aureliano li affrontò e sconfisse prima a Fano e poi a Ticinum (Pavia): passerà più di un secolo prima della successiva incursione barbara sul territorio italico.
Aureliano rientrò a Roma, dove passò qualche mese a rafforzare il suo controllo sulla capitale prima di partire per affrontare la regina di Palmyra, Zenobia. Sarebbero trascorsi tre anni prima del ritorno di Aureliano a Roma (274 d.C.). 
Quindi la decisione di erigere le nuove mura fu presa nell'intervallo di tempo tra la sconfitta dei barbari (marzo 271) e la partenza per l’Oriente (estate dello stesso anno). 
E quale sarà stata la motivazione? 
In genere si pensa che le Mura sarebbero servite a tranquillizzare un popolo urbano sconvolto dalla minaccia barbara, nonché a salvaguardare la futura sicurezza della città, durante un periodo in cui non si poteva più contare sulle forze stanziate lungo le frontiere dell’impero, impegnate nella guerra contro Zenobia.
Ma risulta difficile pensare che le Mura vennero costruite solo per questo motivo. Le sconfitte inferte agli invasori erano state così pesanti da far considerare improbabile un nuovo tentativo a breve.
A quei tempi il pericolo principale consisteva in gruppi di barbari, poco attrezzati per condurre lunghi assedi, ma che erano alla ricerca di preda facile; e la capitale disponeva ancora di una folta guarnigione composta di pretoriani ed equites singulares. E' possibile che noi abbiamo interpretato male lo scopo? A cosa mai potevano servire quelle Mura se non a difendere la popolazione? Vediamo di esaminare la situazione di allora.
Dopo aver sconfitto i barbari, Aureliano, tornato a Roma, trovò una città in rivolta per tensioni create dal gruppo senatoriale a lui ostile. Sembra che Aureliano abbia fatto ricorso alle maniere forti per prendere in mano la situazione prima di partire alla volta di Palmira: non perse tempo nel reprimere i colpevoli veri o presunti della rivolta, tra i quali si annoveravano non soltanto gli impiegati della zecca ma anche alcuni esponenti dei ceti sociali più alti. 
Sia l’Historia Augusta che l’Epitome de Caesaribus tramandano la notizia della costruzione delle Mura SUBITO DOPO il racconto dei tumulti popolari accaduti a Roma nella prima metà del 271 d.C. 
L’Historia: «Terminata la lotta contro i Marcomanni, Aureliano, siccome era d’indole molto feroce, tornò a Roma pieno di rabbia e con una voglia di vendicarsi esagerata in proporzione alla gravità delle sommosse [...] alcuni senatori nobili furono uccisi [...] fatte queste cose, quando vide che sarebbe potuto riaccadere ancora quanto era successo sotto Gallieno, seguendo il consiglio del senato egli estese le mura della città di Roma». 
E questa è la versione dell’Epitome: «in quel periodo nella città di Roma gli impiegati della zecca [monetarii] si ribellarono; una volta sconfitti, Aureliano li giustiziò con grande crudeltà [...] egli cinse la città di mura più valide ed estese».
Quindi, l'Imperatore temeva non tanto la ricomparsa dei barbari nella penisola quanto possibili sommosse interne e potrebbe aver ideato e voluto le Mura come mezzo di controllo sulla città stessa, specie verso gli elementi più restii del popolo urbano. Una sorta di “difesa interna” più che esterna.
Dovendo allontanarsi per un lungo periodo, Aureliano voleva mantenere il controllo sulla città e, probabilmente, riteneva che il progetto delle Mura sarebbe servito allo scopo. Il circuito murario era il segno concreto del suo dominio e i Romani si sarebbero trovati rinchiusi entro un perimetro gestito e pattugliato da milizie fedeli all’imperatore.
Chi controllava le porte controllava le Mura e chi controllava le Mura controllava la città intera. Grazie alle controporte, chi stava sulle Mura aveva il controllo sui nemici esterni e ma anche su quelli interni.
E' la prima volta che mi capita di incrociare una cerchia di mura intorno ad una città per difendersi da nemici interni, ma mi pare non ci siano dubbi.
C’è, infine, un ultimo elemento che deve essere considerato in aggiunta tra i possibili motivi della decisione di Aureliano. Le Mura, per quanto fossero costose da costruire, avrebbero rappresentato nel lungo termine un investimento molto redditizio per l’amministrazione urbana, per il semplice motivo che, a costruzione realizzata, non era più possibile evitare di pagare le varie tasse e imposte fiscali dovute da persone o per beni in transito per la città.
Prima delle Mura, la cinta daziaria era stata delineata soltanto con cippi disposti a intervalli attorno al perimetro urbano, i quali non impedivano a nessuno di entrare in città o uscirne. Con le Mura, invece, i confini della città divennero nettissimi e venivano attraversati soltanto tramite le porte del circuito, varchi che potevano essere chiusi di notte e sorvegliati di giorno da soldati o agenti doganali al servizio del governo municipale. Difficile, quindi, che con la barriera invalicabile delle Mura l’evasione fiscale non scemasse o addirittura venisse meno. 
Nel tempo le tasse riscosse alle porte di Roma costituirono una fonte di denaro consistente per le autorità cittadine che arrivarono a dare in appalto a privati la gestione delle singole porte. 
Col passare degli anni, le spese della costruzione e la manutenzione delle Mura si saranno in gran parte ripagate grazie alla presenza delle Mura stesse.
Chissà che Aureliano non abbia pensato anche a questo?

Fonte: https://www.facebook.com/media/set/?set=a.4552646371522629&type=3

venerdì 3 dicembre 2021

LA TRISTE STORIA DI PERPETUA, FEDELE ALL’ AMORE DEL SUO DIO FINO ALLA FINE


Anfiteatro di Cartagine, marzo del 203 d.C.: durante i festeggiamenti del compleanno di Geta, il figlio maggiore dell’imperatore, una giovane donna, Vibia Perpetua, insieme ad altre cinque persone, viene condannata “ad bestias” (vale a dire a essere uccisi straziati dagli animali feroci). Il motivo della condanna era il rifiuto di fare sacrifici all’imperatore: Perpetua e gli altri cinque condannati erano cristiani. 
Nel carcere, in attesa dell’esecuzione, Perpetua scrive un diario. Si tratta di un documento prezioso, per non dire unico. I testi latini di mano femminile sono difatti pochissimi, e nella quasi totalità dei casi non consentono di conoscere pensieri, sentimenti, carattere e scelte di vita di chi li ha scritti. Unica eccezione, le poesie di Sulpicia: vissuta circa due secoli prima, in un altro mondo e in un altro ambiente, e che, come Perpetua, parla di un amore. Nel caso di Sulpicia, per un uomo; nel caso di Perpetua, per il suo dio. Ed è, quello di Perpetua, un amore fortissimo, che la obbliga a scelte molto dolorose, compiute con ferrea, implacabile fermezza. Gli affetti familiari, di fronte a quello per Cristo, non esistono più: invano il padre la prega di piegarsi al potere, per aver salva la vita. Neppure l’amore materno la distoglie dalla sua determinazione: al momento dell’arresto, Perpetua ha da poco partorito un bambino, che teneramente allatta, anche in cella. Mai, per nessuna ragione, rinnegherà l’amore per Cristo. E va verso la morte atroce con una fermezza, una serenità e una dignità che colpisce persino i suoi aguzzini.
Quando la giovane viene introdotta nell’arena, le vengono tolti gli abiti e viene “vestita” soltanto di una rete: l’esposizione del corpo agli sguardi della folla sarebbe stata una pena accessoria per degradarla, additandone pubblicamente l’indegnità. Ma quel giorno di marzo, nell’anfiteatro di Cartagine, la visione del corpo indifeso di Perpetua, con il latte che ancora stillava dal petto, turbò e inorridì gli spettatori al punto da indurre i carnefici a rivestirla. E Perpetua morì fedele al suo grande, unico amore: quello per il suo dio.

Fonte: Eva Cantarella.  Dammi mille baci. Veri uomini e vere donne nell’antica Roma]
Roma: capitale d' arte, di bellezza e di cultura


martedì 9 novembre 2021

Caracalla

CARACALLA

Origine del soprannome

L’uomo che divenne imperatore di Roma nel 198 d. C. dopo la morte di Settimio Severo, fu suo figlio Marco Aurelio Antonino Augusto, che si spartì il potere con il fratello Geta, quasi nessuno ricorda questo nome, poiché da secoli egli è noto come Caracalla.

Esso deriva da un capo di abbigliamento.L’Imperatore infatti, era solito indossare la “caracalla”, un ampio e lungo mantello militare dotato di cappuccio proprio delle popolazioni celtiche.

Per Marco Aurelio Antonino divenne un tratto distintivo al punto tale da venire identificato con esso e da rendere un tutt’uno la sua persona e l’indumento che amava di più.

Caracalla fu il primo ad introdurre il mantello dei Galli nell’Impero, lanciando di fatto una moda che si protrasse per secoli.

La fanciulla di 1500 anni

So bene, come sanno gli amici, che è molto facile scadere dall'archeologia alla fantarcheologia. Ma quello che segue ce lo racconta un fior di professionista non abituato certamente a credere a "favolette". Non può testimoniarlo di persona ma riporta scritti e lettere di uomini degni di fede che erano presenti al fatto. Ma non vi voglio tenere ancora in sospeso; leggete quello che ha scritto e riportato il Lanciani in Roma Pagana e Cristiana, Newton&Compton Editori, 2004: ------ 
"Tra le molte scoperte che hanno avuto luogo nei cimiteri che costeggiano la "Regina viarum", quella fatta il 16 aprile del 1485, durante il pontificato di Innocenzo VIII, rimase insuperata. 
Ci sono stati tantissimi resoconti pubblicati dai moderni scrittori su questo evento straordinario, ma può interessare i miei lettori imparare come sono andati i fatti passando in rassegna l’evidenza che emerge dalla loro semplicità originale. Citerò solo testimonianze che ci permettono di accertare cosa è realmente accaduto in quel memorabile giorno. Il caso in sé stesso è talmente unico che non ha bisogno di amplificazioni o dell’aggiunta di dettagli immaginari.  
Consultiamo per primo il diario di Antonio di Vaseli: 
"Oggi, 16 aprile 1485, è arrivata a Roma la notizia che è stato trovato in una fattoria a Santa Maria Nova, nella campagna vicino al Casale Rotondo, un cadavere sepolto un migliaio di anni fa.... I Conservatori di Roma mandarono a Santa Maria Nova una bara di ottima fattura ed un gruppo di uomini per il trasporto del corpo in città. Il corpo è stato esposto nel Palazzo dei Conservatori ed una grossa folla di cittadini e nobiluomini è accorso per vederlo. Il corpo sembra essere ricoperto da una sostanza gelatinosa, un miscuglio di mirra ed altre sostanze oleose, che attraggono sciami di api. Il citato corpo è intatto. I capelli sono lunghi e forti; le ciglia, gli occhi, il naso e le orecchie sono immacolate, al pari delle unghie. Sembra essere il corpo di una donna, di buona corporatura; la sua testa è coperta da una leggera cuffia intessuta con fili d’oro, molto bella. I denti sono bianchi e perfetti; la carne e la lingua hanno mantenuto il loro colore; se però si toglie la sostanza gelatinosa, la carne si annerisce in meno di un’ora. Si è cercato con attenzione nella tomba in cui è stato trovato il corpo, nella speranza di trovare l’epitaffio con il suo nome; deve essere stato quello di una persona illustre, perché solo una persona nobile e ricca poteva permettersi di essere sepolta in un sarcofago così costoso, ricoperta di preziosi unguenti". 
Da una lettera di messer Daniele da San Sebastiano, datata MCCCCLXXXV (1485):
"Durante gli scavi fatti sulla Via Appia per cercare pietre e marmi, sono state scoperte tre tombe di marmo in questi ultimi giorni, sepolte 3,60 metri sotto terra. Una era di Terenzia Tulliola, figlia di Cicerone; l’altra era priva di epitaffio. Una di loro conteneva il corpo di una giovane, intatto in tutte le sue membra, ricoperto dalla testa ai piedi da una sostanza aromatica, spessa 2,5 cm. Rimuovendo questo rivestimento, che crediamo fosse composto da mirra, incenso, aloe ed altre preziose sostanze, è comparso alla vista un volto, così bello, così affascinante che, sebbene la ragazza fosse morta da almeno 1500 anni, sembrava essere stata deposta proprio quel giorno. La spessa massa di capelli, riunita in uno nodo superiore, secondo l’antico uso, sembrava essere stata appena pettinata. Le palpebre potevano essere sollevata e richiuse; le orecchie ed il naso erano così ben conservati che, dopo essere state deformate leggermente, tornavano immediatamente al loro posto. Esercitando della pressione sulle guance il colore scompariva come in un corpo vivo. Si poteva vedere la lingua tra le labbra rosa; le articolazioni delle mani e dei piedi conservavano ancora la propria elasticità. L’intera Roma, uomini e donne fino al numero di ventimila, visitarono la meraviglia di Santa Maria Nova quel giorno. Mi preme rendervi edotti su questo evento, perché voglio che sappiate quanto gli antichi tenessero a preparare per l’immortalità non solo le loro anime ma anche i loro corpi. Sono certo che se aveste avuto il privilegio di presenziare a questo avvenimento, il vostro piacere sarebbe stato pari allo stupore". 
Da una lettera datata Roma, 16 Aprile del 1485, tra le carte di Schedel nel Codice 716 della Biblioteca di Monaco: 
"Conoscendo la vostra bramosia per le nuove notizie, vi mando quella di una scoperta appena fatta sulla via Appia, cinque miglia fuori dalla porta, in un luogo chiamato Statuario (lo stesso di S. Maria Nova). Alcuni operai intenti a ricercare pietre e marmi hanno scoperto una cassa marmorea di grande bellezza con un corpo femminile all’interno, con uno nodo di capelli dietro la testa, secondo una moda oggi in auge presso gli Ungheresi. Era coperta con una cuffia intessuta d’oro e legata con lacci d’oro. La cuffia e i lacci furono rubati al momento della scoperta insieme ad un anello che la ragazza indossava all’indice della mano sinistra. Gli occhi erano aperti ed il corpo conservava ancora una tale elasticità che la carne si ritirava se premuta, riprendendo immediatamente la forma precedente. Il corpo era estremamente bello; apparentemente era quello di una ragazza di circa 25 anni. Molti la identificano con Tulliola, figlia di Cicerone ed io sono pronto a crederlo perché ho visto, lì vicino, una lapide con il nome di Marco Tullio e perché è noto che Cicerone possedeva dei terreni nelle vicinanze. Ma non importa di chi fosse figlia, era certamente nobile e di famiglia ricca. Il corpo doveva il suo stato di conservazione ad un rivestimento oleoso spesso 5 cm, composto di mirra, balsamo e olio di cedro. La pelle era bianca, soffice e profumata. Le parole non possono descrivere il numero e l’eccitazione delle moltitudini di persone corse ad ammirare questa meraviglia. Per facilitare ciò, i Conservatori acconsentirono a che il corpo venisse trasportato sul Campidoglio. Sembrava quasi che si potesse guadagnare l’indulgenza e la remissione dei peccati salendo sul Colle, tanto grande era la folla, soprattutto di donne, accorsa all’esposizione. 
La cassa marmorea ancora non è stata trasportata in città, ma mi è stato riferito che sopra vi sono incise le seguenti parole:  
’Qui giace Giulia Prisca Seconda. Visse 26 anni ed un mese. Non ha avuto alcuna colpa, se non quella di morire' 
Sembra che inciso sulla stessa cassa sia scolpito anche un altro nome, quello di Claudio Ilaro, morto a 46 anni. Se dobbiamo credere alle voci che corrono, gli scopritori del corpo sono fuggiti portando con sé un grande tesoro".  
Ed ora lasciamo che il lettore guardi questa misteriosa ragazza. Il disegno che vedete rappresenta il suo corpo quando fu esposto nel Palazzo dei Conservatori ed è eseguito sulla base di uno schizzo originale nel Codice n° 1174 di Ashburnham. 
Celio Rodigino, Leandro Alberti, Alessandro di Alessandro e Corona ci forniscono altri interessanti particolari:— 
Gli scavi furono eseguiti dai monaci di Santa Maria Nova (l’odierna S. Francesca Romana) a 5 miglia dalla porta. La tomba si trovava sul lato sinistro, cioè orientale, della strada e si ergeva sopra il livello stradale. Il sarcofago era inserito nei muri di fondazione e il suo coperchio era sigillato con piombo fuso. Appena questo fu aperto i presenti avvertirono un intenso odore di mirra e trementina. Il corpo viene descritto come ben composto all’interno della cassa, con braccia e gambe ancora flessibili. I capelli erano biondi e tenuti insieme da una fascia (infula) intessuta d’oro. Il colore della pelle era del tutto roseo. Gli occhi e la bocca erano parzialmente aperti e se si tirava fuori la lingua con delicatezza, questa tornava al suo posto da sola. Durante i primi tre giorni di esposizione sul Campidoglio questa meravigliosa reliquia non diede alcun segno di decomposizione. Dopo un certo tempo, però, l’azione dell’aria iniziò a farsi sentire e la faccia e le mani diventarono nere. Sembra che la cassa sia stata posta sulla cisterna del Palazzo dei Conservatori per consentire alla folla di visitatori di girarvi intorno e di guardare la meraviglia con più facilità. Celio Rodigino dice che si notarono i primi segni di putrefazione al terzo giorno; egli attribuisce la decomposizione più alla rimozione del rivestimento protettivo che all’azione dell’aria. Alessandro di Alessandro dice che l’unguento che riempiva il fondo della cassa emanava un fresco profumo. 
Questi diversi racconti sono senza dubbio dettati dall’eccitazione del momento, tuttavia concordano tutti su molti dettagli della scoperta: sulla data, sul luogo della scoperta e sulla descrizione del cadavere.
Chi era dunque la ragazza di cui si era tentato di conservare i resti con estrema cura? 
Pomponio Leto, l’archeologo più insigne dell’epoca, espresse l’opinione che poteva trattarsi di Tulliola, figlia di Cicerone, o di Priscilla, moglie di Abascanto, la cui tomba sulla via Appia è descritta da Stazio (Sylv. V. i. 22). Entrambe le ipotesi sono errate. La prima è confutata dal fatto che il corpo era quello di una ragazza molto giovane, mentre sappiamo che Tulliola morì di parto all’età di 32 anni. Inoltre, non c’è alcun documento che provi che Cicerone possedesse una tomba di famiglia al sesto miglio della via Appia. La tomba di Priscilla, moglie di Abascanto, un liberto tenuto in grande considerazione da Domiziano, è ubicata da Stazio vicino al ponte sull’Almo (Fiume Almone, Acquataccio) quattro miglia e mezza più vicino alla porta di fronte alla Cappella del Domine quo vadis dove è stata ritrovata e scavata due volte: la prima nel 1773 da Amaduzzi, la seconda nel 1887, sotto la mia supervisione. L’unico indizio degno di nota è quello fornito dalla lettera di Pehem, oggi alla Biblioteca di Monaco, del 15 aprile, ma anche questo non porta alla soluzione. L’iscrizione che, si disse, citava il nome e l’età della ragazza, è del tutto vera e debitamente registrata nel "Corpus Inscriptionum", al n 20.634. 
E’ quella che segue:- 
D • M
IVLIA • L • L • PRISCA
VIX • ANN • XXVI • M • I • D • I •
Q • CLODIVS • HILARVS
VIX • ANN • XXXXVI
NIHIL • VNQVAM • PECCAVIT
NISI • QVOD • MORTVA • EST
 "Agli dei degli inferi. [qui giace] Giulia Prisca, liberta di Lucio Giulio, che visse 26 anni,un mese e un giorno; [e anche] Q. Clodio Ilaro, che visse 46 anni. Ella non commise nulla di sbagliato, eccetto morire". 
 Pehem, Malaguy, Fantaguzzi, Waelscapple e tutti gli altri affermano all’unisono che l’iscrizione fu trovata insieme al corpo il 16 aprile del 1485, ma sono tutti in errore. Era stata vista e copiata, almeno 22 anni prima, da Felice Feliciano di Verona, e può essere trovata nella collezione manoscritta di antichi epitaffi che egli dedicò ad Andrea Mantegna nel 1463. 
Il numero di iscrizioni spurie connesse arbitrariamente all’episodio del ritrovamento è notevole. Giorgio di Spalato (1484-1545) fornisce la seguente versione di quella appena riportata nei suoi diari manoscritti, oggi a Weimar: 
"Qui giace la mia unica figlia Tulliola, che non ha commesso alcun danno, eccetto morire. Marco Tullio Cicerone, il suo infelice padre, ha eretto questo memoriale" 
La povera ragazza, il cui nome e la cui condizione sociale non si conosceranno mai ed il cui corpo era sfuggito così miracolosamente alla distruzione per 1.200 anni, fu trattato in maniera ignominiosa dai suoi scopritori del 1485. Ci sono due versioni sulla sua ultima sorte. Secondo la prima, Papa Innocenzo VIII, per porre un freno all’eccitazione ed alle superstizioni dei cittadini, costrinse i Conservatori a trasportare di notte il corpo fuori dalla Porta Salaria ed a seppellirlo in gran segreto ai piedi delle mura della città. L’altra versione dice che fu gettata nel Tevere. Entrambe le ipotesi hanno lo stesso grado di probabilità. 
Com’è diverso il comportamento che abbiamo oggi di fronte a tali scoperte!"
C'è da aggiungere che questi riportati dal Lanciani non sono gli unici resoconti dell'accaduto, anzi ne esistono molti altri, qualcuno più fantasioso qualcun altro in linea con quelli citati. Lo stesso Lanciani mi sembra sbalordito ma propenda per ritenere vera la cosa anche se non azzarda alcuna spiegazione. E voi cosa ne pensate?

Fonte: https://www.facebook.com/media/set/?set=a.810695279051109&type=3

martedì 2 novembre 2021

SUL PERCHÈ GLI ITALIANI SONO ROMANI

SUL PERCHÈ GLI ITALIANI SONO ROMANI

Gli Italiani sono Romani per il semplice motivo che, molto probabilmente, senza Roma nè l'Italia nè gli Italiani sarebbero mai esistiti come Nazione e come popolo.
Intanto diciamo subito che l'Italia nasce dalla Guerra Italica combattuta dagli Italici contro Roma per ottenere la Cittadinana Romana che verrà estesa a tutta la Penisola fino al Rubicone... poi Ottaviano Augusto la estenderà fino alle Alpi dando vita all'Italia che ancora vediamo.
Ma molti dei popoli preistorici d,'Italia sarebbero probabilmente scomparsi senza Roma o comunque sarebbero stati sottomessi da popolazioni straniere che avrebbero quasi completamente occupato i territori che costituiscono oggi l'Italia come del resto accadrà mille anni dopo a seguito della caduta di Roma...
Pensiamo ai Cartagunesi che occupavano già buona parte della Sicilia Occidenrale e della Sardegna, agli Elleni che si erano insediati saldanenre lungo tutte le coste del Meridione e della Sicilia Orientale ed ai Celti che avevano già cacciato i Liguri e gli Etruschi dalla Pianura Padana calando verso sud fino al Piceno e giungendo lungo il corso del Tevere addirittura a saccheggiare Roma con i Galli Senoni di Brenno.
Fu Roma che ,alleata con gli Italici e parte degli Etruschi, riuscì a fermare l'avanzata di queste genti straniere liberando i territori da esse occupati in modo particolare con le Guerre Puniche.
Gli Italiani sono Romani per il semplice motivo che senza Roma non sarebbero mai esistiti come probabilmente senza Roma non ci sarebbe stato nessun Risorgimento...
Ed oggi più che mai solo compattandosi attorno alla Civiltà della Roma Repubblicana possono sperare di sconfiggere la barbarie che li sta soffocando...
Fonte: https://m.facebook.com/groups/294955221142611/permalink/887929351845192/

mercoledì 27 ottobre 2021

La danzatrice di Aquileia

Secondo la Treccani, l'ironia può avere lo scopo di deridere scherzosamente o anche in modo offensivo, di rimproverare bonariamente, di correggere, e può essere anche una constatazione dolorosa dei fatti, di una situazione; ci può essere perciò un’ironia bonaria, lieve, fine, sottile, arguta, faceta, o anche amara, fredda, beffarda, pungente, crudele.
Ma stamani mi sono imbattuto in un tipo di ironia che non conoscevo: una battuta, in occasione di una morte, battuta che non aveva alcuna intenzione di deridere, sia pure scherzosamente, la persona morta. Mi è parso un modo di accomiatarsi da un'amica, di dare un buffetto sulla guancia e di ricordare amorevolmente le capacità di quella persona esperta, in vita, di battute scherzose. 
E, allora, vi racconterò della mima Bassilla.
Dagli antichi autori sappiamo che il genere artistico del mimo comprendeva oltre alla recitazione (non sempre su testi, ma dando spazio all’improvvisazione) anche la musica e la danza, e che a chi interpretava il ruolo di attore o di attrice era richiesta una notevole gestualità facciale e corporea, in quanto recitava da muto, privo di quella maschera che, com’è noto, amplificava la voce.
Cosa si rappresentava? Per lo più scene di vita quotidiana con effetti grotteschi e di crudo realismo, o parodie di generi letterari più elevati. Un tipo di spettacolo che, se riusciva altamente gradito al popolo, non sempre raccoglieva i consensi di un pubblico più raffinato; tanto più che le mimae si attiravano anche l’accusa di essere di facili costumi.
Ma ecco la stele ha che attirato la mia attenzione: datata ai primi decenni del III secolo d. C. appartiene a Bassilla, mima e danzatrice di provenienza orientale, che viene ricordata da un’epigrafe in lingua greca dedicatale dall’archimimo e dai colleghi della compagnia teatrale dopo la sua morte, avvenuta nel teatro aquileiese nella prima metà del III secolo d.C..
L’epigrafe fa cenno alle sue abilità artistiche, esibite nei teatri di molte città tra cui Aquileia, abilità grazie alle quali si era meritata il titolo di “decima Musa”.
Il suo busto-ritratto scolpito a rilievo in un medaglione ovale la mostra con una pettinatura “ad elmo” tipica dell’epoca dei Severi e indossante chitone e peplo, da cui fuoriesce la mano destra con l’indice e il medio tesi nel gesto oratorio. 
Ed ecco il testo dell'epigrafe:

"Il bravissimo attore Eraclide donò questo monumento
a colei che in passato, in molti luoghi e in molte città, colse
sulla scena scroscianti applausi per il versatile talento nel
recitare e nel danzare,
e fu valentissima e squisita nel mimo,
a colei che spesso sulle scene morì, 
ma mai come questa volta:
alla mima Bassilla, decima Musa. 
Anche da morta essa ottenne un onore 
uguale a quello che godeva da viva 
poiché il suo corpo riposa in un suolo sacro alle Muse. 
I tuoi colleghi ti dicono:
"Stai di buon animo, Bassilla, nessuno è immortale!"

Per chi avesse interesse ad approfondire il tema degli spettacoli scenici in età tardoantica, consiglio vivamente il link sotto indicato.

https://www.google.com/url?sa=i&url=https%3A%2F%2Fedizionicafoscari.unive.it%2Fmedia%2Fpdf%2Fbooks%2F978-88-6969-390-8%2F978-88-6969-390-8-ch-16.pdf&psig=AOvVaw0JPls9QOZzc9YGDLqpet2V&ust=1635057026048000&source=images&cd=vfe&ved=0CAgQjRxqFwoTCJjpmZf03_MCFQAAAAAdAAAAABBP

Fonte: https://www.facebook.com/francottaviani.72

lunedì 13 settembre 2021

DRUSO MINORE 14 SETTEMBRE 23 d.C.

DRUSO MINORE 14 SETTEMBRE 23 d.C.
La brama di potere del prefetto del pretorio Lucio Elio Seiano lo portò ad avere una posizione preminente nella politica fatta di intrighi, il fine di queste trame era quello di essere designato erede dell'impero. Il potere di prefetto del pretorio divenne smisurato quando ebbe il comando di tutte le coorti presenti a Roma e nominando lui stesso i centurioni e i tribuni. Tuttavia la famiglia imperiale era ricca di possibili eredi e Druso minore era il successore diretto, c'erano poi i suoi due gemelli e i tre figli di Germanico, i quali ostacolavano l'ambizione del prefetto. Seiano decise quindi di iniziare con l'eliminazione del rivale più pericoloso: Druso. Questo odio reciproco con il figlio del Principe era alimentato anche da una recente disputa durante la quale Druso, dal temperamento impulsivo, aveva alzato i pugni contro Seiano e lo aveva colpito con uno schiaffo. Seiano, decise quindi di colpire Druso attraverso la moglie Livilla che fingendosene perdutamente innamorato, la portò all'adulterio e la mise contro il marito. Seiano riuscì inoltre ad avvicinarsi sempre di più a Tiberio, diventando il suo consigliere personale, e Druso si lamentava spesso della cosa col padre; inoltre ogni pensiero e confidenza dell'erede venivano diffusi dalla moglie, ormai caduta nel disonore. Seiano scelse di avvelenare Druso attraverso un veleno che avesse un effetto lento, in modo che sembrasse un malattia. Il veleno fu somministrato dal liberto Ligdo, uno degli schiavi preferiti di Druso, Druso morì il 14 settembre del 23 d.C. 
Cosi narra,Tacito, l'assassinio per avvelenamento di Druso Minore. 

Seiano, dunque, pensando che fosse il caso di affrettare l'attuazione del suo piano, scelse un veleno che, insinuandosi a poco a poco, desse l'apparenza di una malattia casuale. Come si seppe otto anni più tardi, il veleno fu propinato a Druso dall'eunuco Ligdo. Comunque, sia che non avesse timore di nulla, sia che volesse mostrare la fortezza dell'animo suo, Tiberio andò in Senato per tutti i giorni in cui durò la malattia e vi andò anche quando Druso era già morto, ma non ancora sepolto.

Igitur Seianus maturandum ratus deligit venenum, quo paulatim inrepente fortuitus morbus adsimularetur. id Druso datum per Lygdum spadonem, ut octo post annos cognitum est. ceterum Tiberius per omnes valitudinis eius dies, nullo metu an ut firmitudinem animi ostentaret, etiam defuncto necdum sepulto, curiam ingressus est.

Tacito, Annale, lib. IV, 8, 1-2.
Immagine: Busto di Druso, Museo del Louvre.

lunedì 2 agosto 2021

Dieci cose da ricordare sugli antichi romani

Dieci cose che bisognerebbe ricordare quando si parla di antichi romani:
1. I Romani non erano fascisti. Purtroppo ancora oggi c’è gente che li identifica con le patetiche macchiette divulgate dalla storiografia del ventennio, Dio patria e famiglia e via a conquistare il mondo a forza perché siamo una razza superiore. No. Roma era un civiltà complicata, multietnica e sofisticatissima. Roma era una città fondata fin dall’origine sull’accoglienza delle genti, e i romani erano curiosi verso il nuovo, tanto è vero che accettarono culti, abitudini e persone provenienti da ogni angolo del mondo allora conosciuto, mediando moltissimo su tradizioni e regole. Di gran parte delle sparate ideologiche di Mussolini avrebbero abbondantemente riso, e del resto se lui è durato vent’anni e loro millenni un motivo ci sarà. 
2. I Romani non amavano la guerra. La facevano quando ritenevano che servisse, altimenti non avevano nessun problema a pagare per ottenere la pace e a stringere accordi. Erano duttili, e non necessariamente pensavano che la forza fosse la migliore soluzione. Le legioni erano formate da professionisti, non da violenti che passavano la vita a menare le mani per divertimento. E il cuore dell’esercito romano era il genio militare, che spesso costruiva ponti e insediamenti e serviva in pace.
3. I romani non erano crudeli, o almeno non più degli altri popoli contemporanei. Gestire un impero non è un lavoro per mammolette e il mondo antico era duro e spietato, ma di norma i violenti e i sadici non erano particolarmente amati o rispettati, e il diritto romano aveva una chiara percezione dei limiti di crudeltà e di arbitrio. Erano gente pratica, e sapevano che alla fine la violenza gratuita è un cattivo affare.
4. I Romani non erano “machi” secondo i nostri standard sessuali. Ne avevano semplicemente altri. Alcuni tabù della nostra civiltà occidentale gli erano ignoti e pertanto la sessualità era praticata in modo diverso. Non avrebbero capito lo scandalo che alcune cose provocano in noi, come i rapporti con ragazzini e ragazzine molto giovani. Ma non avrebbero nemmeno capito molta delle nostra omofobia. I rapporti omosessuali non erano stigmatizzati, al massimo il cittadino romano non doveva avere un ruolo passivo nel rapporto. Ma poi, sostanzialmente, erano fatti suoi e rischiava tutt’al più qualche battutaccia. Lesbiche, travestiti e qualsiasi altra scelta erano semplicemente possibili declinazioni del tutto, e nessuno si scandalizzava più di tanto.
5. I romani erano ipocriti. Quando gli serviva. Soprattutto in politica. Si rimangiavano, come tutti, le parole date e cambiavano termini e condizioni a proprio vantaggio.I grandi ideali di onore e virtù erano slogan comodi da citare alla bisogna, ma poi erano lì per gestire il potere e lo facevano più o meno bene. Non erano miti, erano semplici esseri umani. 
6. I romani erano pratici. Adoravano risolvere problemi e cercare soluzioni. Spesso non capivano le sottigliezze anche se ne erano affascinati. Ma dopo un po’ si scocciavano e tagliavano dritto. Del resto quella roba del nodo di Gordio l’aveva inventata Alessandro ma loro l’hanno applicata benissimo. 
7. I romani non amavano forse l’ordine, ma odiavano le rotture di c0gli0n*. Per gestire una città e un impero un minimo di regole si devono garantire, e i fanatici di ogni tipo non erano amati. Le persecuzioni per i romani non sono religiose, sono semplicemente una questione di ordine pubblico. Venera chi ti pare ma non turbare la pubblica quiete e il mondo come l’ho disposto io.
8. I romani erano pitignosi. Sono il popolo che ha inventato il diritto, e tendevano a normare tutto con incredibile pignoleria. Chi li dipinge come simpatici scassamondo non ha capito una cippa di loro, del resto sono quelli che definiscono gli Americani di oggi “ingenui”, e non hanno mai letto un contratto USA. 
9. I romani erano comunque mediterranei, il che vuol dire che poi il gusto per la battuta, il saper godersi la vita e financo un po’ di sano stic@zzi lo praticavano con sommo piacere. Del resto a cosa serve essere i padroni dell’impero se non puoi essere un po’ sciallo quando serve? 
10. I romani erano “altro” da noi. Possono essere i nostri fratelli maggiori ma bisogna sempre rendersi conto che fra noi e loro c’è una distanza, alle volte siderale. Ci sarà sempre un leggero scivolamento che ci sfugge, anche se lo intuiamo. Del resto, è difficile capirsi con genitori e nonni, figuriamoci con gente che è vissuta duemila e passa anni fa.

Fonte:
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lunedì 28 giugno 2021

Battaglia del Lago Trasimeno

24 giugno 217 a.C. Battaglia del Lago Trasimeno. Annibale Barca, Comandante Supremo dell'esercito cartaginese, sconfigge pesantemente l'esercito romano di Gaio Flaminio presso il Lago Trasimeno. La mattina del 24 giugno si fronteggiarono, presso il Lago Trasimeno (Umbria), l'esercito cartaginese guidato da Annibale Barca e quello romano del Console Gaio Flaminio Nepote. La battaglia evidenzió il genio militare, tattico e strategico di Annibale Barca, ancora oggi ritenuto, a ragione, tra i più grandi generali, se non il più grande, dell'antichità. La battaglia del Trasimeno si inserisce nel contesto più ampio della II Guerra Punica (218 - 204 a.C.), iniziata con l'assedio cartaginese di Sagunto e terminata a Zama con la vittoria finale romana. Annibale fu senza dubbio il protagonista indiscusso del secondo conflitto romano-punico e la battaglia del Trasimeno ne consacrò, già ai suoi tempi, la fama di grandissimo general ritenuto imbattibile sul campo aperto. Condottiero di esperienza, astuto e colto, sin da giovane al seguito del padre Amilcare nelle campagne militari di Spagna e nel corso della Prima Guerra Punica, Annibale, ottenuto il comando supremo dell'esercito cartaginese a ventiquattro anni, comprese che l'unica soluzione per sconfiggere Roma fosse attaccarla sul suo territorio, entro i suoi confini ("portarle la guerra in casa"), ben conscio delle precedenti sconfitte subite dal padre. Ottenuto il consenso dei membri del Consiglio cartaginese, Annibale, al comando di un esercito di mercenari africani, iberici, celtiberi, che contava anche trentatré elefanti, partì dai possedimenti cartaginesi di Iberia, passó i Pirenei, giunse in Gallia e, dopo aver valicato le Alpi (impresa eccezionale per l'epoca), raggiunse la Valle Padana (ad ingrossare le fila dell'esercito si erano aggiunti nel frattempo alleati Galli, specialmente Boi e Insubri). Dopo aver ottenuto le prime importanti vittorie sui romani presso i fiumi Ticino e Trebbia (vicino Piacenza) nel 218 a.C., Annibale si diresse verso l'Etruria, giungendo a Fiesole nella primavera del 217. Obiettivo primario di Annibale era sollevare le popolazioni italiche contro Roma, procurandosi il loro sostengo, isolando così l'Urbe e obbligandola alla resa. La sua strategia prevedeva, quindi, di attaccare il console Gaio Flaminio Nepote, al comando di due legioni (venticinquemila uomini), cui spettava il controllo dei passi dell'Etruria, prima che potesse unirsi con le legioni del console Gneo Servilio Gemino. Il Barcide dapprima mise a ferro e fuoco i territori etruschi spingendo Flaminio a inseguirlo per evitare che raggiungesse direttamente Roma senza essere ostacolato. Annibale colse quindi l'occasione per attirare Flaminio in uno stretto passo, direzione Via Flaminia, che si trovava tra i Monti di Cortona e le sponde nord occidentali del Lago Trasimeno; non molto distante dal lago, su un colle che tagliava obliquamente il passo, sul finire della via, Annibale fece costruire un accampamento, ben visibile dai nemici, dove collocò la fanteria pesante Iberica e Libica (tra le quindicimila e le diciottomila unità), posizionò invece sull'arco collinare a occidente del passo le truppe di fanteria celtica (circa quindicimila uomini) e la cavalleria (seimila unità), fra i Celti e la fanteria pesante, ben nascoste tra la fitta vegetazione e la boscaglia. A sud-est dell'accampamento della fanteria pesante Annibale posizionò invece i reparti di fanteria leggere e i frombolieri delle Baleari (ottomila uomini) ben nascosti alla vista nel territorio collinare a occidente del passo, di modo che al segnale del generale cartaginese, potessero chiudere la via di fuga ai romani lungo le sponde del Trasimeno. Scopo di Annibale era chiudere i romani in una morsa, sfruttando il territorio, il fattore sorpresa e le capacità militari dei suoi reparti: non appena le legioni di Flaminio fossero entrate nel vallone attraverso lo stretto passo, sarebbero state attaccate di sorpresa sui fianchi, i soldati romani accerchiati tra le colline e il lago, mentre la fanteria pesante cartaginese, nerbo dell'esercito, avrebbe attaccato il centro dello schieramento nemico. La mattina del 24 giugno i romani si inoltrarono nella valle tra le colline e il lago, nella direzione dell'accampamento di Annibale, l'unico visibile. La nebbia che quel giorno ricoprì l'area fu un ulteriore fattore naturale a vantaggio del Barcide. Una volta che l'esercito di Flaminio penetrò completamente nella valle, con alle spalle il lago, Annibale diede il segnale alle truppe nascoste di attaccare contemporaneamente: i fanti celtici e i cavalieri attaccarono il fianco sinistro dell'esercito romano, spingendo i soldati nemici verso il lago, mentre la fanteria leggera e i frombolieri, aggirando il colle dietro il canale erano nascosti, chiusero la via di fuga ai romani attaccando di sorpresa il fianco destro dell'esercito dopo aver effettuato una convergenza a nord. Annibale attacco frontalmente con la fanteria pesante. Accerchiati e colti di sorpresa, i romani soccombettero sotto i colpi dei Cartaginesi o morirono annegati nel lago nel tentativo di sfuggire alla morsa mortale del Barca. Stessa sorte toccava a Flaminio, ucciso sul campo dalla cavalleria celtica. Furono circa quindicimila le perdite subite dai romani, diecimila circa i soldati fatti prigionieri, seimila soltanto riuscirono a scampare al massacro; dal lato cartaginese furono invece minime (tra i millecinquecento e i duemilacinquecento). Queste stime ci sono state consegnate dagli storici d'età classica Tito Livio e Polibio, attenti studiosi dei fatti, precisi nel descrivere le battaglie combattute da Roma nel corso delle Guerre Puniche (nonostante l'ottica filoromana preponderante). La pesante disfatta, la morte di Flaminio, la distanza delle due legioni di Servilio da Roma, la paura e la preoccupazione dilaganti nell'Urbe per l'eventualità di un attacco prossimo, spinsero i comizi curiati a nominare dittatore Quinto Fabio Massimo, che sarà detto il Temporeggiatore (il "Cunctator") per la strategia tesa a prendere tempo attaccando Annibale con azioni di disturbo, guerriglia e piccoli agguati, che tuttavia non servì ad evitare la più grande sconfitta subita dalla Res Publica a Canne, l'anno successivo, nel 216, contro un Annibale ormai alle porte di Roma.
(Nicolò Maggio)
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domenica 27 giugno 2021

La Suburra

Sinonimo di quartiere malfamato. la Suburra era il cuore della Roma malfamata, ma tollerata dal potere, era soprattutto il cuore dell’altra Roma, quella dei bordelli e delle bettole poco raccomandabili, tollerate dal potere e dai ricchi. 
Alla libidine atroce; ogni strada era suburra”. UN QUARTIERE POCO RACCOMANDABILE: tra le sue strade strette, sporche e rumorose a partire dal III secolo a. C. si svolgeva la vita quotidiana della Roma popolare abitata da teatranti, gladiatori e cortigiane. Di tutti i quartieri popolari di Roma, Suburra era il più malfamato e il più pericoloso: qui si trovavano le bettole più malfamate, rifugio di prostitute, ladri e ogni genere di fuorilegge. Dopo il tramonto, camminare tra le sue strade era una sfida al destino: i delitti erano all’ordine del giorno e chi era costretto ad attraversare il quartiere lo faceva scortato da schiavi armati e muniti di fiaccole. Anche per questo, e per proteggersi dai ripetuti incendi della Suburra, i ricchi romani al potere si erano limitati a far erigere un muro attorno al quartiere, ottenendo l’effetto di accentuare il dislivello tra Roma e Suburra, la cui etimologia - secondo alcuni - rimanderebbe proprio alla posizione “sub vrbe”, cioè più bassa rispetto a quella della città. Ma come tutti i luoghi popolari, anche la Suburra ebbe le sue celebrità: vi nacquero Giulio Cesare (100 a. C. - 44 a. C.) e il poeta Marziale (40-104). A LUCI ROSSE: ma Suburra era soprattutto il cuore dell’altra Roma, quella dei bordelli e delle bettole poco raccomandabili, tollerate dal potere e dai ricchi che nel quartiere a luci rosse si recavano per soddisfare la propria lussuria. Le visite di Valeria Messalina (25-48), moglie dell’imperatore Claudio, erano proverbiali. Raccontano i biografi Svetonio e Tacito che si travestiva da prostituta (bastava togliersi la stola delle matrone e indossare una parrucca rossa) per recarsi nel quartiere, dove si concedeva a ripetizione. Durante le sue uscite hard in incognito usava un nome fittizio: Lisisca, ovvero “donna-cagna”. Si racconta che si presentasse nei bordelli con i capezzoli dorati, con il trucco pesante caratteristico delle prostitute, per offrirsi a marinai e gladiatori. Nerone (37-68), invece, vi si recava travestito da poveraccio per saggiare gli umori del popolo sul suo governo (al tempo non esistevano i sondaggi). SUBURRA OGGI: l’anima popolare del quartiere Monti, dove ancora esiste Piazza Suburra, ha resistito nei secoli, per tutto il Medioevo e il Rinascimento, fino al restyling di Roma di fine ottocento, successivo alla Breccia di Porta Pia. Ma dove Papi, invasori e architetti si sono arresi, è arrivata la gentrificazione (rasformazione di un quartiere popolare in zona abitativa di pregio), con conseguente cambiamento della composizione sociale e dei prezzi delle abitazioni, che ha fatto della vecchia Subura romana un luogo alla moda, anche per la sua posizione centrale. Dell’antica Suburra ormai resta solo il valore nominale di “insieme dei quartieri più malfamati di qualsiasi grande città”, che ne ha anche fatto il titolo di un libro sulla Roma criminale, da cui sono nati un film e la serie tv di Netflix. 

giovedì 24 giugno 2021

LE VESTALI, GRANDISSIMI ONORI MA ANCHE GRANDI RESPONSABILITA’

LE VESTALI, GRANDISSIMI ONORI MA ANCHE GRANDI RESPONSABILITA’
Le Vestali erano delle sacerdotesse consacrate alla dea Vesta che avevano come compito principale quello di mantenere sempre vivo il fuoco all’interno del tempio di Vesta nel Foro Romano. Quel fuoco aveva un particolare valore simbolico per Roma perché ne rappresentava la vita e la forza e in quanto tale non doveva spegnersi mai. Inoltre le Vestali erano anche incaricate di preparare gli ingredienti per i sacrifici pubblici o privati. Uno di questi, chiamato mola salsa, a base di farro, veniva utilizzato per cospargere il corpo della vittima e sembra che abbia dato origine al verbo immolare che per l’appunto ha il significato di “ricoprire con salsa mola”. 
Le Vestali erano sei, il loro incarico durava trent’anni e venivano scelte ancora bambine (fra i 6 e i 10 anni) fra le famiglie patrizie. Trent’anni di vita dedicati a Vesta, i primi dieci dei quali venivano considerate novizie, i secondi dieci si dedicavano al culto vero e proprio e l’ultimo decennio lo passavano istruendo le novizie. La vita delle vestali si svolgeva nell’Atrium Vestae, all’interno del Foro Romano (ancora oggi visitabile), accanto al tempio di Vesta. Una sorta di convento dove trascorrevano la loro esistenza in modo indipendente e mantenute a spese dello stato. 
Diventare una vestale era un grandissimo onore: esse infatti erano le uniche donne romane che potevano fare testamento, venivano affrancate dalla patria potestà al momento dell’ingresso nel Collegio, erano fra le poche persone che potevano usare un carro per spostarsi da una parte all’altra della città (gli altri erano costretti a camminare), sedevano nelle prime file del Colosseo, i magistrati lasciavano loro il passo e facevano abbassare i fasci consolari al loro passaggio in segno di rispetto. Inoltre se casualmente incontravano un condannato a morte ne potevano richiedere la grazia. In cambio di tutti questi privilegi si richiedeva di mantenere sempre acceso il fuoco di Vesta e di rimanere vergini per tutto il periodo dei trent’anni. La vestale infatti che avesse causato lo spegnimento del fuoco o che avesse avuto una relazione sessuale durante i trent’anni di servizio veniva condannata a morte. Una morte atroce: dal momento che era una sacerdotessa sacra alla dea Vesta non poteva essere toccata per essere uccisa e quindi veniva seppellita viva. Il rituale prevedeva la fustigazione e poi il trasporto vestita di abiti funebri in un luogo di Roma chiamato per questo motivo Campus Sceleratus, sul Quirinale. Lì veniva rinchiusa in una piccola stanza con un letto, un po’ di pane, acqua, olio e latte. Il sepolcro veniva chiuso e della vestale (che moriva di inedia) se ne perdevano il ricordo e la memoria.
🟦fonte: Mauro Poma. Alla scoperta del Colosseo. Tra mito e realtà. Edizioni Helicon
📌Potete acquistare il libro al link https://amzn.to/3nOImQx
🟨foto: vestale romana
✅@Romarteblog
Fonte: https://www.facebook.com/561898977292707/posts/1936168023199122/

lunedì 14 giugno 2021

TUNICA MOLESTA esecuzione capitale in uso a Roma

Tunica Molesta: una rara esecuzione capitale in uso a Roma
The Tunica molesta: Roman Execution Ad Flammas, è il titolo di una ricerca effettuata da una docente dell'Oregon, Mary Harrsch, su un tipo di esecuzione capitale adottata a Roma in alcune occasioni particolari, una delle quali decisa dall'imperatore Commodo. In effetti era una esecuzione pubblica di grande impatto emotivo per le sofferenze atroci dei condannati che morivano fra le fiamme, come torce umane. Uno dei primi esempi di condanna ad flammas pare sia da addebitare a Nerone, di cui il pittore Siemiradski nell'800 dette una interpretazione in un quadro rimasto famoso per il crudo realismo che emana la tela.
Ho ritenuto opportuno analizzare questo saggio della prof. Mary Harrsch, già docente di storia antica presso l’Università dell’Oregon, più che per la novità dell’argomento, essendo stato stato preceduto di qualche anno da un saggio della prof. Eva Cantarella, quanto piuttosto per la singolare coincidenza per cui due donne abbiano mostrato interesse per un argomento alquanto penoso, quello relativo ai supplizi che in passato venivano inflitti ai colpevoli di vari crimini.
Questo descritto dalla Harrsch è senza dubbio un supplizio atroce, se si pensi che i condannati venivano portati su di una piattaforma su cui erano pronti dei pali ai quali essi erano legati. Ma l’aspetto più crudele era la preparazione del loro indumento, una tunica, appunto, impregnata di pece alla quale gli esecutori davano fuoco ad un segnale del capo, che poteva essere l’imperatore in persona o un incaricato del governo.
Da notare che la Harrsch come documentazione si serve di alcuni autori non molto noti in Italia, fra questi Alan Baker, autore del saggio storico “The Gladiator (Il Gladiatore), The Secret History of Rome’s Warrior Slaves (La Storia Segreta degli Schiavi Guerrieri di Roma). La pagina del testo che descrive nei minimi dettagli tutta la successione delle scene, dal momento in cui 4 condannati vengono portati sulla piattaforma e legati ciascuno ad un palo, con la scena in cui essi iniziano ad ardere come rami secchi a causa della pece che gli aguzzini hanno usato per impregnare le loro tuniche, le urla di terrore che gelano il sangue degli spettatori assiepati intorno al palco sacrificale, e man mano lo strazio di quei poveri corpi che vengono dilaniati dalle fiamme e frantumati lentamente.
Tutta la descrizione in effetti ha molti punti in comune con un film del genere horror, tanto che la Harrsch prudentemente avverte i lettori di astenersi dalla lettura in considerazione della crudeltà estrema delle scene.
Tuttavia non può fare a meno di sottolineare che nel mondo antico vi sono molteplici esempi di descrizioni del genere, soprattutto se si passa in rassegna l’ampia casistica delle opere del teatro tragico, ma anche le opere che appartengono alla vasta produzione della ceramica Attica, che possono inserirsi benissimo nel filone realistico del mondo mitologico Greco.
E proprio uno di questi vasi a fondo nero, tipico della ceramica Attica, viene allegato dalla Harrsch quale esempio di scena di alta drammaticità, dove i personaggi sono Eracle, Nesso e Deianira. La scena è chiaramente tratta dalle storie di Apollodoro, Libro 2.7.7
Ma anche dando uno sguardo alle Leggi delle XII Tavole, uno dei primi esempi di legislazione arcaica Romana, troviamo dei riferimenti di punizione applicata con il fuoco a chi fosse giudicato colpevole di tradimento o incendio doloso. In questo caso non si può fare a meno di rievocare la vecchia e antichissima legge del taglione, quella “dell’occhio per occhio, dente per dente” che il Vangelo bolla come espressione di crudeltà.
Altro testo citato dalla Harrsch come fonte della sua indagine è “Spectacles of Death in Ancient Rome” (Spettacoli di morte nell’antica Roma) di Donald G. Kyle, anche questo noto soprattutto fra gli studiosi del N. America.
Ma particolarmente interessante per i giudizi motivati espressi dall’autore è l’opera di E. M. Coleman, Fatal Charades: Roman Executions as Mythological Enactments (Sciarade fatali: Le esecuzioni capitali Romane come realizzazioni mitologiche). Coleman, afferma la Harrsch, ha messo in risalto il fatto che le esecuzioni capitali ad bestias, cioè quelle in cui i condannati erano dati in pasto alle bestie feroci, erano quelle che godevano il favore delle folle; tuttavia acquistare le bestie era molto costoso e inoltre c’era sempre un certp grado di incertezza circa la volontà delle bestie di “svolgere il loro compito”. La morte per crocifissione, d’altra parte, di solito era troppo lenta, impiegandoci ore e persino gioni interi. Ecco perché la tunica molesta
potrebbe essere stato un metodo di esecuzione che consentiva un certo grado di divertimento a un costo relativamente modesto con un risultato garantito.
Coleman, sostiene la Harrsch, che le cosidette “sciarade fatali” svaniscono dopo la dinastia dei Severi, ma le esecuzioni sul rogo sicuramente continuarono. Per ironia della sorte, fu un imperatore cristiano, Giustiniano, che ratificò i decreti dei suoi predecessori Arcadio e Onorio. Il rogo fu ritenuto anche la punizione appropriata per i Zoorastriani nell’impero Bizantino a causa del loro culto del fuoco.
Chiudo questa mia carrellata con un riferimento ad un’ opera che ho già recensito alcuni mesi fa, ossia I supplizi capitali” di Eva Cantarella, saggio di ben altro spessore e ricchezza di documenti, la cui lettura potrà validamente integrare questo dignitoso saggio della Harrsch.
Fonte: Civiltà Romana

venerdì 14 maggio 2021

I ponti romani

PONTI ROMANI

Gli etruschi, prima dei Romani, conobbero il segreto della costruzione dell'arco, con cui si potevano fare porte cittadine, acquedotti ma soprattutto ponti. L'arte di costruire ponti era sacra da cui il termine Pontifex, facitore di ponti, da cui l'attuale termine cattolico Pontefice; se poi si trattava del mastro costruttore, si chiamò in epoca romana il Pontifex Maximus, la massima carica sacerdotale pagana da cui abbiamo tratto il Sommo Pontefice.
Roma fu del resto costruita nell'unico punto in cui era possibile unire con un ponte (il Ponte Sublicio) le due sponde del basso Tevere, un ponte facile da proteggere militarmente, e da qui dominava tutto il traffico fra l'Etruria e l'Italia meridionale. L'arte di costruire i ponti fu dunque etrusca ma ben presto divenne romana.
Ma solo quando l'Urbe riuscì ad avere il controllo della riva sinistra venne costruito questo ponte, il primo della città, per volere di re Anco Marzio, appunto presso il guado del Tevere. Il Pons Sublicius (dal termine volsco sublica, tavola di legno) venne infatti eseguito interamente in legno per poter essere facilmente demolito in caso di attacco nemico.
E' il più antico ponte di Roma, realizzato in legno al tempo di Tullio Ostillio (.. - 641 a.c.) e terminato da Anco Marzio, (675 a.c. - 616 a.c.) secondo Tito Livio e Dionigi di Alicarnasso. Un'altra versione narra che venne eretto da popolazioni abitanti la sponda destra del Tevere molti anni prima della presunta nascita di Roma, restaurato una prima volta da Ercole in persona ed una seconda nel 614 a.c. sotto il regno di Anco Marzio.
In quanto alla tecnica si usava anzitutto deviare il corso del fiume attraverso canali e chiuse, di cui gli Etruschi avevano già la massima esperienza, quindi si scavava e si ponevano fondamenta e pilastri. Su questo veniva poggiata un'incastellatura di legno ad arco, su cui venivano poste le pietre già rastremate a scalpello.

Per ultimo si poneva il cuneo, la pietra rastremata più grande di tutte che veniva inserita al centro esatto dell'arco, dopodiché l'incastellatura di legno poteva essere tolta e usata altrove. Il cuneo diventava così la chiave di volta e il peso dei muri si scaricava lungo i montanti permettendo all'arco di sopportare carichi enormi.

La principale preoccupazione dei Romani nella scelta del luogo dove costruire il ponte fu soprattutto di avere abbondante roccia a disposizione su cui fondare le spalle dei ponti ad evitare che piene o alluvioni potessero danneggiarli.
Poi si prevedeva la temporanea deviazione del corso d’acqua tramite un sistema di palizzate e dighe. Si procedeva, quindi, allo scavo per raggiungere il massiccio roccioso su cui fondare i piloni del futuro ponte. Dopodiché si alzava una struttura lignea dotata di una sagoma semicircolare; su di essa venivano appoggiati i conci, pietre squadrate con un opportuno taglio trapezoidale.
Secondariamente, i ponti non venivano edificati dagli schiavi, perchè alla fine risultava più oneroso che non stipendiare liberi operai i quali non avevano bisogno di guardie per essere costretti al lavoro.
Gli unici accidenti che potevano distruggere un ponte romano riguardavano assestamenti imprevisti del terreno, terremoti o eventi bellici. La guerra, infatti, a volte, comportava la necessità di distruggere un ponte onde tagliare la strada al nemico invasore.
Ma ciò che gli ingegneri romani non dimenticavano era pure ciò che rappresentavano nelle loro opere, e cioè Roma, che doveva quindi rappresentare il massimo della bravura, efficacia, bellezza, forza e opulenza, insomma ciò che doveva stupire il mondo, e ci riuscirono in pieno.

https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=4085089361577456&id=100002292974997

giovedì 13 maggio 2021

La tragica storia di Giulia Livilla

𝐋𝐀 𝐓𝐑𝐀𝐆𝐈𝐂𝐀 𝐒𝐓𝐎𝐑𝐈𝐀 𝐃𝐈 𝐆𝐈𝐔𝐋𝐈𝐀 𝐋𝐈𝐕𝐈𝐋𝐋𝐀.
𝐃𝐢 𝐀𝐧𝐝𝐫𝐞𝐚 𝐂𝐨𝐧𝐭𝐨𝐫𝐧𝐢.
Prendo in prestito il celebre dipinto di John William Godward per parlarvi di Giulia Livilla, la bella e sfortunata ultima figlia del grande Germanico. Purtroppo la numerosa progenie del vendicatore di Teutoburgo non ebbe un fato favorevole. I primi due nati, Nerone Cesare e Druso Cesare finirono in disgrazia sotto Tiberio. Caligola, divenuto imperatore, cadde per mano dei pretoriani. Giulia Drusilla se ne andò di malattia a soli 21 anni. Agrippina Minore, madre di Nerone, fu eliminata dal figlio. Infine abbiamo Giulia Livilla. Lei nacque nel 18, un anno prima della tragica fine del padre, morto ad Antiochia nel 19. Fu educata a corte sotto Tiberio. Per uno strano gioco del destino finì promessa sposa a Publio Quintilio Varo, figlio dell'omonimo genitore sconfitto a Teutoburgo. Due delle tre aquile legionarie perse nella famosa imboscata erano state recuperate proprio da Germanico. Il matrimonio sfumò e la bella fanciulla sposò nel 33 l'equestre Marco Vinicio, un valido amministratore, molto attivo sotto Tiberio. La vita di Livilla cambiò con l'ascesa alla porpora imperiale del fratello Caligola. Le tre sorelle furono infatti accolte a corte con tutti gli onori. Svetonio narra di notti brave segnate da rapporti incestuosi e di una condotta di vita dissoluta e senza regole. Questo sembrerebbe in contrasto con l'opposizione che Livilla dimostrò nei confronti della politica del fratello. Già nel 39, appena due anni dopo l'insediamento di Caligola, Livilla ed Agrippina tentarono di spodestarlo, favorendo il cognato Marco Emilio Lepido, marito di Drusilla, (morta appena un anno prima), e amante di entrambe le sorelle. Ma una volta scoperte nell'intento criminale, Caligola non ebbe il coraggio di eliminarle. Giulia e Agrippina furono esiliate. Nel 41, tolto di mezzo Caligola, le due rientrarono a Roma, accolte da Claudio. Livilla entrò in contatto con Seneca, filosofo nel pieno della maturità. Tra i due nacque una passione. L'irrequieta imperatrice Messalina sfruttò l'occasione per liberarsi di una presenza che la infastidiva. Gelosa dell'avvenenza di Livilla e temendo quell'alleanza tra un uomo colto e una donna di fine intelletto, gridò all'adulterio. Claudio non volle entrare in contrasto con la bella e fumantina consorte. I due presunti amanti furono così esiliati; Seneca in Corsica, Livilla a Pandateria (Ventotene) dove fu lasciata morire di fame. Livilla aveva 23 anni. Se ne andava nell'inedia una donna spregiudicata nei giochi di corte ma determinata e di grande intelligenza. Dopo un matrimonio imposto e una relazione di comodo, probabilmente pagò con la vita il primo vero amore della sua breve ma intensa esistenza.

▪ "The quiet pet " di John William Godward (1906).
▪ "Le donne che fecero l'Impero" di Marisa Ranieri Panetta. Salerno Ed. (2020).
▪ "Storia Romana" di G. Geraci e A. Marcone. Mondadori.

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martedì 11 maggio 2021

Quinto Sertorio

𝐒𝐄𝐑𝐓𝐎𝐑𝐈𝐎 𝐈𝐋 𝐅𝐔𝐎𝐑𝐈𝐋𝐄𝐆𝐆𝐄!
𝐃𝐢 𝐀𝐧𝐝𝐫𝐞𝐚 𝐂𝐨𝐧𝐭𝐨𝐫𝐧𝐢.
Grande condottiero o avido avventuriero? Quinto Sertorio ha da sempre suscitato pareri discordanti. Se Sallustio e Plutarco lo ammirano, Aulo Gellio lo definisce un illustre e astuto comandante propenso all'imbroglio e alla menzogna. Di origini sabine, Sertorio, nato nel 126 a.C., era figlio di una cugina di Gaio Mario. Affascinato dal celebre parente, studiò da giurista e da oratore per poi arruolarsi nell'esercito. Prese parte alla tragica Battaglia di Arausio (105 a.C.) contro Cimbri e Teutoni, distinguendosi per coraggio, sia in combattimento che nella rocambolesca ritirata in seguito alla disfatta dell'esercito romano. Tre anni dopo nel 102 a.C. era al fianco di Mario nello scontro di Aquae Sextiae; roboante fu la vittoria su Teutoni e Ambroni. Nei successivi 19 anni, Sertorio fu molto attivo in politica, guadagnando cariche e onori. Nel duro confronto tra Mario e Silla, si schierò dalla parte dei sostenitori "populares" del primo. Con la morte di Mario e la definitiva vittoria di Silla, Sertorio fuggì in Spagna (83 a.C.), amministrandola in virtù del suo precedente mandato proconsolare. Nel confronto con le legioni sillane, Sertorio perse a tradimento il fidato Salinatore che difendeva il confine naturale dei Pirenei. Riparò in Mauritania per poi tornare a combattere sul suolo spagnolo, accolto con estremo favore dalle tante popolazioni locali. Per anni, applicando tattiche e strategie della "moderna" guerriglia, tenne in scacco le legioni di Q. Cecilio Metello Pio e di Gneo Pompeo Magno. Spirò nel 72 a.C., probabilmente avvelenato in un banchetto dal suo alleato Marco Perperna Vento. Fiero di aver perso un occhio in combattimento, abile stratega e grandissimo diplomatico, Sertorio contò sull'appoggio delle tribù iberiche, da sempre poco propense alla dominazione romana. Nelle terre da lui amministrate, tentò di importare il modello "Roma" grazie alla formazione di un senato, all'apertura di scuole di retorica e alla costruzione di strade. Gellio ci racconta però, con spirito polemico, un aneddoto legato alla sua figura. Si dice che egli avesse allevato fin da piccolo un cervo bianco, dono di un lusitano. L'animale era considerato sacro a Diana. Sertorio avrebbe sfruttato l'opportunità per far credere ai locali di essere aiutato e consigliato direttamente dalla dea. In tal modo, ribadisce Aulo Gellio, riuscì a far approvare anche le decisioni più dure e impopolari. Andando oltre le critiche, Sertorio era molto rispettato dalle genti iberiche. Ancora oggi in Spagna è considerato una sorta di eroe nazionale. Può essere, a ragione, annoverato tra i migliori condottieri romani di tutti i tempi. Forse da noi non gode di un buon riscontro, pagando lo status di ribelle. Eppure Sertorio non si considerò mai un nemico della Res Publica...

▪️ "Storia romana", G. Geraci e A. Marcone. Le Monnier.
▪️ "Fonti per la Storia romana", G. Geraci e A. Marcone. Le Monnier.
▪️ "I grandi generali di Roma Antica", A. Frediani. Newton & Compton.

#IlSapereStorico #QuintoSertorio #StoriadiRoma #StoriaRomana #Roma #PompeoMagno #CecilioMetello #MarioeSilla

venerdì 7 maggio 2021

Gli spettacoli al circo e all' anfiteatro

GLI SPETTACOLI AL CIRCO E ALL’ANFITEATRO
Nonostante le diversità tra i vari tipi, tutti gli spettacoli – siano il circo o l’anfiteatro – sono accomunati da diversi elementi.
Gli spettacoli sono quasi sempre diurni: solo in qualche occasione, nel circo vengono organizzati spettacoli notturni, alla luce delle fiaccole e delle torce. La durata degli spettacoli, pur variando a seconda delle circostanze, del genere e del luogo, è quasi sempre abbastanza lunga, e inizia, in un ordine abbastanza  consuetudinario, a partire dal mattino, quando si tengono solitamente le “venationes”, ossia le cacce. Segue una un’interruzione a ora di pranzo, quando gli spettatori consumano, sempre in loco, cibi e bevande portate da casa, acquistate nelle bancarelle che si trovano lì vicino oppure, come a volte accade, distribuite gratuitamente dall’imperatore o dal personaggio che ha organizzato la manifestazione. Seguono nel pomeriggio gli spettacoli più attesi, i “munera gladiatoria”, ossia i combattimenti dei gladiatori.
L’accesso al circo e all’anfiteatro è generalmente gratuito per il popolo, a cui sono riservati i posti sulle gradinate più alte della “cavea” e il loggione. I posti più vicini all’area sono invece riservati alle autorità, ai sacerdoti e alle famiglie delle corporazioni di arti e mestieri più importanti. 
Ogni spettacolo rappresenta un’occasione di ritrovo mondano Con grande gioia delle signore che al circo e all’anfiteatro come al teatro vanno anche per sfoggiare vestiti, pettinature, gioielli, ancelle, e che, insomma, si recano ad uno spettacolo, come osservava Ovidio, «per vedere e per farsi vedere». A costo di far debiti o di sperperare il patrimonio, come ci fa sapere Giovenale: «Per poter vedere i giochi, Ogulnia prende a nolo la veste, prende a nolo una scorta, la lettiga, il cuscino, le amiche, una nutrice e una ragazzina bionda a cui oggi dare commissioni. Ma poi deve dare tutto ciò che le rimane dell’argento paterno e l’ultimo vasellame della casa agli unti atleti». 

🟨fonte: Romolo Staccioli – Una giornata nell’antica Roma
✅@romarteblog
#roma #colosseo #Gladiators #Gladiatori

Le Forche Gaudine

(Il più improbabile scenario delle versioni sul luogo
 delle Forche Caudine)

Nel 341 a.C., dopo la fine della prima guerra Sannitica, i Sanniti ottennero la pace dai Romani, impegnandosi però a rimanere neutrali nelle interminabili guerre che vedevano Roma opposta alle bellicose popolazioni vicine. Tuttavia nel 327 a.C., i Sanniti ruppero tali accordi appoggiando gli abitanti di Palepoli (Napoli), assediati dai Romani, e dopo una serie di scontri armati vennero ancora una volta battuti definitivamente nel 322 a.C., accettando di conseguenza umilianti condizioni di pace, che prevedevano tra le altre cose la consegna del fomentatore della rivolta Brutulo Papio, poi suicidatosi, e la consegna di tutti i prigionieri.

I Sanniti speravano così di riguadagnarsi lo status di alleato, ma i Romani non fidandosi più di loro rifiutarono decisamente. Nel 321 a.C., la situazione declinò, a Roma vennero eletti consoli Tiberio Veturio Calvino e Spurio Postumio Albino, mentre i Sanniti elessero a loro comandante Gaio Ponzio, che al rifiuto di Roma di concedere nuovamente l’alleanza, tenne un accorato discorso al proprio popolo teso ad infiammarne nuovamente gli animi.
Durante queste intricate trattative l’esercito romano rimase stanziato nel Sannio, presso Calatia (odierna Maddaloni, in provincia di Caserta), allo stesso tempo il generale sannita Gaio Ponzio spostò segretamente il proprio esercito presso Caudio (attuale Montesarchio in provincia di Benevento). A questo punto scattò la trappola messa in atto dai Sanniti: alcuni di loro travestiti da pastori ebbero il compito di farsi catturare dai Romani presi a razziare i territori circostanti, alla loro cattura avrebbero dovuto raccontare che i Sanniti stavano assediando la roccaforte di Luceria, in Apulia, fedelissima alleata dei Romani. Preoccupati dai fatti i due consoli avevano ora due possibilità: o raggiungere Luceria attraverso un’ampia strada che costeggiava l’Adriatico, facendo però un percorso molto più lungo, oppure passando attraverso le gole di Caudio, un tragitto più impervio ma molto più corto. Dove siano queste strettoie impervie non è ben definito; evidentemente dopo l’epilogo dei fatti, la localizzazione precisa di Caudio venne rimossa dai romani, Montesarchio (BN) dove si suppone sia avvenuto, tuttavia Tito Livio ce ne descrive il luogo con molta accuratezza:

“..due gole profonde, strette, ricoperte di boschi, congiunte l’una all’altra da monti che non offrono passaggi, delimitano una radura abbastanza estesa, a praterie irrigate, nel mezzo della quale si apre la strada; ma per arrivare a quella radura bisogna prima passare attraverso la prima gola; e quando tu l’abbia raggiunta, per uscirne, o bisogna ripercorre lo stesso cammino o, se vuoi continuare in avanti, superare l’altra gola, più stretta e irta di ostacoli..” (Tito Livio ab Urbe condita libri, IX, 2).

I due consoli romani optarono per la via più breve senza però mandare nessuno in avanscoperta, accorgendosi così molto presto degli sbarramenti sanniti e notando le numerose postazioni nemiche sulle alture circostanti. Sempre Tito Livio ci racconta che l’esercito una volta arrivato in prossimità della seconda gola, la trovarono ostruita da tronchi d’albero e da imponenti macigni, i Romani si trovarono così in un vicolo cieco. L’unica soluzione per le legioni a quel punto era ritornare sui propri passi, ma dopo il loro transito, i Sanniti avevano provveduto a sbarrare anche la prima gola, chiudendo così i Romani in una trappola senza via d’uscita. 

A quel punto le forti legioni di Roma si trovarono impaurite e indecise sul da farsi, lo sgomento e il dubbio calarono sui consoli romani. Dopo un primo momento di indecisione, la disciplina romana tornò alla ribalta e subito vennero approntate le tende per i consoli, si costruì il vallo in prossimità del corso d’acqua e venne scavato il terrapieno per difendere l’accampamento dai nemici, che nel frattempo, dalle alture circostanti, li irridevano come se quello che stavano facendo fosse del tutto inutile. Arrivata la notte l’indecisione regnò sovrana, sia fra i Romani che valutavano piani per uscire da quella situazione, senza però trovare nulla di attuabile, sia tra i Sanniti che avevano si preso in trappola i soldati romani, ma non sapevano ora come disporne. Il comandante sannita Gaio Ponzio si recò dall’anziano e saggio padre in cerca di consigli. Erennio Ponzio ritiratosi da tempo dalla vita politica vista la sua avanzata età, conservava però ancora una mente lucidissima, e al messaggero mandato dal figlio consigliò di liberare i soldati romani senza far loro alcun male. La risposta non fu gradita dai Sanniti che inviarono un secondo messo per avere indicazioni più precise, Erennio questa volta consigliò di sterminare l’intero esercito. Non riuscendo a capire il senso di quelle due risposte così diverse tra loro, Erennio Ponzio venne convocato di persona al consiglio. Giunto sul posto l’anziano si limitò a spiegare il senso delle sue risposte: se i soldati fossero stati lasciati andare, si sarebbe potuto contare sulla gratitudine di Roma; se l’esercito romano fosse stato distrutto, Roma non avrebbe potuto riarmarsi in breve tempo e i Sanniti avrebbero potuto vincere facilmente la guerra.
Nel frattempo, i Romani, resisi conto di non avere nessuna via di uscita, mandarono dei legati per chiedere ai Sanniti o una pace equa, oppure che si decidessero a schierarsi a battaglia per risolvere definitivamente la questione, Gaio Ponzio non accettò e anzi, pose lui le sue condizioni. I Romani sarebbero stati fatti uscire dal proprio accampamento per passare poi sotto il giogo, vestiti solo della loro tunica per poi abbandonare il Sannio e le colonie li conquistate. La proposta venne discussa nel campo romano quando, in un consiglio improvvisato, Lucio Lentulo, legato di grande valore e figlio del difensore del Campidoglio ai tempi dell’invasione dei Galli di Brenno, parlò apertamente di resa, rendendola l’unica soluzione possibile, sia per uscire salvi da quel luogo, sia per non lasciare comunque sguarnita Roma essendo il grosso dell’esercito romano rinchiuso in quella gola. I consoli si recarono personalmente da Gaio Ponzio per trattare la resa e per fissare la data della consegna delle armi, degli ostaggi e del rilascio dell’inerme esercito romano.
Tito Livio:” Furono fatti uscire dal terrapieno inermi, vestiti della sola tunica: consegnati in primo luogo e condotti via sotto custodia gli ostaggi. Si comandò poi ai littori di allontanarsi dai consoli; i consoli stessi furono spogliati del mantello del comando..

..Furono fatti passare sotto il giogo innanzi a tutti i consoli, seminudi; poi subirono la stessa sorte ignominiosa tutti quelli che rivestivano un grado; infine le singole legioni. I nemici li circondavano, armati; li ricoprivano di insulti e di scherni e anche drizzavano contro molti le spade; alquanti vennero feriti ed uccisi, sol che il loro atteggiamento troppo inasprito da quegli oltraggi sembrasse offensivo al vincitore”.

L’esercito romano dopo l’umiliazione subita, si recò a Capua dove non ebbe neppure il coraggio di entrare in città, al contrario gli abitanti uscirono per portare cibo, vestiti, armi e perfino i simboli del potere per i consoli, ma i Romani sembravano sconvolti e concentrati nel loro dolore e nella vergogna. A Roma, la notizia del disastro provocò l’ abbandonò di una nuova leva e si ebbero addirittura spontanee manifestazioni di lutto: vennero chiuse botteghe e sospese le attività del Foro. I senatori tolsero il laticlavio e gli anelli d’oro, e ci furono proposte di non accogliere gli sconfitti in città. Questo non accadde ma i soldati, gli ufficiali e i consoli si chiusero nelle proprie abitazioni, tanto che il Senato dovette nominare un dittatore per l’esercizio delle attività politiche. Il popolo però non accettò le magistrature e si dovettero eleggere due “interreges”, Quinto Fabio Massimo e poi Marco Valerio Corvo. Questi proclamò consoli i migliori generali disponibili in quel periodo: Lucio Papirio Cursore e Quinto Publillio Filone.

Estratto da👇
http://romaeredidiunimpero.altervista.org/le-forche.../...



Storia, pregiudizi e Forche Caudine
Un pregiudizio è una “ opinione errata perché concepita non per conoscenza precisa e diretta del fatto o della persona, ma sulla base di voci e opinioni comuni, tale da condizionare fortemente la valutazione, e da indurre quindi in errore “
Se esaminiamo le tante ipotesi finora fatte sulla localizzazione delle Forche Caudine, risulta evidente che hanno come comune denominatore un pregiudizio che le discosta decisamente dal pensiero di Tito Livio: poichè l’esercito Romano ha percorso la Via Appia-Traiana per raggiungere Luceria, è lungo questo percorso che vanno cercate le Forche. Il più categorico è stato sicuramente Mommsen che, dopo aver inopinatamente spostato il punto di partenza da Caiatia sul Volturno a Calatia lungo l’Appia, sentenziò : “… Per arrivare in tempo non si poteva prendere che una via… là dove in continuazione della via Appia fu poscia costruita la via romana che da Capua, per Benevento, sbocca verso l’Apulia”! Eppure non è assolutamente così sia perché gli exploratores non avrebbero mai scelto per impiantare un castrum un sito privo della vitale acqua… Romani apud flumen castra ponunt… requisito fondamentale per dissetare migliaia di uomini e centinaia di animali al seguito (Psuedo Hyginus – De munitionibus castrorum), poi perchè Livio lo scrive chiaramente: “Duae ad Luceriam ferebant viae”. Individuare i due percorsi significa individuare il punto ove ci sono le Forche Caudine. Importante, inoltre, è pure capire il significato del toponimo Furculas Caudinas.
Esaminiamo i due punti, partendo dal significato di Furculas Caudinas.
Furculas- plurale di “furcŭla”, l’osso biforcuto presente negli uccelli a forma di V. Come toponimo Furculas indica delle gole con pendii ripidi e scoscesi, a forma di V., che spesso portano a valichi montani. Sono tanti i toponimi “composti” che indicano strade che attraversano zone con tali caratteristiche “forca d’Acero, Forcella Staulanza…”. «Caudinas» perché ubicate e/o accessibili dalla pianura campana abitata dai Caudini.
Per Livio le vie per andare da Calatia a Luceria erano due «Duae ad Luceriam ferebant viae ». Quali erano? La prima “altera praeter oram superi maris“ era la nota, conosciuta e sicura via utilizzata per andare verso il mare Adriatico (Superum) e che, una volta ristrutturata, diventerà la Via Traiana. Aveva però un difetto per le esigenze dei romani: era “longior-più lunga”. L’“altera per Furculas Caudinas, invece, era brevior -più corta”. Due percorsi distinti e separati che non ammettono confusione: “..altera”, “o l’una, o l’altra” e che danno una certezza: il percorso “brevior” era alternativo alla Via Traiana ed attraversava una zona detta Forche Caudine.
Tutta la vicenda si basa sugli interessi contrastanti di Romani e Sanniti: gli uni volevano guadagnare tempo per evitare di arrivare a Lucera troppo tardi, gli altri volevano dare ai milites una sonora lezione visto che stavano sottraendo loro sia i vitali pascoli intorno al Volturno, sia quelli Pugliesi controllabili appunto da Lucera.
Teatro della vicenda.
L’esercito romano era accampato in un castrum a Caiatia, probabilmente in quel «CASTRA ANNIBAL» che troviamo sulla Tavola Peutingeriana lungo il Volturno proprio a valle di Caiatia. E’ evidente che trattasi di un Castrum Romano passato poi nella memoria collettiva come Castrum Annibale perché, come per il Ponte di Annibale a Cerreto Sannita, sulle Forre del Titerno, fu fatto dai Romani ma detto di Annibale perché di li sarebbe passato.
I sanniti erano invece accampati « circa Caudium», cioè «pressappoco nei pressi» di Caudium o del territorio Caudino, sotto il comando di Gaio Ponzio, uomo «valente, coraggioso e colto». Il problema era: come battere un esercito più forte e ben organizzato? Affrontare i Romani in campo aperto sarebbe stato un suicidio! Occorreva studiare una «trappola perfetta» nella quale attirarli, un terreno non adatto alle loro capacità, e poi intrappolarli in gole selvagge. “Telesinus” non poteva non conoscere palmo palmo la sua zona, per cui l’Embratur (condottiero) dell’esercito sannita, studiò la mossa giusta per dare scacco matto ai romani: mosse come pedine dei finti pastori che si fecero catturare ed “estorcere” notizie preziose (per i Sanniti, ovviamente!): 1- Attenti, la vostra preziosa alleata Lucera è stata accerchiata da tutti i Sanniti che stanno per conquistarla; 2- Se volete fare prima per evitare che capitoli, lasciate stare la conosciuta e sicura Via Superi Maris e, attraversando le Furculas Caudinas, tagliate attraverso i monti che non sono presidiati come al solito dai Pentri che sono accorsi in massa a Lucera. Una via “brevior” che vi consentirà di arrivare prima ….
Poiché i tempi di marcia di una legione romana erano di 3-4 miglia al giorno, accorciare anche di una decina di miglia significava arrivare in soccorso dei preziosi alleati 3-4 giorni prima!
Gli argomenti proposti furono irresistibili per l’esercito romano che si avviò lungo il Volturno, per imboccare la scorciatoia furbamente suggerita.
Ma come individuare questo percorso più breve per Lucera? Quale era questa “aliam viam brevior” rispetto alla Via del mare? Se la via più breve tra due punti è la retta, basta tracciarne una tra Calatia (quella che sia!) e Luceria per vedere che…si taglia il Tifernum Mons, il Matese, lungo le Gole del Titerno!
Sono queste delle tipiche valli a forma di “furcula”, accessibili dalla pianura caudina antistante Faicchio, e attraversate da un tratturo a tratti scavato nella roccia “cavam rupem” che collegava, attraverso Pietraroja e Terravechia di Sepino, la Pianura Campana-Caudina con quella Dauna. 

Un percorso facile da raggiungere: bastava risalire prima il Volturno e poi il Titerno, ma normalmente superprotetto, da Monte Pugliano a Monte Cigno, trattandosi della porta di accesso al territorio Pentro. Attraversare queste gole leggendo il testo di Livio, sembra di essere accompagnati da una guida del TCI. Le coincidenze sono veramente imbarazzanti. Il tutto…sotto dei monti dai quali le rocce cadono facilmente giù, allora come oggi, senza alcuna necessità (ma come avrebbero fatto?) per i Sanniti…anzi, per i Pentri, di portarle prima su per poi spingerle giù per eseguire ben due blocchi contemporaneamente…. “saeptas deiectu arborum saxorumque ingentium obiacente mole invenere…”. Operazione praticamente impossibile, come dice l’esperto militare ing. Flavio Russo: “pura follia pensare che sia stato possibile bloccare in due punti la gola di Arpaia e sconfiggere l’esercito Romano nella pianura antistante….”.
ll capolavoro dell’astuto condottiero “telesino” fu instradare un esercito organizzato per la pianura in uno stretto sentiero tra due gole che fossero pure ad una certa distanza tra loro e facilmente bloccabili con massi fatti cadere dall’alto. Costretto a camminare in fila indiana, i romani furono intrappolati senza poter applicare le loro tattiche di guerra! Il resto…è storia conosciuta!.