venerdì 14 maggio 2021

I ponti romani

PONTI ROMANI

Gli etruschi, prima dei Romani, conobbero il segreto della costruzione dell'arco, con cui si potevano fare porte cittadine, acquedotti ma soprattutto ponti. L'arte di costruire ponti era sacra da cui il termine Pontifex, facitore di ponti, da cui l'attuale termine cattolico Pontefice; se poi si trattava del mastro costruttore, si chiamò in epoca romana il Pontifex Maximus, la massima carica sacerdotale pagana da cui abbiamo tratto il Sommo Pontefice.
Roma fu del resto costruita nell'unico punto in cui era possibile unire con un ponte (il Ponte Sublicio) le due sponde del basso Tevere, un ponte facile da proteggere militarmente, e da qui dominava tutto il traffico fra l'Etruria e l'Italia meridionale. L'arte di costruire i ponti fu dunque etrusca ma ben presto divenne romana.
Ma solo quando l'Urbe riuscì ad avere il controllo della riva sinistra venne costruito questo ponte, il primo della città, per volere di re Anco Marzio, appunto presso il guado del Tevere. Il Pons Sublicius (dal termine volsco sublica, tavola di legno) venne infatti eseguito interamente in legno per poter essere facilmente demolito in caso di attacco nemico.
E' il più antico ponte di Roma, realizzato in legno al tempo di Tullio Ostillio (.. - 641 a.c.) e terminato da Anco Marzio, (675 a.c. - 616 a.c.) secondo Tito Livio e Dionigi di Alicarnasso. Un'altra versione narra che venne eretto da popolazioni abitanti la sponda destra del Tevere molti anni prima della presunta nascita di Roma, restaurato una prima volta da Ercole in persona ed una seconda nel 614 a.c. sotto il regno di Anco Marzio.
In quanto alla tecnica si usava anzitutto deviare il corso del fiume attraverso canali e chiuse, di cui gli Etruschi avevano già la massima esperienza, quindi si scavava e si ponevano fondamenta e pilastri. Su questo veniva poggiata un'incastellatura di legno ad arco, su cui venivano poste le pietre già rastremate a scalpello.

Per ultimo si poneva il cuneo, la pietra rastremata più grande di tutte che veniva inserita al centro esatto dell'arco, dopodiché l'incastellatura di legno poteva essere tolta e usata altrove. Il cuneo diventava così la chiave di volta e il peso dei muri si scaricava lungo i montanti permettendo all'arco di sopportare carichi enormi.

La principale preoccupazione dei Romani nella scelta del luogo dove costruire il ponte fu soprattutto di avere abbondante roccia a disposizione su cui fondare le spalle dei ponti ad evitare che piene o alluvioni potessero danneggiarli.
Poi si prevedeva la temporanea deviazione del corso d’acqua tramite un sistema di palizzate e dighe. Si procedeva, quindi, allo scavo per raggiungere il massiccio roccioso su cui fondare i piloni del futuro ponte. Dopodiché si alzava una struttura lignea dotata di una sagoma semicircolare; su di essa venivano appoggiati i conci, pietre squadrate con un opportuno taglio trapezoidale.
Secondariamente, i ponti non venivano edificati dagli schiavi, perchè alla fine risultava più oneroso che non stipendiare liberi operai i quali non avevano bisogno di guardie per essere costretti al lavoro.
Gli unici accidenti che potevano distruggere un ponte romano riguardavano assestamenti imprevisti del terreno, terremoti o eventi bellici. La guerra, infatti, a volte, comportava la necessità di distruggere un ponte onde tagliare la strada al nemico invasore.
Ma ciò che gli ingegneri romani non dimenticavano era pure ciò che rappresentavano nelle loro opere, e cioè Roma, che doveva quindi rappresentare il massimo della bravura, efficacia, bellezza, forza e opulenza, insomma ciò che doveva stupire il mondo, e ci riuscirono in pieno.

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giovedì 13 maggio 2021

La tragica storia di Giulia Livilla

𝐋𝐀 𝐓𝐑𝐀𝐆𝐈𝐂𝐀 𝐒𝐓𝐎𝐑𝐈𝐀 𝐃𝐈 𝐆𝐈𝐔𝐋𝐈𝐀 𝐋𝐈𝐕𝐈𝐋𝐋𝐀.
𝐃𝐢 𝐀𝐧𝐝𝐫𝐞𝐚 𝐂𝐨𝐧𝐭𝐨𝐫𝐧𝐢.
Prendo in prestito il celebre dipinto di John William Godward per parlarvi di Giulia Livilla, la bella e sfortunata ultima figlia del grande Germanico. Purtroppo la numerosa progenie del vendicatore di Teutoburgo non ebbe un fato favorevole. I primi due nati, Nerone Cesare e Druso Cesare finirono in disgrazia sotto Tiberio. Caligola, divenuto imperatore, cadde per mano dei pretoriani. Giulia Drusilla se ne andò di malattia a soli 21 anni. Agrippina Minore, madre di Nerone, fu eliminata dal figlio. Infine abbiamo Giulia Livilla. Lei nacque nel 18, un anno prima della tragica fine del padre, morto ad Antiochia nel 19. Fu educata a corte sotto Tiberio. Per uno strano gioco del destino finì promessa sposa a Publio Quintilio Varo, figlio dell'omonimo genitore sconfitto a Teutoburgo. Due delle tre aquile legionarie perse nella famosa imboscata erano state recuperate proprio da Germanico. Il matrimonio sfumò e la bella fanciulla sposò nel 33 l'equestre Marco Vinicio, un valido amministratore, molto attivo sotto Tiberio. La vita di Livilla cambiò con l'ascesa alla porpora imperiale del fratello Caligola. Le tre sorelle furono infatti accolte a corte con tutti gli onori. Svetonio narra di notti brave segnate da rapporti incestuosi e di una condotta di vita dissoluta e senza regole. Questo sembrerebbe in contrasto con l'opposizione che Livilla dimostrò nei confronti della politica del fratello. Già nel 39, appena due anni dopo l'insediamento di Caligola, Livilla ed Agrippina tentarono di spodestarlo, favorendo il cognato Marco Emilio Lepido, marito di Drusilla, (morta appena un anno prima), e amante di entrambe le sorelle. Ma una volta scoperte nell'intento criminale, Caligola non ebbe il coraggio di eliminarle. Giulia e Agrippina furono esiliate. Nel 41, tolto di mezzo Caligola, le due rientrarono a Roma, accolte da Claudio. Livilla entrò in contatto con Seneca, filosofo nel pieno della maturità. Tra i due nacque una passione. L'irrequieta imperatrice Messalina sfruttò l'occasione per liberarsi di una presenza che la infastidiva. Gelosa dell'avvenenza di Livilla e temendo quell'alleanza tra un uomo colto e una donna di fine intelletto, gridò all'adulterio. Claudio non volle entrare in contrasto con la bella e fumantina consorte. I due presunti amanti furono così esiliati; Seneca in Corsica, Livilla a Pandateria (Ventotene) dove fu lasciata morire di fame. Livilla aveva 23 anni. Se ne andava nell'inedia una donna spregiudicata nei giochi di corte ma determinata e di grande intelligenza. Dopo un matrimonio imposto e una relazione di comodo, probabilmente pagò con la vita il primo vero amore della sua breve ma intensa esistenza.

▪ "The quiet pet " di John William Godward (1906).
▪ "Le donne che fecero l'Impero" di Marisa Ranieri Panetta. Salerno Ed. (2020).
▪ "Storia Romana" di G. Geraci e A. Marcone. Mondadori.

#IlSapereStorico #StoriaRomana #Roma #GiuliaLivilla #Caligola #Seneca #Messalina #Germanico #Nerone #ImperoRomano #AgrippinaMinore

martedì 11 maggio 2021

Quinto Sertorio

𝐒𝐄𝐑𝐓𝐎𝐑𝐈𝐎 𝐈𝐋 𝐅𝐔𝐎𝐑𝐈𝐋𝐄𝐆𝐆𝐄!
𝐃𝐢 𝐀𝐧𝐝𝐫𝐞𝐚 𝐂𝐨𝐧𝐭𝐨𝐫𝐧𝐢.
Grande condottiero o avido avventuriero? Quinto Sertorio ha da sempre suscitato pareri discordanti. Se Sallustio e Plutarco lo ammirano, Aulo Gellio lo definisce un illustre e astuto comandante propenso all'imbroglio e alla menzogna. Di origini sabine, Sertorio, nato nel 126 a.C., era figlio di una cugina di Gaio Mario. Affascinato dal celebre parente, studiò da giurista e da oratore per poi arruolarsi nell'esercito. Prese parte alla tragica Battaglia di Arausio (105 a.C.) contro Cimbri e Teutoni, distinguendosi per coraggio, sia in combattimento che nella rocambolesca ritirata in seguito alla disfatta dell'esercito romano. Tre anni dopo nel 102 a.C. era al fianco di Mario nello scontro di Aquae Sextiae; roboante fu la vittoria su Teutoni e Ambroni. Nei successivi 19 anni, Sertorio fu molto attivo in politica, guadagnando cariche e onori. Nel duro confronto tra Mario e Silla, si schierò dalla parte dei sostenitori "populares" del primo. Con la morte di Mario e la definitiva vittoria di Silla, Sertorio fuggì in Spagna (83 a.C.), amministrandola in virtù del suo precedente mandato proconsolare. Nel confronto con le legioni sillane, Sertorio perse a tradimento il fidato Salinatore che difendeva il confine naturale dei Pirenei. Riparò in Mauritania per poi tornare a combattere sul suolo spagnolo, accolto con estremo favore dalle tante popolazioni locali. Per anni, applicando tattiche e strategie della "moderna" guerriglia, tenne in scacco le legioni di Q. Cecilio Metello Pio e di Gneo Pompeo Magno. Spirò nel 72 a.C., probabilmente avvelenato in un banchetto dal suo alleato Marco Perperna Vento. Fiero di aver perso un occhio in combattimento, abile stratega e grandissimo diplomatico, Sertorio contò sull'appoggio delle tribù iberiche, da sempre poco propense alla dominazione romana. Nelle terre da lui amministrate, tentò di importare il modello "Roma" grazie alla formazione di un senato, all'apertura di scuole di retorica e alla costruzione di strade. Gellio ci racconta però, con spirito polemico, un aneddoto legato alla sua figura. Si dice che egli avesse allevato fin da piccolo un cervo bianco, dono di un lusitano. L'animale era considerato sacro a Diana. Sertorio avrebbe sfruttato l'opportunità per far credere ai locali di essere aiutato e consigliato direttamente dalla dea. In tal modo, ribadisce Aulo Gellio, riuscì a far approvare anche le decisioni più dure e impopolari. Andando oltre le critiche, Sertorio era molto rispettato dalle genti iberiche. Ancora oggi in Spagna è considerato una sorta di eroe nazionale. Può essere, a ragione, annoverato tra i migliori condottieri romani di tutti i tempi. Forse da noi non gode di un buon riscontro, pagando lo status di ribelle. Eppure Sertorio non si considerò mai un nemico della Res Publica...

▪️ "Storia romana", G. Geraci e A. Marcone. Le Monnier.
▪️ "Fonti per la Storia romana", G. Geraci e A. Marcone. Le Monnier.
▪️ "I grandi generali di Roma Antica", A. Frediani. Newton & Compton.

#IlSapereStorico #QuintoSertorio #StoriadiRoma #StoriaRomana #Roma #PompeoMagno #CecilioMetello #MarioeSilla

venerdì 7 maggio 2021

Gli spettacoli al circo e all' anfiteatro

GLI SPETTACOLI AL CIRCO E ALL’ANFITEATRO
Nonostante le diversità tra i vari tipi, tutti gli spettacoli – siano il circo o l’anfiteatro – sono accomunati da diversi elementi.
Gli spettacoli sono quasi sempre diurni: solo in qualche occasione, nel circo vengono organizzati spettacoli notturni, alla luce delle fiaccole e delle torce. La durata degli spettacoli, pur variando a seconda delle circostanze, del genere e del luogo, è quasi sempre abbastanza lunga, e inizia, in un ordine abbastanza  consuetudinario, a partire dal mattino, quando si tengono solitamente le “venationes”, ossia le cacce. Segue una un’interruzione a ora di pranzo, quando gli spettatori consumano, sempre in loco, cibi e bevande portate da casa, acquistate nelle bancarelle che si trovano lì vicino oppure, come a volte accade, distribuite gratuitamente dall’imperatore o dal personaggio che ha organizzato la manifestazione. Seguono nel pomeriggio gli spettacoli più attesi, i “munera gladiatoria”, ossia i combattimenti dei gladiatori.
L’accesso al circo e all’anfiteatro è generalmente gratuito per il popolo, a cui sono riservati i posti sulle gradinate più alte della “cavea” e il loggione. I posti più vicini all’area sono invece riservati alle autorità, ai sacerdoti e alle famiglie delle corporazioni di arti e mestieri più importanti. 
Ogni spettacolo rappresenta un’occasione di ritrovo mondano Con grande gioia delle signore che al circo e all’anfiteatro come al teatro vanno anche per sfoggiare vestiti, pettinature, gioielli, ancelle, e che, insomma, si recano ad uno spettacolo, come osservava Ovidio, «per vedere e per farsi vedere». A costo di far debiti o di sperperare il patrimonio, come ci fa sapere Giovenale: «Per poter vedere i giochi, Ogulnia prende a nolo la veste, prende a nolo una scorta, la lettiga, il cuscino, le amiche, una nutrice e una ragazzina bionda a cui oggi dare commissioni. Ma poi deve dare tutto ciò che le rimane dell’argento paterno e l’ultimo vasellame della casa agli unti atleti». 

🟨fonte: Romolo Staccioli – Una giornata nell’antica Roma
✅@romarteblog
#roma #colosseo #Gladiators #Gladiatori

Le Forche Gaudine

(Il più improbabile scenario delle versioni sul luogo
 delle Forche Caudine)

Nel 341 a.C., dopo la fine della prima guerra Sannitica, i Sanniti ottennero la pace dai Romani, impegnandosi però a rimanere neutrali nelle interminabili guerre che vedevano Roma opposta alle bellicose popolazioni vicine. Tuttavia nel 327 a.C., i Sanniti ruppero tali accordi appoggiando gli abitanti di Palepoli (Napoli), assediati dai Romani, e dopo una serie di scontri armati vennero ancora una volta battuti definitivamente nel 322 a.C., accettando di conseguenza umilianti condizioni di pace, che prevedevano tra le altre cose la consegna del fomentatore della rivolta Brutulo Papio, poi suicidatosi, e la consegna di tutti i prigionieri.

I Sanniti speravano così di riguadagnarsi lo status di alleato, ma i Romani non fidandosi più di loro rifiutarono decisamente. Nel 321 a.C., la situazione declinò, a Roma vennero eletti consoli Tiberio Veturio Calvino e Spurio Postumio Albino, mentre i Sanniti elessero a loro comandante Gaio Ponzio, che al rifiuto di Roma di concedere nuovamente l’alleanza, tenne un accorato discorso al proprio popolo teso ad infiammarne nuovamente gli animi.
Durante queste intricate trattative l’esercito romano rimase stanziato nel Sannio, presso Calatia (odierna Maddaloni, in provincia di Caserta), allo stesso tempo il generale sannita Gaio Ponzio spostò segretamente il proprio esercito presso Caudio (attuale Montesarchio in provincia di Benevento). A questo punto scattò la trappola messa in atto dai Sanniti: alcuni di loro travestiti da pastori ebbero il compito di farsi catturare dai Romani presi a razziare i territori circostanti, alla loro cattura avrebbero dovuto raccontare che i Sanniti stavano assediando la roccaforte di Luceria, in Apulia, fedelissima alleata dei Romani. Preoccupati dai fatti i due consoli avevano ora due possibilità: o raggiungere Luceria attraverso un’ampia strada che costeggiava l’Adriatico, facendo però un percorso molto più lungo, oppure passando attraverso le gole di Caudio, un tragitto più impervio ma molto più corto. Dove siano queste strettoie impervie non è ben definito; evidentemente dopo l’epilogo dei fatti, la localizzazione precisa di Caudio venne rimossa dai romani, Montesarchio (BN) dove si suppone sia avvenuto, tuttavia Tito Livio ce ne descrive il luogo con molta accuratezza:

“..due gole profonde, strette, ricoperte di boschi, congiunte l’una all’altra da monti che non offrono passaggi, delimitano una radura abbastanza estesa, a praterie irrigate, nel mezzo della quale si apre la strada; ma per arrivare a quella radura bisogna prima passare attraverso la prima gola; e quando tu l’abbia raggiunta, per uscirne, o bisogna ripercorre lo stesso cammino o, se vuoi continuare in avanti, superare l’altra gola, più stretta e irta di ostacoli..” (Tito Livio ab Urbe condita libri, IX, 2).

I due consoli romani optarono per la via più breve senza però mandare nessuno in avanscoperta, accorgendosi così molto presto degli sbarramenti sanniti e notando le numerose postazioni nemiche sulle alture circostanti. Sempre Tito Livio ci racconta che l’esercito una volta arrivato in prossimità della seconda gola, la trovarono ostruita da tronchi d’albero e da imponenti macigni, i Romani si trovarono così in un vicolo cieco. L’unica soluzione per le legioni a quel punto era ritornare sui propri passi, ma dopo il loro transito, i Sanniti avevano provveduto a sbarrare anche la prima gola, chiudendo così i Romani in una trappola senza via d’uscita. 

A quel punto le forti legioni di Roma si trovarono impaurite e indecise sul da farsi, lo sgomento e il dubbio calarono sui consoli romani. Dopo un primo momento di indecisione, la disciplina romana tornò alla ribalta e subito vennero approntate le tende per i consoli, si costruì il vallo in prossimità del corso d’acqua e venne scavato il terrapieno per difendere l’accampamento dai nemici, che nel frattempo, dalle alture circostanti, li irridevano come se quello che stavano facendo fosse del tutto inutile. Arrivata la notte l’indecisione regnò sovrana, sia fra i Romani che valutavano piani per uscire da quella situazione, senza però trovare nulla di attuabile, sia tra i Sanniti che avevano si preso in trappola i soldati romani, ma non sapevano ora come disporne. Il comandante sannita Gaio Ponzio si recò dall’anziano e saggio padre in cerca di consigli. Erennio Ponzio ritiratosi da tempo dalla vita politica vista la sua avanzata età, conservava però ancora una mente lucidissima, e al messaggero mandato dal figlio consigliò di liberare i soldati romani senza far loro alcun male. La risposta non fu gradita dai Sanniti che inviarono un secondo messo per avere indicazioni più precise, Erennio questa volta consigliò di sterminare l’intero esercito. Non riuscendo a capire il senso di quelle due risposte così diverse tra loro, Erennio Ponzio venne convocato di persona al consiglio. Giunto sul posto l’anziano si limitò a spiegare il senso delle sue risposte: se i soldati fossero stati lasciati andare, si sarebbe potuto contare sulla gratitudine di Roma; se l’esercito romano fosse stato distrutto, Roma non avrebbe potuto riarmarsi in breve tempo e i Sanniti avrebbero potuto vincere facilmente la guerra.
Nel frattempo, i Romani, resisi conto di non avere nessuna via di uscita, mandarono dei legati per chiedere ai Sanniti o una pace equa, oppure che si decidessero a schierarsi a battaglia per risolvere definitivamente la questione, Gaio Ponzio non accettò e anzi, pose lui le sue condizioni. I Romani sarebbero stati fatti uscire dal proprio accampamento per passare poi sotto il giogo, vestiti solo della loro tunica per poi abbandonare il Sannio e le colonie li conquistate. La proposta venne discussa nel campo romano quando, in un consiglio improvvisato, Lucio Lentulo, legato di grande valore e figlio del difensore del Campidoglio ai tempi dell’invasione dei Galli di Brenno, parlò apertamente di resa, rendendola l’unica soluzione possibile, sia per uscire salvi da quel luogo, sia per non lasciare comunque sguarnita Roma essendo il grosso dell’esercito romano rinchiuso in quella gola. I consoli si recarono personalmente da Gaio Ponzio per trattare la resa e per fissare la data della consegna delle armi, degli ostaggi e del rilascio dell’inerme esercito romano.
Tito Livio:” Furono fatti uscire dal terrapieno inermi, vestiti della sola tunica: consegnati in primo luogo e condotti via sotto custodia gli ostaggi. Si comandò poi ai littori di allontanarsi dai consoli; i consoli stessi furono spogliati del mantello del comando..

..Furono fatti passare sotto il giogo innanzi a tutti i consoli, seminudi; poi subirono la stessa sorte ignominiosa tutti quelli che rivestivano un grado; infine le singole legioni. I nemici li circondavano, armati; li ricoprivano di insulti e di scherni e anche drizzavano contro molti le spade; alquanti vennero feriti ed uccisi, sol che il loro atteggiamento troppo inasprito da quegli oltraggi sembrasse offensivo al vincitore”.

L’esercito romano dopo l’umiliazione subita, si recò a Capua dove non ebbe neppure il coraggio di entrare in città, al contrario gli abitanti uscirono per portare cibo, vestiti, armi e perfino i simboli del potere per i consoli, ma i Romani sembravano sconvolti e concentrati nel loro dolore e nella vergogna. A Roma, la notizia del disastro provocò l’ abbandonò di una nuova leva e si ebbero addirittura spontanee manifestazioni di lutto: vennero chiuse botteghe e sospese le attività del Foro. I senatori tolsero il laticlavio e gli anelli d’oro, e ci furono proposte di non accogliere gli sconfitti in città. Questo non accadde ma i soldati, gli ufficiali e i consoli si chiusero nelle proprie abitazioni, tanto che il Senato dovette nominare un dittatore per l’esercizio delle attività politiche. Il popolo però non accettò le magistrature e si dovettero eleggere due “interreges”, Quinto Fabio Massimo e poi Marco Valerio Corvo. Questi proclamò consoli i migliori generali disponibili in quel periodo: Lucio Papirio Cursore e Quinto Publillio Filone.

Estratto da👇
http://romaeredidiunimpero.altervista.org/le-forche.../...



Storia, pregiudizi e Forche Caudine
Un pregiudizio è una “ opinione errata perché concepita non per conoscenza precisa e diretta del fatto o della persona, ma sulla base di voci e opinioni comuni, tale da condizionare fortemente la valutazione, e da indurre quindi in errore “
Se esaminiamo le tante ipotesi finora fatte sulla localizzazione delle Forche Caudine, risulta evidente che hanno come comune denominatore un pregiudizio che le discosta decisamente dal pensiero di Tito Livio: poichè l’esercito Romano ha percorso la Via Appia-Traiana per raggiungere Luceria, è lungo questo percorso che vanno cercate le Forche. Il più categorico è stato sicuramente Mommsen che, dopo aver inopinatamente spostato il punto di partenza da Caiatia sul Volturno a Calatia lungo l’Appia, sentenziò : “… Per arrivare in tempo non si poteva prendere che una via… là dove in continuazione della via Appia fu poscia costruita la via romana che da Capua, per Benevento, sbocca verso l’Apulia”! Eppure non è assolutamente così sia perché gli exploratores non avrebbero mai scelto per impiantare un castrum un sito privo della vitale acqua… Romani apud flumen castra ponunt… requisito fondamentale per dissetare migliaia di uomini e centinaia di animali al seguito (Psuedo Hyginus – De munitionibus castrorum), poi perchè Livio lo scrive chiaramente: “Duae ad Luceriam ferebant viae”. Individuare i due percorsi significa individuare il punto ove ci sono le Forche Caudine. Importante, inoltre, è pure capire il significato del toponimo Furculas Caudinas.
Esaminiamo i due punti, partendo dal significato di Furculas Caudinas.
Furculas- plurale di “furcŭla”, l’osso biforcuto presente negli uccelli a forma di V. Come toponimo Furculas indica delle gole con pendii ripidi e scoscesi, a forma di V., che spesso portano a valichi montani. Sono tanti i toponimi “composti” che indicano strade che attraversano zone con tali caratteristiche “forca d’Acero, Forcella Staulanza…”. «Caudinas» perché ubicate e/o accessibili dalla pianura campana abitata dai Caudini.
Per Livio le vie per andare da Calatia a Luceria erano due «Duae ad Luceriam ferebant viae ». Quali erano? La prima “altera praeter oram superi maris“ era la nota, conosciuta e sicura via utilizzata per andare verso il mare Adriatico (Superum) e che, una volta ristrutturata, diventerà la Via Traiana. Aveva però un difetto per le esigenze dei romani: era “longior-più lunga”. L’“altera per Furculas Caudinas, invece, era brevior -più corta”. Due percorsi distinti e separati che non ammettono confusione: “..altera”, “o l’una, o l’altra” e che danno una certezza: il percorso “brevior” era alternativo alla Via Traiana ed attraversava una zona detta Forche Caudine.
Tutta la vicenda si basa sugli interessi contrastanti di Romani e Sanniti: gli uni volevano guadagnare tempo per evitare di arrivare a Lucera troppo tardi, gli altri volevano dare ai milites una sonora lezione visto che stavano sottraendo loro sia i vitali pascoli intorno al Volturno, sia quelli Pugliesi controllabili appunto da Lucera.
Teatro della vicenda.
L’esercito romano era accampato in un castrum a Caiatia, probabilmente in quel «CASTRA ANNIBAL» che troviamo sulla Tavola Peutingeriana lungo il Volturno proprio a valle di Caiatia. E’ evidente che trattasi di un Castrum Romano passato poi nella memoria collettiva come Castrum Annibale perché, come per il Ponte di Annibale a Cerreto Sannita, sulle Forre del Titerno, fu fatto dai Romani ma detto di Annibale perché di li sarebbe passato.
I sanniti erano invece accampati « circa Caudium», cioè «pressappoco nei pressi» di Caudium o del territorio Caudino, sotto il comando di Gaio Ponzio, uomo «valente, coraggioso e colto». Il problema era: come battere un esercito più forte e ben organizzato? Affrontare i Romani in campo aperto sarebbe stato un suicidio! Occorreva studiare una «trappola perfetta» nella quale attirarli, un terreno non adatto alle loro capacità, e poi intrappolarli in gole selvagge. “Telesinus” non poteva non conoscere palmo palmo la sua zona, per cui l’Embratur (condottiero) dell’esercito sannita, studiò la mossa giusta per dare scacco matto ai romani: mosse come pedine dei finti pastori che si fecero catturare ed “estorcere” notizie preziose (per i Sanniti, ovviamente!): 1- Attenti, la vostra preziosa alleata Lucera è stata accerchiata da tutti i Sanniti che stanno per conquistarla; 2- Se volete fare prima per evitare che capitoli, lasciate stare la conosciuta e sicura Via Superi Maris e, attraversando le Furculas Caudinas, tagliate attraverso i monti che non sono presidiati come al solito dai Pentri che sono accorsi in massa a Lucera. Una via “brevior” che vi consentirà di arrivare prima ….
Poiché i tempi di marcia di una legione romana erano di 3-4 miglia al giorno, accorciare anche di una decina di miglia significava arrivare in soccorso dei preziosi alleati 3-4 giorni prima!
Gli argomenti proposti furono irresistibili per l’esercito romano che si avviò lungo il Volturno, per imboccare la scorciatoia furbamente suggerita.
Ma come individuare questo percorso più breve per Lucera? Quale era questa “aliam viam brevior” rispetto alla Via del mare? Se la via più breve tra due punti è la retta, basta tracciarne una tra Calatia (quella che sia!) e Luceria per vedere che…si taglia il Tifernum Mons, il Matese, lungo le Gole del Titerno!
Sono queste delle tipiche valli a forma di “furcula”, accessibili dalla pianura caudina antistante Faicchio, e attraversate da un tratturo a tratti scavato nella roccia “cavam rupem” che collegava, attraverso Pietraroja e Terravechia di Sepino, la Pianura Campana-Caudina con quella Dauna. 

Un percorso facile da raggiungere: bastava risalire prima il Volturno e poi il Titerno, ma normalmente superprotetto, da Monte Pugliano a Monte Cigno, trattandosi della porta di accesso al territorio Pentro. Attraversare queste gole leggendo il testo di Livio, sembra di essere accompagnati da una guida del TCI. Le coincidenze sono veramente imbarazzanti. Il tutto…sotto dei monti dai quali le rocce cadono facilmente giù, allora come oggi, senza alcuna necessità (ma come avrebbero fatto?) per i Sanniti…anzi, per i Pentri, di portarle prima su per poi spingerle giù per eseguire ben due blocchi contemporaneamente…. “saeptas deiectu arborum saxorumque ingentium obiacente mole invenere…”. Operazione praticamente impossibile, come dice l’esperto militare ing. Flavio Russo: “pura follia pensare che sia stato possibile bloccare in due punti la gola di Arpaia e sconfiggere l’esercito Romano nella pianura antistante….”.
ll capolavoro dell’astuto condottiero “telesino” fu instradare un esercito organizzato per la pianura in uno stretto sentiero tra due gole che fossero pure ad una certa distanza tra loro e facilmente bloccabili con massi fatti cadere dall’alto. Costretto a camminare in fila indiana, i romani furono intrappolati senza poter applicare le loro tattiche di guerra! Il resto…è storia conosciuta!.

giovedì 6 maggio 2021

TIFERNUM TIBERINUM antico municipio romano della Valtiberina


TIFERNUM TIBERINUM..
Regio VI Umbria et Ager Gallicus..

“..Mi hai esposto sia i motivi privati, che sono molti, sia tutti gli altri di interesse pubblico a sostegno della tua domanda di congedo: mi sarebbe bastato anche solo il tuo desiderio.." (lett.9)

L' imperatore  Traiano a Plinio il Giovane  che gli chiede un mese di congedo per poter occuparsi della sua tenuta a Tiferno Tiberino (oggi Città di Castello in Umbria)

Su Città di Castello,  sento il bisogno di scrivere una piccola premessa. 

Tutti i folignati sentono di avere una forte affinità con i tifernati (cast'lèni). Ne parlano sempre con grande simpatia. In effetti, ternani e tifernati sono secondo me  gli umbri meno arcigni e riservati, lontani dai bronci e dalle conventicole perugine, dal costante sarcasmo folignate e spoletino, dalle terribili asprezze appenniniche. 
Foligno e Città di castello sono probabilmente le due città più padane dell'Umbria; entrambe in pianura, entrambe operose (come si diceva una volta), entrambe discrete. In entrambe abbondano i cognomi romagnoli e marchigiani; si guarda all'Adriatico, anche se Arezzo e Perugia ricordano ad entrambe che la condivisione dei destini tirrenici è inevitabile. 

Si sarebbe portati a credere che Città di Castello non si senta Umbra; ma non condivido questa ipotesi. Nella sala del Consiglio Comunale c'è una bella statua di donna, forte, prosperosa, sicura di sè: raffigura l'Umbria. Una Umbria che senza il suo estremo nordico, aperto e cordiale non sarebbe assolutamente la stessa.   

Veniamo adesso alla Città di Castello umbra: Tifernum Tiberinum. Il nome di Castrum Felicitatis risale alla tarda antichità. Non si deve credere, d'altra parte, che la parola Tifernum derivi dal nome latino del Tevere "Tibur"; è invece un toponimo di incerta origine, molto comune in tutte le aree abitate dai popoli di lingua osco-umbra. Possiamo citare Tifernum Metaurense (S.Angelo in Vado) ed un'altra Tifernum, addirittura nel Sannio, di incerta collocazione.  

Le prime capanne su palafitte vennero costruite su isolotti del lago Tiberino, che già intorno al IX-X sec. a.C. stava ritirandosi.  

Il ritrovamento protostorico più importante è quello di Riosecco, ma frequentazioni umane sono attestate già in epoca neolitica. L’abitato era esteso oltre un ettaro, dotato di grandi edifici rettangolari con alzato ligneo. I materiali restituiti da alcuni scavi  possono essere datati dalla fine dell’VIII sec. a.C. al VI sec. a.C.; e nei dintorni, quali Trestina, Lerchi e Fabrecce, ne sono emersi altri risalenti al IX, X secolo. Viene tra l'altro rilevata, in base all'esistenza di un tempio che si trovava a Tifernum e dedicato a Venere vincitrice, la possibilità che vi fosse un porto sul Tevere, dato che in Umbria era frequente il legame fra divinità femminili guerriere e i porti fluviali.

Nel VII secolo a.C. circa la città, come del resto tutta l’Umbria cominciò ad avere scambi commerciali con il popolo degli Etruschi che erano penetrati fino alla sponda destra del Tevere. 
Purtroppo, sembra da recenti ritrovamenti archeologici che i vicini non si limitarono a commerciare, distruggendo la città ed occupando il suo territorio nel corso del VI sec. a.C; momento in cui conquistarono le colline alla riva  sinistra del Tevere, fino a Perugia. 

E' incerta la data in cui Tifernum entrò nell'orbita romana; probabilmente insieme a Sarsina, dopo la vittoria romana contro di essa, nel 266 a.C. 

Dal I secolo a.C. divenne municipio romano, di cui patrono più illustre fu Gaio Plinio Cecilio Secondo detto Plinio il Giovane, il quale, secondo quanto affermato in una sua lettera, fece erigere un tempio, ultimato nel 103 o 104 d. C., di cui non si conosce la collocazione. Certamente la gens Plinia possedeva vasti latifondi nelle vicinanze della città ed una villa è più volte ricordata dallo stesso Plinio il Giovane nelle sue lettere; gli scavi operati in località Santa Fiora, nel Comune di San Giustino,condotti dall'Università degli Studi di Perugia in collaborazione con l'Università di Alicante, hanno permesso di individuare la collocazione della villa di Plinio il Giovane. 

Le presenze archeologiche interne all’era urbana sono concentrate in un’area ristretta e con un’organizzazione topografica ben definita, delimitata dall’odierno Corso Vittorio Emanuele, forse l’antico cardo maximus. Lo scavo ha restituito due epigrafi e una base di statua rinvenute tra il muro in opera reticolata e l’ingresso all’arena. Le iscrizioni sono dedicate a Caio Palio e Caio Tussidio Marciano, magistrati appartenenti alla tribù Clustumina, tribù dominante per gli abitanti di Tifernum Tiberinum ed alla quale furono iscritte, dopo la guerra sociale, moltissime città umbre;

Grazie ai recenti rinvenimenti all’interno dell’area urbana tra le attuali vie G. Oberdan, Borgo Farinario e  delle Santucce (la cosiddetta  area ex F.A.T.), il centro antico ha assunto connotati più precisi. La struttura recentemente scoperta ha una forma ellissoidale definita da due muri in opera a sacco, divisi da un'intercapedine, e con il paramento esterno in opera vittata. I confronti più vicini per la struttura ellittica rientrano nella categoria delle palestre e soprattutto degli anfiteatri, anche se è evidente come in questo caso manchino gli elementi strutturali di sostegno della cavea, ma non sembra inverosimile ipotizzare che l'impianto utilizzasse il terrapieno naturale. Tipologicamente l'impianto anfiteatrale potrebbe essere avvicinato ai tipi cosiddetti "provinciali", privi dell'elevato tipico, con arena scavata e cavea che poggia in parte su un'elevazione naturale e in parte costruita a terrapieno frazionato. La datazione di questo edificio che era comunque adibito a spettacoli può essere fissata nel I sec. d.C. L’anfiteatro è quindi il primo rinvenimento di carattere urbanistico riferibile ad una zona pubblica di Tifernum Tiberinum, ubicato in un’area, il quartiere Mattonata, dove sono concentrate le principali evidenze archeologiche in particolare i pavimenti a mosaico, riferibili probabilmente a domus. Il sistema di canalizzazione, che attraversa tutta la zona e taglia in due casi anche le strutture murarie, fa supporre l'esistenza di terme. 
In alcune abitazioni private si possono invece vedere  mosaici di epoca romana.

Nel Palazzo comunale sono custodite alcune iscrizioni romane, fra cui questa:

Lucius Vennius Sabinus, cum 
Efficace filio, fontem et 
conceptum aquae, suis 
terminis usque ad kaput, 
formae publicae 
Tifernatibus Tiberinis 
dono dedit
(Terme di Fontecchio)

La via Appia antica

312 avanti Cristo: il console Appio Claudio dà il suo nome al tracciato di una nuova strada che raggiunge la Campania e poi Brindisi. 
La principale caratteristica di questa nuova strada è di essere percorribile con ogni tempo e con ogni mezzo, grazie alla pavimentazione realizzata con grandi pietre levigate e perfettamente combacianti, poggiate su uno strato di pietrisco che assicura tenuta e drenaggio.
Con questa tecnica rivoluzionaria la Repubblica e l’Impero potranno costruire la vastissima rete stradale del mondo romano.
Quasi sempre rettilinea, larga circa 4,10 metri, una misura che consente la circolazione nei due sensi, affiancata da un duplice percorso pedonale e servita da pietre miliari, l’Appia si merita ben presto l’appellativo di Regina viarum, la Regina delle strade.
Lungo le prime miglia sorgono numerose installazioni funerarie, seguendo la legge che vietava di seppellire i morti entro la cinta sacra del Pomerio: monumenti di illustri famiglie, ma anche colombari di confraternite costituite per dare ai propri affiliati una degna sepoltura; cimiteri subdiali o sotterranei propri di particolari comunità etniche o religiose. Si crea e si stratifica cosí un patrimonio eccezionale di testimonianze storiche, culturali e artistiche di grandissimo valore.

La grande arteria dell’impero

Nel 268 a.C. l’Appia viene prolungata fino a Benevento, e nel 191 a.C. raggiunge Brindisi, il principale porto per la Grecia e per l’Oriente. Diventa così la principale via di comunicazione del mondo mediterraneo. Sarà soltanto la definitiva caduta degli imperi romani, quello d’Occidente ma anche quello d’Oriente, che farà decrescere rapidamente l’importanza della Regina viarum nella circolazione delle merci e delle persone.



Tempio di Eusculapio dell' isola Tiberina

TEMPIO DI EUSCULAPIO - ISOLA TIBERINA, ROMA
Il tempio dedicato al Dio della medicina Esculapio era situato sull'Isola Tiberina, a Roma, venne eretto tra il 293 a.C. e il 290 a.C. 
Secondo la leggenda nel 293 a.C. scoppiò una grave pestilenza  a Roma, che spinse il Senato a decidere di costruire un edificio alla divinità della medicina greca Asclepio, che assunse il nome latino di Esculapio. Dopo aver consultato i Libri Sibillini ed aver trovato una risposta favorevole, una delegazione di saggi romani venne inviata ad Epidauro, in Grecia, in cui era presente un santuario molto famoso dedicato appunto ad Asclepio, al fine di poter ottenere una statua del dio da portare a Roma. Secondo la leggenda durante i riti propiziatori un grosso serpente (un colubro, animale attribuito alla divinità) uscì dal santuario andandosi a nascondere all'interno della nave romana. Certi che questo fosse un segno da parte della divinità i romani si affrettarono a tornare a Roma, dove ancora imperversava l'epidemia. Risalendo il Tevere, nei pressi dell'isola Tiberina il serpente uscì dalla nave e si nascose sull'isolotto, sparendo dalla vista dei dotti, così fu  preso come un segno e indusse a credere  che era il luogo dove sarebbe dovuto sorgere l'edificio. I lavori iniziarono subito, e il tempio venne inaugurato nel 289 a.C.: da lì a breve l'epidemia ebbe fine. L'isola, a ricordo dell'evento, venne rimodellata a forma di trireme. Un obelisco venne infatti posto al centro dell'isola, davanti al tempio, in modo da assomigliare ad un albero maestro, mentre sulle rive vennero posizionati blocchi di travertino, scolpiti in modo da sembrare una poppa e una prua. Sull'isola sorsero diverse strutture adibite al ricovero degli ammalati, e ciò è testimoniato da numerosi voti ed iscrizioni pervenute sino ai giorni nostri. tempio andò distrutto durante l'alto Medioevo, poiché già nell'anno 1000 sorse sulle sue rovine la basilica di San Bartolomeo all'Isola per volere di Ottone III. Il pozzo medioevale presente vicino all'altare della chiesa sembra essere lo stesso da cui sgorgava l'acqua utilizzata per curare i malati, così come testimoniato da Sesto Pompeo Festo, un grammatico latino, nel II secolo. Del poco che rimane dell'antico tempio di Esculapio sono da ricordare alcuni frammenti dell'obelisco, conservati a Napoli e a Monaco, e alcuni blocchi di travertino visibili sotto le costruzioni moderne sull'isola Tiberina, tra cui spicca un rilievo del bastone di Esculapio.

mercoledì 5 maggio 2021

Boudicca regina degli Iceni

BOUDICCA SFIDA ROMA
«Era una donna molto alta e dall'aspetto terrificante. Aveva gli occhi feroci e la voce aspra. Le chiome fulve le ricadevano in gran massa sui fianchi. Quanto all'abbigliamento, indossava invariabilmente una collana d'oro e una tunica variopinta. Il tutto era ricoperto da uno spesso mantello fermato da una spilla. Mentre parlava, teneva stretta una lancia che contribuiva a suscitare terrore in chiunque la guardasse.» In questo modo Cassio Dione Cocceiano ci descrive Boudicca la regina degli Iceni. Dopo la morte nel 60 d.C. del marito Presutago, Roma si impadronì del territorio e delle ricchezze del suo popolo, Boudicca protestò, e per questo venne fustigata e le sue figlie vennero stuprate. 
In quell’anno le forze romane guidate dal proconsole Gaio Svetonio Paolino, erano impegnate a ridimensionare il potere dei druidi dell’isola di Anglesey (Galles del nord), di questo approfittarono prontamente i Liceni e i Trinovanti, che sotto la guida di Boudicca saccheggiarono gli insediamenti romani di Camulodunum (Colchester), Londinium (Londra) e Verulanium (St.Albans). Il comandante romano allora riunì le truppe a disposizione; tutto si risolse in una sola battaglia così descritta da Tacito:” Disponeva ormai Svetonio di un totale di circa diecimila armati. Sceglie un luogo dall'accesso angusto, una gola chiusa alle spalle da una selva, dopo aver accertato la presenza dei nemici solo di fronte, dove s'apriva una piana libera dal rischio di agguati. Si dispongono i legionari in file serrate, con intorno la fanteria leggera e i cavalieri concentrati alle ali. Le truppe dei Britanni invece si muovevano baldanzose, in una mescolanza di orde appiedate e bande di cavalieri, formanti una massa mai vista prima, spavaldi al punto da portare seco le spose, come testimoni della loro vittoria, collocate sui carri disposti lungo il margine esterno della pianura. Boudicca, tenendo su un carro, avanti a sé, le figlie, passava in rassegna le varie tribù: non era insolito - ricordava - per i Britanni combattere sotto la guida di una donna. Neppure Svetonio Paolino taceva in quell'ora decisiva. Pur fiducioso nel valore dei suoi, alternava tuttavia incitamenti e preghiere a non lasciarsi suggestionare da quel frastuono dei barbari e da minacce senza efficacia: si scorgevano infatti più donne che combattenti. Inadatti alla guerra e male armati, non potevano non cedere appena avessero, dopo tante sconfitte subite, riconosciuto il ferro e il valore dei vincitori. Dovevano solo rimanere compatti e poi, dopo il lancio dei giavellotti, continuare, con scudo e spada, ad abbattere e massacrare il nemico, senza pensare alla preda: a vittoria ottenuta, tutto sarebbe finito nelle loro mani. Un grande entusiasmo seguì le parole del comandante. In un primo momento la legione non si mosse, tenendosi nella gola come in un riparo, ma poi, al farsi sotto dei nemici, scaricati tutti i colpi su di loro con lanci precisi, si buttò avanti a forma di cuneo. Altrettanto violenta la carica degli ausiliari; la cavalleria travolse, a lancia in resta, chi si parava davanti a opporre resistenza. Gli altri volsero le spalle in una fuga difficoltosa, perchè i carri disposti attorno avevano sbarrato ogni via di uscita. E i soldati coinvolgevano nel massacro anche le donne, mentre, trafitti dai dardi, anche gli animali contribuivano a far grande il mucchio di cadaveri. La gloria di quel giorno fu splendida, poco meno di ottantamila Britanni uccisi contro circa quattrocento dei nostri caduti e un numero poco superiore di feriti. La ventottenne Boudicca per non cadere nelle mani nemiche pose fine alla propria vita col veleno.
Fonti storiche: 
Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, 62, 2
Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, VII, 14
Tacito Annali XIV, 30,35,36,37

martedì 4 maggio 2021

I due teatri di Curione

I due teatri di Curione
Ne esiste una ricostruzione virtuale di H. Rossi Zambotti nel Museo della Civiltà Romana.
Il primo tentativo noto di creare un anfiteatro fu quello intrapreso nel 52 a.C. da Scribonio Curione che, candidato al tribunato, attirò l’attenzione degli elettori facendo costruire due teatri lignei, ciascuno capace di ospitare ben ventimila persone e poggiante su una struttura mobile. I due teatri erano accostati di schiena e il pubblico poteva seguire contemporaneamente due spettacoli diversi. Quando fu il momento dei gladiatori, due squadre di manovratori fecero ruotare i due teatri finché si trovarono uno giustapposto all’altro. Una manovra sorprendente ma molto rischiosa, visto che Plinio il Vecchio osservò come avessero corso meno pericoli i gladiatori scesi nell’arena che gli spettatori fatti ruotare sui trabiccoli di Curione. Secondo Plinio la rotazione fu utilizzata una sola volta, poiché nessuno si azzardò più a mettere ancora in moto quel marchingegno infernale. Per il movimento dei due teatri va ipotizzato, ovviamente, l’uso di piattaforme girevoli.
Ma sentiamo cosa ci dice di lui Plinio il Vecchio nella sua "Storia Naturale": Gaio Curione, morì nella guerra civile fra le file dei cesariani ....... Fece realizzare quasi prossimi due grandissimi Teatri in legno, sospesi entrambi al movimento ed al sostegno che garantivano i cardini su cui poggiavano. Lo spettacolo antimeridiano dei giochi avveniva con i due Teatri tra loro opposti di maniera che le scene non si disturbassero reciprocamente con i loro suoni; quindi repentinamente si facevano ruotare i Teatri -da quanto è noto, dopo i primi giorni, anche con alcuni spettatori che continuavano a restar seduti al loro posto- al punto da far incastrare le estremità: Curione realizzava in tal modo un Anfiteatro e dava il via allo spettacolo dei giochi dei gladiatori, avvolgendo la struttura in modo ancor più sicuro per il popolo di Roma. Cosa mai si dovrebbe di più ammirare in tutto questo, l'inventore o l'invenzione, l'architetto o chi fece fare la struttura, chi ardì pensare ad un meccanismo del genere o a chi ordinò di realizzarlo? Ecco ....... che il popolo di Roma, quasi dislocato su duplice sorta di navigli, viene sostenuto da due cardini e quasi guarda se stesso nell'atto di combattere, in grado di poter morire da un momento all'altro per qualche guasto dei meccanismi! ........ Bisogna rammentare anche che siffatta magnificenza risultò turbata dal fatto che i cardini furono trovati danneggiati per l'usura: allora, conservata la struttura ad anfiteatro, nel medesimo giorno si rimossero entrambe le scene si proclamarono i giochi degli atleti e, repentinamente tolti gli opposti pulpiti, sempre nel medesimo giorno Curione poté far avanzare dai suoi gladiatori quelli che avevano vinto. (Per quanto faraonica l'idea di Curione rientrava in una sua logica, parimenti citata da Plinio nel libro XXXIV, legata all'uso romano in età repubblicana di realizzare teatri mobili: ed il meccanismo di Curione poté essere anche connesso al divieto di erigere in Roma quelli che erano detti, dal sito di erezione nell'età di Silla, Campana Luxuria, cioè gli Anfiteatri: cosicché Curione, nonostante i cenni moralistici che Plinio non gli risparmia, poté esser solo un anticipatore, visto che già solo 24 anni dopo, nel 29 a. C., Statilio Tauro realizzò in Campo Marzio un Anfiteatro stabile.

Francesco Ottaviani


Il ponte di Traiano

Si parla spesso del Ponte di Traiano come riferimento alla conquista della Dacia. Ma, nonostante la sua rappresentazione scolpita sulla Colonna, la sua costruzione è stata posta fortemente in dubbio fino a pochi anni fa. E pensare che Cassio Dione e Procopio ne avevano lasciato una descrizione. 
Eppure, non lo crederete, ma molti Storici hanno ritenuto per molto tempo che la tradizione di un ponte retto da giganteschi piloni di muratura piantati nel fondo del fiume fosse solo una leggenda. Traiano aveva certamente passato il Danubio, asserivano, forse fuorviati dalle immagini relative alla prima guerra dacica, ma probabilmente si era servito di un lungo ponte di barche. La principale prova addotta da loro era la presunta assenza di vestigia dei giganteschi piloni. In realtà, alcune tracce importanti dei pilastri erano state già rilevate a fine ottocento e nella prima metà del novecento ma la loro attribuzione era rimasta dubbia. Finalmente, nel 2009 giunse la conferma che un gruppo di ricercatori serbi aveva portato felicemente a termine una lunga campagna di sopralluoghi subacquei per la localizzazione e definizione della struttura del ponte di Traiano. E così, finalmente, la leggenda è diventata storia. Ma sentiamo cosa diceva Cassio Dione:
"Traiano ha costruito sopra il Danubio un ponte di pietra che non posso ammirare abbastanza. Sebbene le sue opere siano brillanti, questa le supera tutte. Per esso ci sono venti pile di pietra quadrata, centocinquanta piedi d’altezza al di sopra delle fondamenta, sessanta di larghezza, e queste stanno alla distanza di centosettanta piedi l’una dall’altra e sono collegate da archi.
Allora, come si fa a non rimanere sorpresi della spesa fatta per costruire tali archi, o dal fatto che essi siano stati piazzati su di un fiume così profondo, in acque così piene di vortici e su di un fondo così fangoso.
Per questo era naturalmente impossibile deviare il fiume altrove. Io ho parlato della larghezza del fiume; ma il fiume non è uniformemente così stretto, in alcuni tratti esso è il doppio, in altri il triplo e oltrepassa addirittura la riva.
Ma il punto più stretto ed il più adatto nella regione è quello della larghezza appena citata. Tuttavia il fiume ha in questo punto del suo corso un grande flusso d’acqua per un così stretto canale, dopo il quale esso si espande in un tratto ancora più grande che rende il fiume ancora più violento e profondo e questa peculiarità deve essere considerata nella stima della difficoltà di costruzione del ponte.
Anche questa è una delle particolarità che dimostra la grandezza dei disegni di Traiano, in ogni modo il ponte tutt’oggi non è utilizzabile. Solamente le pile sono in piedi, non permettendo ad alcun mezzo di attraversare il fiume, come se esse fossero state erette per il solo proposito di dimostrare che non c’è nulla che l’ingegnosità umana non possa compiere. Traiano ha costruito il ponte perché temeva che in un qualsiasi momento in cui il Danubio si fosse congelato durante una guerra, i Romani avrebbero potuto essere superati sull’altra sponda in Dacia, così egli si augurava di facilitare l’accesso alle sue truppe ed ai loro mezzi. Adriano, al contrario, aveva paura che esso potesse facilitare l’assalto da parte dei barbari, una volta neutralizzata la guardia sul ponte, per accedere in Moesia, e così egli ha rimosso la struttura di legno."
E, riportando le misure romane alle nostre, questi sono i numeri
lunghezza: 1135 metri;
larghezza del fiume: 800 metri;
larghezza del ponte: 15 metri;
altezza sul pelo dell’acqua: 19 metri;
altezza dei piloni: 45 metri;
distanza tra i piloni: 38 metri

Non si conoscono esattamente le cause che portarono alla sua definitiva rovina. Il ponte finì distrutto da Aureliano quando l'impero romano rinunciò alla provincia dacica ritirando le sue forze, oppure, come riporta Procopio, disgregato dall'opera delle correnti e del tempo. 
I venti pilastri erano ancora visibili nel 1856, anno in cui il livello del Danubio scese a livelli record. Nel 1906, la Commissione internazionale per il Danubio decise di distruggerne due perché ritenuti di ostacolo alla navigazione. 
Nel 1932 sopravvivevano ancora 16 pilastri sotto il livello dell'acqua, ma nel 1982 gli archeologi riuscirono a mapparne solo 12, gli altri quattro essendo stati probabilmente portati via dalla corrente.

Un'iscrizione commemorativa, larga 4 metri e alta 1,75, nota come Tabula Traiana, scolpita direttamente nella roccia, celebra il completamento di un'opera; ma, a differenza di quanto potreste pensare, non si riferisce al Ponte; si trova sul lato serbo, rivolta verso la Romania. Vi si legge: 
«L'imperatore Cesare Nerva Traiano Augusto, figlio del divo Nerva, vincitore dei Germani, Pontefice Massimo, quattro volte investito della potestà tribunizia, Padre della Patria, Console per la terza volta, scavando montagne e sollevando travi di legno questa strada ricostruì.»
La dedica si riferisce, quindi, a quella «spettacolare strada», lambita dal corso del Danubio, che i genieri romani aprirono nel 33-34, intagliandola tra le rocce a picco delle gole di Kazan. Della strada, inghiottita dalle acque dopo la costruzione della diga Ðerdap nel 1972, nulla è più visibile se non qualche breve tratto; la stessa Tabula Traiana, originariamente posta lungo il percorso, è stata salvata dall'innalzamento del livello delle acque solo grazie al sollevamento, per 20 metri, dell'imponente blocco di roccia in cui era ricavata, insieme a 7,5 metri della strada romana su cui essa sorgeva.
Ma non è finita qui: nonostante la sua imponenza, il ponte fu realizzato in un arco di tempo incredibilmente breve; una possibile spiegazione è che il fiume, durante la costruzione, fosse stato deviato per mezzo di qualche opera idraulica, sebbene Cassio Dione (II-III secolo) escluda una simile possibilità. Il più tardo Procopio (VI secolo) fa invece un chiaro riferimento alla deviazione del fiume, anche se collegandola alla navigazione e non alla costruzione del ponte, argomento sul quale dichiara di non volersi soffermare, vista la disponibilità a quel tempo di un esteso trattato di Apollodoro, per noi invece perduto.
Ma quella che in passato era solo un'ipotesi, sembra riaffacciarsi grazie ad un'epigrafe che fornisce la prova documentale definitiva della realizzazione del canale. L'iscrizione così recita: 
IMP CAESAR DIVI NERVAE F / NERVA TRAIANVS AVG GERM / PONT MAX TRIB POT V P P COS IIII / OB PERICVLVM CATARACTARVM / DERIVATO FLVMINE TVTAM DA / NVVI NAVIGATIONEM FECIT
«[...] Traiano [...] deviato il fiume a causa del pericolo delle cateratte rese sicura la navigazione sul Danubio».
Quindi Traiano non si è limitato a realizzare il Ponte, opera di per sé spettacolosa, ma ha fatto sia deviare il corso del Danubio che realizzare una strada militare intagliata tra le rocce e i dirupi.
Che altro ancora? E già, dimenticavo: ha conquistato la Dacia.....

Francesco Ottaviani

Ad clivus Aquilae.. SVB AQVILA 2021

193 a.C.   ...Una volta rese sicure le principali strade di collegamento con il nord (la via Flaminia tra Forum Semproni e Ariminum, e la Flaminia Militaris tra Arretium e Bononia), è stato ordinato di debellare la piaga dei ribelli anche nelle zone attraversate dalla viabilità secondaria. Tra queste desta particolare preoccupazione l’antica Via Ariminensis, che collega Arretium con Ariminum e che scavalca l’Appennino tra la valle del Tevere e la valle del Marecchia. La strada non è ancora sicura e si sospetta che i ribelli trovino rifugio in alcuni vicini villaggi di montagna abitati da popolazioni galliche.
Nelle vicinanze della strada sorge il villaggio gallico di Epona, abitato da genti apparentemente pacifiche: ma è forte il sospetto che il villaggio costituisca la base logistica dei ribelli che si nascondono tra le montagne…
Svb Aqvila 2021
Poggio dell'Aquila -Pieve Santo Stefano (AR)
29-30 maggio 2021


domenica 2 maggio 2021

SVB AQVILA 2021

...193 a.C.  ...Una centuria di legionari scorta il tribuno Aulo Cilnio Mecenate, che si sta recando ad Ariminum per unirsi ad un esercito consolare in partenza per il nord; partita da Sulpitia (Pieve Santo Stefano) la colonna romana dovrà fermarsi per la notte sulle alture del Clivus Aquilae (Poggio dell’Aquila) per poi affrontare il passo di Via Maior (Viamaggio) ed entrare nella valle del Marecchia che scende verso Ariminum...
Nessuno sa cosa succederà il 29 e 30 maggio 2021, se non chi ci sarà, caligae e sarcina in spalla, e Roma nel cuore...
Svb Aqvila 2021
Poggio dell' Aquila - Pieve Santo Stefano (AR)
29-30 maggio 2021
Evento di rievocazione storica e archeologia sperimentale.



Poggio dell'Aquila
https://maps.app.goo.gl/5MD3KwBWycbbU2EL6